Il cuneo populista

Un provvedimento che, nella nuova realtà del mondo globalizzato, appare poco adatto ad essere davvero di qualche utilità per le sfide che la nostra industria deve affrontare. Di fatto, finirà per dare un sostegno, per giunta modesto, al vecchio modello di sviluppo invece di stimolarne il cambiamento
L'idea di una riduzione del cuneo fiscale ha suscitato fin dall'inizio perplessità in chi non fosse direttamente interessato a poterne beneficiare. È una misura che "sa di vecchio", che avrebbe potuto trovare qualche legittimazione solo nella logica di mercati segmentati che - come sappiamo - è stata superata, travolta dalla irruzione sui mercati globali dei Paesi emergenti.
 
Quando la Cina, almeno per noi, era soltanto "una espressione geografica", quando il muro di Berlino era ancora in piedi, quando l'India era un sub-continente tenuto ben lontano dalla lentezza e dal costo delle comunicazioni e dei trasporti, la nostra competitività si riferiva quasi esclusivamente a produzioni di Paesi paragonabili al nostro per grado di sviluppo materiale e civile, per stili di vita, per scala di valori. Il confronto avveniva tra simili: Paesi con culture simili, vincoli simili, ordinamenti simili. In quelle condizioni bastava davvero poco per modificare l'esito di una contesa commerciale: era sufficiente qualche piccolo intervento sulla tassazione, o un ritocco del cambio anche leggero. Con una svalutazione del 7-8% della lira poteva essere recuperata la competitività necessaria per tirare avanti anche un paio d'anni.

Oggi sappiamo tutti che non è più così. Al dilà di qualche fiammata che l'alternanza dei cicli congiunturali può determinare, nel mondo si confrontano beni e servizi prodotti da culture diverse, genti con valori e stili di vita diversi, popolazioni che si appagano di condizioni di vita e di lavoro che noi "occidentali" abbiamo superato e siamo orgogliosi di aver superato da secoli. Ne discende che nella competizione commerciale i costi non costituiscono più una condizione governabile: quel che si può immaginare di fare realisticamente è niente rispetto al divario da colmare. L'unica possibilità di competere con la Cina producendo ciò che la Cina può offrire sui mercati del mondo non potrebbe essere che affidata alla accettazione di standard di vita paragonabili a quelli del miliardo e passa di cinesi: si tratterebbe non solo della remunerazione del lavoro, ma anche della disponibilità di beni, delle tutele, delle norme ambientali ed antinfortunistiche, della pressione fiscale, della dotazione di infrastrutture e di servizi pubblici: insomma di tutto quanto direttamente o indirettamente concorre a determinare i costi di produzione e, quindi, la competitività di quanto viene offerto sui mercati.

Non può certo essere questa la strada lungo la quale ricercare il ruolo che un Paese come il nostro può svolgere sul mercato globale dei beni e dei servizi. Occorre cambiare il cosiddetto modello di specializzazione, il che in parole povere significa mettersi a produrre e ad offrire beni e servizi sofisticati, esclusivi, evoluti che i Paesi emergenti non siano in grado di produrre.

La riduzione del cuneo fiscale non convince non solo perché, quand'anche l'intero beneficio fosse concentrato sulle imprese, il costo del lavoro si ridurrebbe solo di una piccola, insignificante frazione del divario che lo separa da quello proprio dei Paesi dell'Asia o dell'est-Europa, ma soprattutto perché rappresenterebbe una inutile ed ingannevole insistenza nella difesa di un modello di specializzazione al quale la storia di questi anni nega ogni possibilità di sopravvivenza.

La politica ha proposto quella riduzione per ovvi motivi di acquisizione del consenso in un elettorato che, tra piccoli imprenditori e lavoratori dipendenti, comprende milioni di potenziali beneficiari. Ma questo non significa affatto che una misura di tal genere possa produrre una qualsivoglia efficacia né per la competitività delle imprese esportatrici, né per un recupero almeno avvertibile del potere d'acquisto delle fasce di reddito più basse.

E non basta. Immaginato genericamente come misura per tonificare una debilitata capacità di tenuta delle produzioni italiane sui mercati internazionali, man mano che il dibattito si sviluppa si moltiplicano i tentativi di tirare questi cinque punti dalle parti più disparate. Il beneficio va concentrato sulle imprese che esportano, o fatto cadere a pioggia su tutti, comprese, ad esempio, banche, gestori di telefonia e commercianti? Va dato solo alle imprese, o ripartito tra queste ed i dipendenti? E tra questi ultimi, va concesso a tutti, compresi i dirigenti, o solo alle fasce più basse? E ancora: deve essere usato anche per favorire l'occupazione? E, se sì: l'occupazione in genere o solo quella piena, contrattualizzata ed a tempo indeterminato?

Insomma, non solo cinque punti di costo del lavoro sono poca cosa, ma incombe il rischio che questo poco venga disperso tra una miriade di finalità, nessuna delle quali potrà beneficiarne in modo almeno avvertibile. Per contro, data la realtà delle finanze pubbliche lasciata dal governo di centro-destra, l'impegno di bilancio sarà comunque consistente e in qualche modo occorrerà pur finanziarlo. Si va così delineando un esito paradossale: che ai fini del sostegno dell'economia l'effetto restrittivo determinato dalla manovra finanziaria necessaria per compensare la riduzione del cuneo fiscale finisca per prevalere sui coriandoli di effetto espansivo che la riduzione stessa potrà determinare.
 
Ciò nondimeno, quel poco o tanto che ciascuno - parti politiche, rappresentanze imprenditoriali, organizzazioni dei lavoratori - può sperare di acquisire riducono fin quasi ad annullare ogni critica a questo provvedimento. Il quale va assumendo connotazioni sempre più populistiche perdendo per strada, ammesso che le abbia mai avute, quelle di una razionale e coerente iniziativa di politica economica.

Martedì, 23. Maggio 2006
 

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