Se la democrazia diventa retorica

Dove stiamo andando/9 - In un contesto in cui il potere della politica nazionale viene ridotto sia dai colpi dell’economia globalizzata, sia delle cessioni di sovranità all’Unione Europea, lo stesso termine “democrazia”, osserva Zagrebelski, “sembra diventare l’ostentazione dei potenti per rivestire la propria supremazia”. Di qui il diffuso disamore per la politica

(Nono articolo di una serie – il primo – il secondo – il terzo – il quarto – il quinto – il sesto – il settimo – l’ottavo)

 

Come tutte le cose viventi anche la democrazia, se non alimentata, deperisce.  Sicché sulla democrazia, come su ogni altra forma di governo, incombe sempre il pericolo dello sfinimento, dell’esaurimento. Questo è un dato dell’esperienza che non può essere negato. Per risultare vitali le forme di governo democratiche devono quindi essere animate dal principio che Montesquieu definiva: “ressort”. Vale a dire: “giurisdizione”, “competenza”, “risorsa”. E la principale risorsa della democrazia è la virtù repubblicana. Perciò, quando questa molla non è più in tensione, incomincia inesorabile la decadenza.

 

A  quel punto si pone la questione, gravida di conseguenze pratiche, se l’esito finale del processo di corrosione, di decadenza, sia o non sia evitabile. In proposito una incidenza particolarmente negativa hanno quelle che Norberto Bobbio ha descritto come “le promesse non mantenute della democrazia”. Quindi l’interrogativo di fondo, che non può essere eluso, è se le promesse della democrazia possono o non possono essere mantenute. Perché se le promesse possono essere mantenute e non lo sono, la responsabilità ricade sull’insieme dei cittadini che non esercitano il loro diritto-dovere, il loro compito di vigilare e farsi sentire affinché passi indietro non vengano compiuti. Se invece non possono essere mantenute, la democrazia in stessa si trasforma  in un regime dell’inganno e della corruzione. Addirittura in un regime che “seduce con l’apparenza” per dissimulare una sostanza repulsiva. Si può naturalmente ritenere che congetture così schematiche e radicalmente contrapposte, più che i termini reali del problema, esprimano un paradosso.

 

E il paradosso, come ha spiegato molto bene Gustavo Zagrebelski  (“L’interesse dei pochi, le ragioni dei molti”), consiste nel fatto che “mentre da parte dei potenti della terra si accentua la loro dichiarata adesione alla democrazia, cresce e si diffonde lo scetticismo presso chi studia l’attuale morfologia del potere e presso coloro che ne sono l’oggetto e, spesso, le vittime. Per secoli infatti la democrazia è stata la parola d’ordine degli esclusi dal potere per contrastare l’autocrazia dei potenti. Ora sembra diventare l’ostentazione di questi ultimi per rivestire la propria supremazia”. Questo non significa che presso i cittadini comuni stia maturando una predisposizione a politiche antidemocratiche. C’è piuttosto, scrive sempre Zagrebelski, “un accantonamento, un fastidio diffuso, un ‘lasciatemi in pace’, con riguardo ai panegirici sulla democrazia.” Apologia che “sulla bocca dei potenti per lo più trasmette una ideologia al servizio del potere e, nelle parole dei deboli, suonano spesso come vuote illusioni”.

 

Secondo questa interpretazione, il crescente disinteresse verso le vicende della politica, potrebbe esprimere anche una reazione anti-retorica, rispetto alla retorica democratica. Tuttavia, quando sempre più spesso, non solo nei discorsi da bar ma sui media, si afferma “tanto sono tutti uguali” (con riferimento all’intera classe dirigente), non significa forse che, non questa o quella specifica scelta politica, ma la democrazia in quanto tale ha perso di valore (e significato) presso questi cittadini? Non significa forse che essi la considerano semplicemente la vuota rappresentazione o l’occultamento di un potere dal quale essi sono comunque esclusi? Un  teatro sul cui palcoscenico l’élite del potere si divide puramente e semplicemente le parti in commedia?

 

Naturalmente l’esito di questo convincimento diffuso può essere assai diverso. Può infatti portare tanto all’astensione, che all’adesione passiva e routinaria. Nell’uno e nell’altro caso ad un distacco. Ad un disamore per la politica (e, dunque, per la democrazia) che c’è. Che non è semplicemente l’invenzione di qualche commentatore agnostico, qualunquista. Ed esso produce uno scetticismo a-democratico dal basso che fa da pendant alla retorica democratica dall’alto.

 

A complicare le cose per quanto riguarda  le prospettive democratiche debbono essere tenute presenti le importanti modifiche della morfologia e della sintassi del potere politico. La prima concerne il fatto che, in termini reali, il potere decisionale rimasto in capo alla politica nazionale è stato progressivamente ridimensionato. I fattori che hanno contribuito a rattrappirlo sono stati fondamentalmente due. Il primo consiste nelle crescente subordinazione all’economia ed alla finanza. Il secondo ha a che fare con il costante trasferimento di competenze a livello sovranazionale. Nel nostro caso, in particolare all’Unione Europea. Queste dinamiche contribuiscono a spiegare perché il ruolo del ceto politico “nazionale” sia in sensibile contrazione. Con un occhio particolarmente rivolto alla situazione italiana, alcuni critici hanno teso a spiegare il  ridimensionamento della funzione politica nazionale, con l’inettitudine e l’inconcludenza del suo ceto politico. Aspetto indiscutibilmente presente, ma tutto sommato secondario. Perché le cause sono strutturali.

 

La prima attiene all’avvento dell’economia globale, con la modifica sulla distribuzione del potere che tale fenomeno ha prodotto. In effetti, quando il potere fluisce (ed ora fluisce soprattutto su scala globale) le istituzioni politiche nazionali e territoriali (anche quando non risparmiano discorsi enfatici e propagandistici) sono in una qualche misura compartecipi della miseria di quanti sono “legati alla terra”. Infatti il “territorio”, sempre più disarmato, che con ogni probabilità nessuno sforzo dell’immaginazione riuscirà più a far ridiventare autosufficiente, ha perso gran parte del suo valore e delle sue attrattive agli occhi di coloro che possono decidere di muoversi liberamente in qualunque parte del mondo. Esso diventa perciò un elemento sempre più sfuggente. Un sogno anziché una realtà per coloro che, incatenati ad una terra, vorrebbero bloccare (o per lo meno limitare) il movimento del capitale. Diventato ormai maestro del dileguamento. Succede quindi che, per quanti nell’economia e nella finanza beneficiano del potere della mobilità, il compito della gestione e dell’amministrazione di un territorio sia ritenuto un lavoro di poco conto, subalterno. Da delegare ad individui collocati in posizioni gerarchiche inferiori. Verso i quali, al più, può essere tollerato un certo tasso di corruzione. Magari anche per renderli ulteriormente vulnerabili.

 

Questo contrasto è anche il riflesso del fatto che ogni coinvolgimento verso un dato luogo ed ogni impegno nei confronti dei suoi abitanti è, non di rado, considerato dai capi delle multinazionali più una passività che una risorsa. Non a caso poche società multinazionali sono oggi disposte a concedere un investimento localizzato in un determinato territorio senza un “aiutino”. Cioè senza contributi a fondo perduto, senza incentivi agli investimenti, senza esenzioni fiscali per il trasferimento di profitti, senza finanziamenti alla ricerca. Il tutto naturalmente come “compensazione” ed “assicurazione contro i rischi”, richiesto ai governi ed alle autorità elettive di un determinato territorio, rispetto al vantaggio che poterebbe loro derivare dalla localizzazione in paesi a bassi salari ed ancor più bassi diritti per il lavoro.

 

Pesa inoltre il dato di fatto che il “tempo” e lo “spazio” sono stati distribuiti in maniera ineguale sui gradini della scala del potere globale. Coloro che ne hanno i mezzi tendono infatti a vivere nel tempo. Mentre la maggioranza priva di mezzi è costretta a vivere solo nello spazio. Cioè legata al territorio. Ovviamente per i primi lo spazio ha sempre meno importanza. Perché sul loro impero (come diceva Carlo V del suo) “non tramonta mai il sole”. Mentre i secondi cercano (con sempre minori possibilità di successo) di lottare con le forze di cui dispongono perché il territorio torni ad essere importante. Purtroppo, per ora, con poche o nessuna speranza.

 

L’altro grande fattore che influisce sulla progressiva debilitazione della politica nazionale (e quindi dell’impoverimento della democrazia) è conseguente al sempre maggiore trasferimento di competenze ad istituzioni internazionali. Compresa l’Unione Europea. Senza che sia stato affrontato e congruamente risolto il problema della legittimazione democratica di quest’ultime. Le vicende degli ultimi tempi legate ai debiti sovrani dei paesi europei sono illuminanti. Nessuno ovviamente nega che l’Europa e l’euro in crisi (e nell’anticamera di una nuova recessione) abbiano bisogno di più integrazione delle politiche macroeconomiche e di bilancio. Si potrebbe pensare persino, senza eccesivo scandalo, ad una iniezione di “virtù pubbliche tedesche”. Come chiede insistentemente la Germania. Tuttavia, il punto che merita di essere sottolineato è che il nuovo patto europeo (il “fiscal compact”) blinda in un nuovo trattato  qualcosa che rappresenta una crescente cessione di sovranità nazionale sulle leve di spesa. Senza che sia stato affrontato il problema della legittimazione democratica delle istituzioni europee e nemmeno quello della loro governance. Vale a dire le modalità di formazione delle decisioni che in quella sede vengono prese. Per dirla in soldoni si è deciso qualcosa che, nei fatti, assomiglia sempre di più alla germanizzazione delle politiche di bilancio dei paesi europei. Senza ottenere in cambio che  la Germania  acconsenta finalmente all’idea di una (parziale) messa in comune, con gli eurobond, delle emissioni sul mercato del debito dei paesi dell’eurozona. In effetti  la Germania si è limitata ad esigere garanzie dal resto del club assicurandosi che esso non possa più sbandare sul piano dei conti pubblici.

 

Si può essere estimatori o detrattori della Germania. Persino entrambe le cose insieme. Come capita ai più eclettici. Ma un punto non sembra discutibile. l’indisciplina di bilancio non è l’unico problema. Così come non è stata la causa del disastro. Provocato semmai dal credito allegro e dall’improvvido indebitamento del settore privato. Quindi la sola disciplina di bilancio non può essere la cura. Oltre tutto questo tentativo di ristabilire la catastrofica austerity di Heinrich Bruening (cancelliere tedesco dal 1930 al 1932) fa venire i brividi. Anche perché sappiamo bene come è andata a finire.

 

Per altro, la prospettiva incarnata nel “patto di bilancio” (nuovo e più stringente proposito di rilanciare il fallimentare “patto di stabilità e crescita”), difetta dell’indispensabile presa di coscienza che la produzione di uno Stato membro dipende dalla domanda di altri Stati membri. Dipende cioè dal ruolo giocato dagli squilibri nella bilancia dei pagamenti e dal fatto che la competitività è sempre relativa. Se infatti l’Italia e la Spagna vogliono diventare più competitive all’interno dell’area euro, la Germania e l’Olanda (in termini relativi) dovranno diventarlo meno. Inoltre se il settore privato è in surplus finanziario strutturale, i governi nazionali possono ridurre l’indebitamento ed eliminare il deficit di bilancio se (e solo se) il loro paese è in attivo strutturale nel saldo con l’estero. Insomma, se la loro bilancia dei pagamenti è strutturalmente attiva. Ciò che, appunto, succede al Giappone. Che, pur avendo un debito pubblico stratosferico, non è considerato un “paese a rischio”. La Germania dovrebbe essere la prima a capirlo. Perché è esattamente questa anche la sua condizione. Mentre, i paesi colpiti da una crisi finanziaria, per riuscire ad eliminare il loro disavanzo strutturale di bilancio, devono andare in attivo nel saldo con l’estero. Proprio come la Germania. Altrimenti finiscono solo in recessione. Per altro il punto che si deve avere chiaro è che non possono essere in attivo tutti gli Stati membri. A meno che non lo diventi l’eurozona nel suo insieme.

 

Quindi, ciò che dovrebbe essere più o meno evidente a tutti è che senza strumenti come gli eurobond e nuovi compiti della Banca Centrale Europea, nel giro di pochi anni, l’unione monetaria potrebbe ricevere tali attacchi e sviluppare tali distorsioni da non riuscire a resistere. Oggi queste tensioni si stanno sviluppando sotto forma di tempesta sui debiti,  per i paesi più esposti su tale fronte. Ma incominciano ad essere sempre più evidenti anche in altre direzioni. La più esplosiva riguarda il sorgere di nuove frontiere. Nell’area euro le persone possono circolare liberamente, mentre il denaro lo fa sempre di meno. Il sistema finanziario si sta infatti frammentando lungo le linee nazionali dei 17 paesi. E’ come se, ai tempi della lira, il denaro della Lombardia fosse rimasto solo in Lombardia, quello del Lazio solo nel Lazio. Oggi il debito italiano viene comprato sempre più  da investitori, banche e famiglie italiane. E’ crollato il peso dei creditori francesi. Che prima avevano una esposizione per circa 400 miliardi. Di recente una grandissima banca europea ha deciso di distribuire in Italia solo le risorse raccolte in Italia. E’ come se Unicredit o Intesa Sanpaolo prestassero nelle Marche solo i soldi raccolti nelle Marche.

 

Questa situazione potrebbe teoricamente reggere solo se ogni Stato dell’eurozona avesse una bilancia dei pagamenti in equilibrio. Ma, come già detto, non è cosi. E proprio questa è una delle cause principali della crisi. Alcuni hanno un notevole surplus. Altri, l’Italia tra questi, no. Anche per questo se il sistema finanziario europeo si frammentasse in 17 pezzi, l’unione monetaria non riuscirebbe a reggere per lungo tempo. Dovrebbe perciò essere sempre più evidente che il recupero di stabilità, non può passare solo per il rigore. Perché senza una importante frustata allo sviluppo rischia di rivelarsi un esercizio sterile. Persino dannoso. Tanto sul piano economico che democratico.

 

E’ possibile (ed auspicabile) che il “fiscal compact” possa riuscire a mettere provvisoriamente una pezza ad una situazione economico-finanziaria arrivata sull’orlo del baratro. Ma per invertire davvero la corsa verso il disastro, altrimenti inevitabile, occorrono nuove politiche e soprattutto una nuova “governance” europea. Dotata di una appropriata legittimità democratica. Cosa tanto più necessaria considerato che la “espropriazione” di sovranità nazionale derivante ad ogni paese dal “fiscal compact”, non è stata suffragata da nessuna forma di ratifica, di partecipazione democratica. E questo, anche se finora “tenuto in sonno” è un problema particolarmente serio. Che non può essere sottovalutato. Perché la democrazia è tanto una questione di regole e procedure, che di sostanza.

 

Infatti il diverso grado di democraticità di un paese, o di una unione di paesi, come ha spiegato bene Norberto Bobbio (“Democrazia” in “Lessico della politica”) dipende: da ragioni storiche, relative ad una maggiore o minore continuità della tradizione democratica; da ragioni sociali, dipendenti dalla eterogeneità della composizione sociale e dal diverso grado di integrazione; da motivi economici riguardanti la maggiore o minore diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, dalla quale deriva l’emarginazione anche politica delle masse più povere, e la non corrispondenza fra i diritti formalmente riconosciuti e quelli realmente esercitati. Insomma, la democrazia è forma. Nel senso che è la modalità per consentire a tutti di esercitare la propria influenza sulle decisioni che li riguardano. Ma perché ciò si realizzi realmente, non è separabile dai suoi contenuti.

                                                                                                                                                              (segue)

Lunedì, 17. Settembre 2012
 

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