La società ‘piatta’ della destra

Dove stiamo andando/10 – Il precedente governo si è distinto per l’attacco a quelle formazioni che stanno fra lo Stato e la società e ne grantiscono l’articolazione per mezzo di una pluralità di strutture, di ordinamenti, di poteri. Un pluralismo sancito dalla Costituzione per evitare di cadere negli estremi del liberismo classico e dell’assolutismo statale

(Decimo e ultimo articolo di una serie – il primo – il secondo – il terzo – il quarto – il quinto – il sesto – il settimo – l’ottavo – il nono)

 

Per completare il quadro, c’è da aggiungere infine che, al deperimento della democrazia, contribuisce il progressivo svuotamento del “pluralismo”. Inteso non come diversità di opinioni, che nessuno potrà mai sopprimere, ma come pluralità di strutture, di ordinamenti, di poteri.

 

Sebbene il tema sia rimasto finora ai margini del dibattito pubblico esso ha un grande impatto con la qualità della democrazia. In una delle norme iniziali della nostra Costituzione è sancito il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità”. Quindi secondo l’articolo 2 della nostra Costituzione le “formazioni sociali” (vale a dire i corpi intermedi tra società e Stato) sono considerate essenziali per contribuire allo “svolgimento” della personalità. La norma contenuta nell’articolo successivo proclama il principio di eguaglianza (con riguardo agli impedimenti da rimuovere) e  parla nuovamente del “pieno sviluppo della persona umana”. I padri costituenti hanno perciò voluto esplicitamente riconosce ed incoraggiare formazioni “intermedie” tra l’individuo e lo Stato, affermando il loro diritto ad esplicare la propria autonomia e realizzare interessi di natura privata collettiva.

 

Questa visione risponde ad un disegno politico che, nelle intenzioni dei costituenti, voleva superare (ed anzi apertamente rifiutare) due vicende estreme. Ben conosciute negli avvenimenti storici dell’età moderna e teorizzate sul piano delle ideologie che avevano tenuto il campo nella prima metà del secolo scorso. Detto in termini elementari le due esperienze possono essere riassunte nel liberismo classico e nell’assolutismo statale. Considerati nelle manifestazioni più esasperate quali sono stati: il divieto di costituzione delle associazioni operaie negli ordinamenti liberali e l’accentramento nello Stato di ogni compito socialmente apprezzabile nelle dittature del secolo ventesimo.

 

In sostanza, la necessità di superare l’unilaterale e riduttiva visione dei rapporti pubblici, propria dell’individualismo e dell’assolutismo, ha portato ad indicare nel “pluralismo” l’alternativa alle due concezioni, che tanti problemi e tante sofferenze avevano prodotto. Perciò in larga misura il tema delle “società intermedie” ha finito per coincidere ed in qualche misura si è identificato con il tema del pluralismo. Cioè con una società che si è voluta e si vuole articolata in: partiti politici, organizzazioni sindacali, confessioni religiose, associazioni che perseguono finalità di assistenza ed educazione. Quindi nell’ambito dell’ordinamento statale i gruppi qualificati come “intermedi” si situano tra il singolo e lo Stato per ciò che attiene agli interessi di cui assumono la cura e la rappresentanza, cercando di promuoverne la realizzazione. Come è facile capire si tratta di interessi non individuali e quindi non riferibili alla persona isolatamente considerata. Tuttavia la loro natura collettiva non conduce nemmeno a confonderli o ad assorbirli negli interessi della totalità dei cittadini.

 

Insomma esiste una distinzione tra “pubblico” e “privato”, con riguardo rispettivamente agli interessi coltivati ed all’autonomia esercitata. Da questo punto di vista la nozione di interesse è indispensabile per comprendere i singoli rapporti che cadono sotto la previsione ed il regime della legge. A questo proposito si può tenere ferma la parola “interesse” nell’elementare significato sociale ed economico. Vale a dire ciò che lega l’interesse ai bisogni. Intendendo i bisogni nella maniera più larga. Cioè con esigenze materiali insopprimibili come: il cibo, l’abitazione, la salute, il lavoro, l’istruzione, l’educazione; fino a giungere alle necessità che richiedono un certo grado di sviluppo e di organizzazione della società quali l’iniziativa economica, il salario ed il profitto, il risparmio e la previdenza. Il tutto per fronteggiare gli eventi incerti della vita. E di poterlo fare con la solidarietà tra i componenti di una classe. Ai fini di difesa contro classi o gruppi antagonistici. Ovviamente la natura degli interessi porta a qualificare un determinato rapporto giuridico come “pubblico” o “privato”. E come insegna Pietro Rescigno, un maestro del diritto pubblico, “nel rapporto di diritto pubblico si perseguono interessi con carattere di generalità. Cioè relativi alla totalità dei cittadini. Mentre nei rapporti di diritto privato l’interesse ha carattere particolare”. Anche quando riguarda quindi gruppi numericamente consistenti. Perché “particolare” non vuol dire affatto, sempre e solamente individuale.

 

Sarà per le difficoltà del tema, oppure per lo scontro (non sempre esplicito) tra culture diverse, resta il fatto che in Italia si è spesso verificata una lettura riduttiva del dettato costituzionale. La lettura limitativa ha frequentemente portato a considerare nella norma una accentuazione marcata ai diritti dell’uomo piuttosto che le formazioni sociali. E, sulla base di esperienze maturate lontano da noi, i diritti individuali della persona entro le formazioni sociali. Questa attitudine è abbastanza pericolosa perché induce nella politica la tentazione di controllarle dall’esterno. Magari con il pretesto di giudicare se ed in quale misura, nell’ambito delle diverse formazioni sociali, siano rispettati i diritti del singolo. Con il rischio di qualificare inviolabili pretese che attengono alla naturale dialettica che nei gruppi deve svolgersi tra singolo e collettività, tra le frazioni e le correnti, tra minoranza e maggioranza.

 

In questo quadro non resta che chiedersi quale sia lo stato dell’arte del pluralismo in Italia. Quali siano state e siano tutt’ora la concrete esperienze che hanno caratterizzato la società italiana. La constatazione che al riguardo può essere fatta è che, in certi periodi essa ha sperimentato la capacità dei gruppi (incluso il sindacato) di vivere secondo la propria logica, la propria ragione d’essere e di operare. Ma, in altri momenti, ha anche mostrato i limiti di autonomia e persino, in alcune situazioni, la incapacità ad esplicarla e realizzarla nella sua pienezza. Naturalmente queste oscillazioni riflettono anche, particolarmente per quanto riguarda il sindacato, i condizionamenti derivanti dalla congiuntura politica ed economica. In ogni caso, il dato incontrovertibile è che soprattutto nella attuale crisi economica e sociale, il pluralismo ha finito per essere relegato tra parentesi. Si può dire che, di fatto, è finito fuori corso. E con esso, in larga misura, il ruolo autonomo delle parti sociali. Inclusa la disciplina delle condizioni e del rapporto di lavoro.

 

Ad impegnarsi particolarmente in questa direzione è stato il governo in carica tra il 2008 ed il 2011. Tant’è vero che, dopo diversi batti e ribatti, alla fine è intervenuto a gamba tesa nella querelle relativa alle tutele garantite, fino a quel momento, al mondo del lavoro. Sia attraverso la legge che i contratti. Lo ha fatto (nell’estate del 2011) con un provvedimento finalizzato alle esigenze di stabilizzazione finanziaria. Anche per questo, alla maggioranza degli osservatori, l’articolo 8 di quel provvedimento, che avrebbe dovuto consentire alla contrattazione collettiva di derogare in peius  alle condizioni di lavoro stabilite dai contratti nazionali e dalle leggi, è apparsa subito una norma eccentrica ed intrusa. Eccentrica, perché teoricamente consente di derogare, mediante accordo aziendale o territoriale, anche alla normativa inderogabile. Ciò che infatti ha colpito non pochi esperti è che il legislatore ha attribuito alle parti sociali il compito di neutralizzare la legislazione in tutta la sua ampiezza con un atto normativo collettivo, mentre la norma legale rimane inderogabile a livello individuale. Intrusa, per la evidente ragione che essa non era assolutamente in grado di produrre effetti, nemmeno minimi, sulla crescita del lavoro e sui conti pubblici. Non poteva perciò beneficiare nemmeno dell’alibi di dover fare fronte ad uno stato di necessità e di urgenza. Quindi, l’unico risultato tangibile di quel provvedimento è stata la conferma che l’intento del governo non aveva altri scopi se non quello di provare a mettere “fuori gioco” le parti sociali. Le quali, quanto meno sul piano formale, hanno tentato di rimediare all’indebita “invasione di campo” confermando la loro adesione all’accordo che avevano stipulato il 28 giugno. A questo punto però, l’esito non propriamente brillante delle due discipline si risolve in una sorta di cortocircuito normativo che certo non è fatto per aiutare la regolazione dei rapporti di lavoro.

 

C’è da dire inoltre che, sebbene in forme assai diverse, anche il “governo tecnico” non ha esitato a dichiarare (ricevendo per altro un diffuso consenso tra le élite del potere e sui media) che, stante la gravità della crisi, si può e si deve in sostanza fare a meno del sindacato e della contrattazione. Nel senso che il sindacato  (per ragioni di buona educazione) può essere consultato, ma alla fine è il governo che deve decidere tempi, modalità e contenuti degli interventi. Tanto in materia di mercato del lavoro che di pensioni. Con la conseguenza ovvia di mettere in mora sia il negoziato tra le parti che ogni concreta idea di pluralismo. Il che dovrebbe, francamente, preoccupare. Perché, pur senza alcuna sottovalutazione delle urgenze imposte dalla drammaticità della situazione economico e sociale, il risultato di simili scelte è che producono una modifica (purtroppo anch’essa in peius)  della natura e della qualità della stessa democrazia. Il che, oltre tutto, non è certo l’ingrediente più utile per uscire da una condizione unanimemente giudicata di sicura pericolosità.

 

Alle considerazioni fin qui svolte potrebbero, ovviamente, esserne aggiunte diverse altre. Ma quelle richiamate dovrebbero essere ritenute sufficienti per allertare tutti in ordine al fatto che il deterioramento della situazione economica e sociale tende a portare con sé un parallelo deterioramento della situazione democratica. E questo non può essere considerato alla stregua di un problema secondario,  marginale. In quanto nessuno può illudersi che un male possa essere curato semplicemente addizionandone un altro. Rischierebbe infatti di andare soltanto incontro a delusioni particolarmente gravi. E comunque la guarigione diventerebbe ancora più problematica. Soprattutto in un caso come quello italiano, dove i salari non bastano, le diseguaglianze crescono, il lavoro diminuisce.

 

In conclusione. Si usa dire, di solito, che al futuro bisogna sempre guardare con ottimismo. Ma, per non sottrarsi a questa regola, l’Italia dovrebbe dimostrarsi capace di evitare errori, mosse avventate, o inutilmente propagandistiche. Ed, anche al fine di salvaguardare ed irrobustire la democrazia, dovrebbe finalmente incominciare a distinguere i problemi veri da quelli immaginari. Malgrado questi ultimi siano spesso amplificati dalla vulgata mediatica. Certo, considerato il carattere degli italiani, si può forse pensare che non sia un compito facilissimo. Tuttavia, non dovrebbe nemmeno essere giudicato impossibile.

 

                                                                                                                                                               (fine)

Domenica, 30. Settembre 2012
 

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