Il lavoro è poco, va redistribuito

Dove stiamo andando/8 – Tra i paesi industrializzati l’Italia ha il più basso tasso di persone occupate sul totale di quelle in età di lavoro. In alcuni settori sommerso arriva al 57 per cento. Le prospettive dell’economia continuano ad essere negative, quindi l’occupazione certo non aumenterà. L’unica soluzione possibile è ridurre gli orari. Impossibile? No, a certe condizioni

(Ottavo articolo di una serie – il primo – il secondo – il terzo – il quarto – il quinto – il sesto – il settimo)

 

Malgrado tutti i cambiamenti intervenuti, il lavoro resta la questione cruciale del nostro tempo. Lo è per la maggior parte dei paesi europei ed occidentali. Lo è in termini particolarmente seri per l’Italia. Per rendersene conto non c’è alcun bisogno di analisi dettagliate. sufficiente prendere atto che l’Italia ha il più basso tasso di attività (cioè persone occupate sul totale delle persone in età di lavoro) rispetto a tutti i paesi industrializzati. Che ci sono due milioni di giovani (il 22,1 per cento del totale) che non studiano e non lavorano. Molti hanno anche smesso di cercare un lavoro perché, dopo numerosi tentativi infruttuosi, si sono ormai convinti di non riuscire a trovarlo. Nell’Europa a 27 solo la Bulgaria sta peggio di noi.

 

Se i giovani sono scoraggiati i disoccupati non sono da meno. Perché perso un lavoro, per trovarne un altro devono attendere mesi e mesi. Per gli ultracinquantenni disoccupati trovare un nuovo posto equivale quasi sempre ad un miraggio. In Italia, certifica l’Istat, la disoccupazione di lunga durata sta aumentando ad un ritmo assai preoccupante. Oltre il 48,5 per cento dei senza lavoro resta tale per più di un anno e, non di rado, per più anni. Al dramma del lavoro che non c’è, informa sempre l’Istat, va aggiunto quello del lavoro nero. La quota di lavoro irregolare è infatti pari al 12,3 per cento. Se si guarda al Sud, un occupato su cinque è fuori da ogni regola. Uno su quattro, se si limita l’analisi alla agricoltura. L’economia sommersa viene stimata al 17 per cento del Pil. Quota che arriva al 20 per cento se non si tiene conto della Pubblica amministrazione. Comparto nel quale non c’è (o non ci dovrebbe essere) lavoro nero. In altri settori, come alberghi, pubblici servizi (in particolare bar), assistenza alla persona (badanti, lezioni private, custodia di bambini), il sommerso arriva al 57 per cento.

 

A questo quadro già desolante sono utili un paio di aggiunte La prima consiste nel ricatto intollerabile della pratica delle “dimissioni in bianco”. Accade nei cantieri, nei negozi, nei centri commerciali, nelle botteghe artigiane, nelle imprese. Tra le ricamatrici di abiti da sposa di Barletta, come tra gli operai metalmeccanici di Terni. Nelle aziende in crisi, come in quelle sane. Dove ci sono 10 dipendenti, ma anche 50, od alcune centinaia. Al Sud come al Nord. Si tratta di una delle piaghe più occultate ed invisibili del mercato del lavoro in Italia. La clausola nascosta del 15 per cento dei contratti a tempo indeterminato. Un ricatto che colpisce quasi due milioni di dipendenti. In gran parte donne. La trappola è semplice da mettere in atto. Al momento dell’assunzione al dipendente viene fatta firmare una lettera di dimissioni senza data. Quindi in qualunque momento può essere obbligato dal datore di lavoro ad andarsene. Se la procedura è facile, le conseguenze sono invece disastrose. Perché si tratta apparentemente di dimissioni e non di licenziamento. Perciò una volta fuori, il lavoratore non gode di nessun ammortizzatore sociale. Si ritrova quindi senza lavoro e senza nessun sostegno. Solo con sé stesso. I recenti provvedimenti sul lavoro prevedono che venga effettuata una verifica (anche da parte dei sindacati) sui motivi reali delle dimissioni. Vedremo se sarà davvero efficace contro questa piaga.

 

La seconda riguarda i contratti atipici. Alcuni anni fa nel dibattito politico si era fatta strada la convinzione che il modesto tasso di attività dell’Italia andasse imputato, più che alla mancanza di domanda di lavoro, alla rigidità delle forme di rapporto di lavoro. Perciò, sull’onda della moda irrefrenabile a favore della “flessibilità”, il legislatore ha provveduto a moltiplicare le tipologie  contrattuali. Il risultato di tale fervore è stata la creazione di 46 tipi di contratti diversi. In realtà sul numero c’è una piccola controversia. Le 46 tipologie censite dalla Cgil, diventano 19 per la Confindustria e 26 per i Consulenti del lavoro. Dietro queste differenze c’è semplicemente il fatto che Confindustria e Consulenti accorpano in un’unica voce diversi tipi di contratto che essi considerano analoghi. Mentre la Cgil elenca puntigliosamente ed analiticamente tutte le varianti contrattuali. Tuttavia, a parte questa disputa, tutti si dicono invece d’accordo sul fatto che di forme possibili di rapporti ce ne siano troppe. Anche per la buona ragione che quelle effettivamente utilizzate sono molto poche.

 

Non è quindi da escludere che il buon senso porti ad uno sfrondamento. L’unica cosa certa infatti è che da questa proliferazione non è cresciuto (come per altro molti avevano preannunciato e verosimilmente si attendevano) il numero degli impieghi, quanto piuttosto  l’espansione del lavoro a tempo, parasubordinato, intermittente. In una parola del lavoro incerto, insicuro, precario. Che infatti ha ormai raggiunto e superato i 4,5 milioni di unità. Il che significa che per tutte queste persone, o la maggior parte di loro, è impossibile fare ragionevoli progetti di vita. Come sposarsi, fare figli. Non occorre un particolare intuito per capire che le conseguenze di questo sviluppo non riguardano solo il destino degli interessati, ma l’intera comunità. Sia per le dinamiche sociali che una tale situazione determina, che per le stesse prospettive democratiche dell’intero paese.

 

Stando così le cose ci si dovrebbe aspettare che le forze politiche e sociali siano mosse dall’assillo irrefrenabile di misurarsi con i termini reali della questione. Che fondamentalmente è quella di aumentare l’occupazione. Di questo però, allo stato, non si vedono decisioni credibili e misure convincenti. Infatti non si va oltre gli auspici ed i propositi di un generico impegno a favore della crescita. Impegno che dovrebbe portare a maggiori investimenti ed a maggiore occupazione. Purtroppo però i pronostici restano tutti sfavorevoli. Secondo l’Ocse infatti l’economia italiana rimarrà in recessione. Tanto nel 2012, che nel 2013. Poi si vedrà.

 

Non è difficile capire che, con questi lumi di luna, è assolutamente improbabile che il lavoro possa aumentare. Se ne dovrebbe quindi trarre la necessaria conclusione. Infatti, se l’occupazione è una vera priorità del paese, la cui soluzione non può essere procrastinata ad un futuribile arrivo di “anni di vacche grasse” (o perlomeno non altrettanto magre di quelle attuali), non c’è altra strada che mettere mano ad redistribuzione del lavoro esistente. Tanto più che il punto, dal quale ogni discussione concreta sul tema non può che partire, è che nelle condizioni attuali, il lavoro effettivamente disponibile non è sufficiente per tutti coloro che vorrebbero lavorare. Quindi, per cambiare davvero la situazione non c’è altra strada che quella di una riduzione degli orari, in funzione di una diversa ripartizione del lavoro. Esattamente come si fa (nel caso dell’Italia sarebbe meglio dire si dovrebbe fare) per il reddito. La sola differenza tra le diseguaglianze nella distribuzione del reddito e le ineguaglianze nella distribuzione del lavoro è che le prime deprimono soprattutto la crescita, le seconde fanno deperire anche la democrazia.

 

Sappiamo però che un programma politico di questa natura si scontra con forti obiezioni e resistenze. La principale si basa sulla affermazione che, per essere plausibile, un tale progetto dovrebbe venire adottato contemporaneamente da tutti i principali paesi industrializzati. Diversamente risulterebbero compromesse le condizioni di competitività di quei paesi che avessero deciso di camminare autonomamente su questa strada.  A prima vista, l’obiezione può sembrare ragionevole. In realtà è solo infondata. Perché ciò che influisce sulla competitività è il differenziale di produttività per ora lavorata. Oltre naturalmente all’efficienza dell’intero sistema economico, inclusa la funzionalità della pubblica amministrazione. Esattamente la ragione che consente alla Germania di pagare salari del 50 per cento maggiori dell’Italia, pur rimanendo (in molti settori) più competitiva dell’Italia.

 

Ovviamente la manovra sugli orari può e deve essere considerata una misura pro-ciclica.

Nel senso che quando il ciclo economico è in una fase espansiva (e dunque i disoccupati diminuiscono) gli orari possono fisiologicamente tendere ad aumentare. Al contrario, quando il ciclo economico è in una fase recessiva o stagnante (come è appunto il caso dell’Italia) gli orari dovrebbero invece diminuire. Altrimenti, per quanto indesiderabile e deplorata, la sola alternativa realistica diventa la diminuzione del numero degli occupati. E dunque l’aumento della disoccupazione. Che nessun esorcismo verbale è in grado di evitare. 

 

Naturalmente per rendere praticabile ed efficace la ripartizione del lavoro si deve discutere: delle modalità di attuazione, della presumibile durata, delle condizioni di accompagnamento che la rendano possibile. Quel che è certo è che, se l’occupazione viene considerata (e non solo a parole) una questione cruciale, il tema non può essere relegato a cenacoli nei quali si confrontano accademicamente sostenitori e detrattori della ripartizione del lavoro.

 

Tanto meno aggirato con l’invenzione di questioni estemporanee. Come quelle relative alla disputa sull’articolo 18 dello Statuto. Che, con l’aumento della occupazione, non hanno nessun rapporto. Né diretto, né indiretto. Si tratta infatti semplicemente di un maldestro tentativo di parlare d’altro. O persino di un tuffo nel passato. Infatti fa tornare alla mente Bisanzio. Dove, con Solimano alle porte, il dibattito e lo scontro ruotavano intorno all’incredibile diatriba sul “sesso degli angeli”. Sarebbe stato perciò auspicabile che, avendo già l’Italia un buon numero di problemi seri e veri, non venisse assecondato il tentativo di aggiungervene anche di puramente immaginari.

                                                                                                                                                            (segue)

Martedì, 4. Settembre 2012
 

SOCIAL

 

CONTATTI