Un cuneo nella riforma del welfare

Se dal punto di vista del rilancio industriale i benefici appaiono per lo meno dubbi, la riduzione della differenza tra costo del lavoro e salario è invece opportuna in termini generali, se viene usata per migliorare l'equità del sistema e per avviare una serie di modifiche nei meccanismi dello Stato sociale
La riduzione del cuneo contributivo si annuncia come la più rilevante misura di politica economica e sociale dell'avvio di legislatura. Basta pensare che si tratta di mettere in bilancio un costo dell'ordine di dieci miliardi di euro da realizzare nel giro di pochi mesi o di un anno.

Ma la promessa di tagliare cinque punti del cuneo contributivo non solo si presenta ardua dal punto di vista della finanza pubblica: l'aspetto più intrigante sta nell'indeterminatezza delle sue finalità di carattere economico e sociale. Proviamo ad analizzarne i punti essenziali.
 
Primo. Il fatto che sia collocata come una misura urgente per rilanciare la crescita, aumentando tra l'altro la competitività del sistema è inconsistente, dal momento che non si tratta di una misura selettiva e finalizzata (si vedano su EL gli interventi di Carniti e Recanatesi). In larga misura si risolverà in un aumento dei profitti del settore dei servizi che occupa il 70 per cento del lavoro dipendente. Incremento dei profitti, in particolare di banche, assicurazioni, utilities, grande distribuzione, di cui il paese certamente non avverte un bisogno impellente.
 
Secondo. Si può tuttavia osservare che se, dal punto di vista della crescita, la riduzione del cuneo non può produrre effetti significativi, ciò non toglie che una strategia tesa a ridurre strutturalmente il divario fra salario e costo del lavoro sarebbe in sé giustificata, e perfino necessaria. Il cuneo contributivo e fiscale si colloca in Italia sopra il 70 per cento: un valore inferiore a Germania e Francia, ma più elevato di altri paesi dell'Unione europea e, in ogni caso, relativo a salari significativamente più bassi. Assumendo le statistiche dell'OCSE, su un salario netto annuo di circa 17.000 euro, il costo del lavoro si attesta intorno a 30.000 euro. La riduzione del prelievo che  grava sul salario, di cui si discute da almeno un ventennio, si presenta, sotto questo profilo, come una misura strutturalmente importante per ridurre il divario fra costo del lavoro e salario.
 
Terzo. Un impegno nella direzione di una riforma strutturale del costo del lavoro dovrebbe essere liberata dalle briglie di un intervento congiunturale, e inserita in un quadro più vasto dove s'intrecciano costo del lavoro e sistema di welfare. Le due cose sono infatti strettamente connesse. I contributi servono a sostenere in misura variabile le prestazioni sociali. In altri termini, non tutti i contributi hanno la stessa funzione, dal momento che alcune prestazioni ne sono organicamente dipendenti, mentre altre hanno un carattere misto, in parte legate alla condizione del lavoratore in quanto contribuente, in parte alla persona in quanto cittadino titolare di aspettative e diritti sociali.
 
Proviamo a distinguere. I contributi previdenziali , relativi al fondo pensioni - pari al 32,7 per cento del salario lordo, in misura diversa a carico del lavoratore e dell'impresa - sono versati all'INPS per essere posti sul conto previdenziale di ciascun lavoratore. Sulla base della riforma Dini la pensione futura sarà basata (oltre che sull'età di pensionamento) sul cumulo dei contributi accumulati nel conto di ciascun lavoratore. Ne consegue che la riduzione dei contributi ridurrà l'ammontare della pensione. Per fare un esempio: se i contributi previdenziali venissero ridotti  di cinque punti, il tasso di sostituzione della pensione rispetto al salario sarebbe ridotto del 15 per cento. Vale a dire, una pensione che, per ipotesi, si collocasse intorno al 50 per cento dell'ultimo salario dopo 35 anni di contribuzione si ridurrebbe al 42-43 per cento. Il divario potrebbe in teoria essere coperto da un trasferimento di bilancio all'INPS o stabilendo una fascia di pensione-base uguale per tutti (vedi l'articolo di Pizzuti). Ma a questo punto non potremmo più parlare della garanzia di un sistema contributivo. Con uno stravolgimento del sistema l'ammontare della  pensione diverrebbe dipendente da trasferimenti  di bilancio, con tutte le alee e gli elementi di discrezionalità connesse. Una soluzione pasticciata e pericolosa per il futuro delle pensioni.
 
Quarto. La riduzione del cuneo potrebbe risultare, invece, coerente con la progressiva riduzione e/o eliminazione del gruppo di contributi riferiti ad altre voci come la disoccupazione, la malattia, la maternità, gli assegni familiari.  Questi contributi che ammontano a circa il 6 per cento (oltre 9 per l'industria) del salario possono essere coerentemente trasferite, in tutto o in parte, a carico della fiscalità generale, proprio perchè attengono a tutele di carattere generale e tendenzialmente universali.
 
Nel caso della malattia, e della conseguente perdita del salario, si tratta di integrare con un'indennità monetaria il diritto alla salute universalmente garantito dal sistema sanitario pubblico. Nel caso della disoccupazione, si tratta di assumere una politica globale di sostegno al disoccupato, associando il beneficio monetario alle misure di "politiche attive" per la ricollocazione nel lavoro che, per definizione, dipendono dal finanziamento pubblico. Non a caso, l'integrazione delle politiche attive con quelle puramente risarcitorie, legate alla perdita del salario, costituiscono l'asse portante delle politiche del lavoro al centro della strategia europea per l'occupazione. E l'Italia è il paese dove la spesa dedicata alla disoccupazione è di gran lunga la più bassa rispetto a tutti i partner europei.
 
Quanto ai contributi per l'indennità di maternità (finalizzata a garantire il reddito alle lavoratrici alla nascita di un figlio) e agli assegni familiari, diretti a migliorare la condizione delle famiglie in rapporto a vari criteri di bisogno, si tratta di trattamenti che dovrebbero coerentemente rientrare nella politica generale  per l'infanzia e per la famiglia. Una politica allo stato attuale iniquamente discriminatoria nei confronti di milioni di cittadini che lavorano in condizioni di precarietà, a partire  dalla massa crescente di lavoratori "pseudo-indipendenti". Il trasferimento di questa parte della spesa sociale a carico della fiscalità generale, invece che del cittadino in quanto lavoratore, significa non solo ridurre il peso della contribuzione sul salario, ma anche muovere verso un welfare più equo sotto il profilo sociale.
 
Concludendo, la riduzione del cuneo contributivo potrebbe essere, se adeguatamente calibrata, una misura non isolata e legata a obiettivi congiunturali. Dovrebbe, al contrario, diventare funzionale a un progetto di riforma della spesa sociale e del welfare, in direzione di una cittadinanza sociale inclusiva, non meramente legata alla condizione di lavoratore dipendente e contribuente. Condizione sociale che le nuove forme precarie del lavoro rendono sempre più aleatoria e discontinua. Assunta questa prospettiva, il processo di riforma dovrebbe prevedere in parallelo la fiscalizzazione di un parte del cuneo contributivo e, in una prospettiva di gradualità, una riforma del welfare (e degli ammortizzatori sociali) coerente con l'impegno del programma dell'Unione di coniugare efficienza economica ed equità sociale.
Martedì, 6. Giugno 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI