Musica e musicanti

L'orchestra è cambiata, ora deve dimostrare di saper suonare in modo diverso dalla precedente. Tra i primi provvedimenti ci dovrebbe essere la riduzione del cuneo fiscale sui salari: di per sé non sembra una grande idea, ma potrebbe essere l'occasione per varare quelle modifiche al sistema previdenziale che appaiono necessarie ed urgenti

Elette le più alte cariche istituzionali e formato il governo, il centrosinistra deve ora fare i conti con gli interventi concreti. Si potrà quindi cominciare a capire come verrà, tra l'altro, concretamente messo in musica il proposito annunciato da Prodi durante la campagna elettorale di "ridurre di 5 punti il cuneo fiscale".

I dettagli di questo preannunciato intervento non sono ancora stati decisi e, comunque, finora non sono stati discussi in pubblico. Si sa solo che l'intento dichiarato vorrebbe essere quello di dare una "scossa" all'economia. Non è però chiaro se si agirà sul costo del lavoro, o sul salario. Oppure in quale proporzione tra le due possibili destinazioni. Non mancano quelli che suggeriscono di privilegiare la via più sbrigativa. Vale a dire una riduzione indiscriminata di 5 punti dei contributi che gravano sul costo del lavoro.

Se questa fosse la scelta, bisogna dire che gli effetti sarebbero equivalenti a quelli di una svalutazione del 5 per cento. Ora, abbiamo tutti ben presenti le esperienze del passato per sapere che le svalutazioni pesano molto sui conti pubblici e quelli delle famiglie, ma in compenso risolvono poco. In ogni caso non hanno mai consentito e non consentono di modificare i ritardi strutturali del sistema economico. Al massimo conconcedono infatti, a chi è meno competitivo, di guadagnare un po' tempo. Con il rischio però di illudere gli inefficienti che sia possibile perseverare nell'inerzia. Francamente, non sembra dunque ciò di cui ha maggiormente bisogno il nostro apparato produttivo.

La conferma ci viene anche da una simulazione effettuata da Corrado Pollastri per conto del CER (Centro Europa Ricerche). L'esercizio lascia pochi dubbi: dimostra infatti che l'impatto degli sgravi produce maggiori benefici per le imprese meno produttive, o addirittura decotte, ed assai minori per i settori che investono di più in tecnologie avanzate per essere più competitivi, sia sul mercato interno che su quello internazionale. L'assunto Del CER è che lo sgravio venga fatto in modo indiscriminato su tutta la platea di imprese di ogni settore, purché con dei dipendenti. Inoltre il presupposto da cui muove è che i cinque punti di costo del lavoro in meno si debbano tradurre in un parallelo aumento della competitività. Non dovrebbero perciò finire in busta paga, ma essere interamente attribuiti alle imprese. Imprese che a loro volta dovranno ridurre in modo equivalente i prezzi, astenendosi dalla tentazione di aumentare invece i margini di profitto.

Siamo tutti però abbastanza avveduti per sapere che una cosa sono le ipotesi, un'altra i fatti. Ad ogni modo, sulla base di questi ingredienti il CER arriva alla conclusione che il sistema economico potrebbe recuperare subito un po' di terreno. Grazie a prezzi inferiori del 2,5 per cento (da qui al 2009) l'aumento dell'export che ne risulterebbe potrebbe tradursi in un incremento del Pil dell'1 per cento. Addirittura, se l'impatto fosse immediato, l'economia italiana potrebbe persino crescere, già nel 2006, del 2,3 per cento. Quindi più della media europea. Niente male! Se non ci fosse qualche inconveniente, destinato a ridurre i benefici ed accrescere gli svantaggi.

Lo studio del CER mette infatti chiaramente in evidenza che "l'incidenza dello sgravio risulta maggiore per le imprese a bassa produttività". Ne consegue una penalizzazione delle realtà potenzialmente più efficaci nella competizione internazionale. L'effetto in termini di aumento del valore aggiunto risulterebbe infatti dieci volte più forte nei settori a bassa produttività rispetto a quelli più efficienti. Insomma l'esito di un simile intervento potrebbe essere rilevante in agricoltura, o nelle costruzioni, ed invece insignificante in tutti i settori tecnologicamente avanzati. Se ne deve dedurre che, nel complesso, esso non costituirebbe affatto quella spinta alla modernizzazione del sistema di cui, a ragione, viene continuamente lamentata la mancanza. Con un ulteriore paradosso. Le imprese in rosso, non di rado decotte, avrebbero un vantaggio supplementare rispetto a quelle in attivo. Per le prime infatti lo sgravio servirebbe a ridurre la perdita. Per le seconde, al contrario, aumenterebbe invece il reddito tassabile ai fini dell'Ires. In definitiva il rimedio ipotizzato potrebbe servire al massimo a ridurre la febbre, ma non appare assolutamente in grado di curare la malattia che mina il nostro sistema produttivo.

Resta inoltre da chiarire un punto cruciale. Vale a dire quanto  sia compatibile il taglio del "cuneo" (che concretamente vuol dire "taglio dei contributi sociali") con gli equilibri previdenziali. Tanto più in un sistema previdenziale contributivo (come quello adottato a partire dalla "riforma Dini") che vincola il valore della pensione ai contributi versati. Probabilmente, proprio per scongiurare il rischio di rimettere in discussione l'assetto della riforma pensionistica del 1995, c'è chi ha suggerito di indirizzare il taglio dei contributi preferibilmente verso i cosiddetti "oneri impropri". Intendendo per tali gli oneri sociali diversi da quell pensionistici. E' però un suggerimento scarsamente praticabile. Sia perché gli "oneri impropri", intesi in senso stretto, sono oggi ben poca cosa. Ma soprattutto perché essi sono generalmente contributi con finalità assicurativa. Una diminuzione dei pagamenti avrebbe come inevitabile conseguenza una diminuzione delle prestazioni. Ineluttabile quindi che, alla fine, si debba agire essenzialmente sul terreno previdenziale. Non è detto però che sia un male. Soprattutto se dovesse costituire l'occasione  per una indispensabile progressiva armonizzazione contributiva tra le diverse figure del mercato del lavoro. Che, a quanto risulta, costituisce pure uno dei propositi dichiarati della nuova maggioranza.

La riduzione del "cuneo contributivo" sul lavoro dipendente andrebbe quindi inquadrata nell'ambito di una manovra più generale di riequilibrio delle diverse aliquote contributive. Che, a sua volta, non può che rientrare in un progetto più ampio di riordino  del sistema pensionistico. In effetti, il dato che non si può non tenere in considerazione è che l'esistenza di forti differenze degli oneri contributivi tra le diverse categorie di lavoro ha incoraggiato la crescente diffusione di modalità di lavoro pseudo-indipendente. Al punto che tra i paesi industrializzati dell'Occidente deteniamo un assai poco lusinghiero primato. Non si tratta solo dei parasubordinati, ma anche degli associati in partecipazione, e  delle centinaia di migliaia di lavoratori con partita Iva e di altre figure lavorative, che l'inventiva italica (straordinaria quando c'è da escogitare un modo per aggirare i vincoli) è sempre pronta ad inventare.

Sicché un fatto è certo. L'articolazione del mercato del lavoro è solo in piccola parte ascrivibile alle modificazioni dell'assetto produttivo ed alle connesse caratteristiche dell'offerta di lavoro. Al contrario, essa si spiega soprattutto con ragioni di costo. Si  tenga conto che per ogni 1000 euro di compenso lordo, i contributi sociali pagati per i lavoratori dipendenti raggiungono i 400 euro, mentre quelli pagati per i  lavoratori atipici arrivano soltanto a 180 euro. Cioè a meno delle metà. Per fare buon peso, occorre anche aggiungere che il lavoro atipico comporta ulteriori vantaggi per le imprese. Non c'è da pagare il Tfr; non ci sono mensilità aggiuntive; non ci sono grandi vincoli all'interruzione del rapporto.

Un riequilibrio degli oneri contributivi ridurrebbe, dunque, la  convenienza dell'impresa a ricorrere a forme di lavoro instabili e precarie e renderebbe quindi più agevole la auspicata correzione delle distorsioni prodotte dalla legge 30. In proposito il neo-minstro del Lavoro ha dichiarato che intende eliminare il "lavoro a chiamata" e lo "staff  leasing". Va benissimo! Ma bisogna dire che, ai fini dell' auspicabile contenimento della precarietà, servirebbe a poco se contemporaneamente non si correggessero anche disposizioni il cui unico effetto è di penalizzare il lavoro stabile, incoraggiando di conseguenza quello instabile. 

Nella lotta al precariato l'armonizzazione contributiva deve perciò essere considerata uno degli ingredienti essenziali. Senza contare che il riequilibrio delle aliquote contributive tra le diverse tipologie del lavoro darebbe un contributo anche ad una parziale, ma significativa, alla copertura della manovra. Diversamente affidata solo alle speranze di immediati maggiori ritmi di crescita economica e di una altrettanto immediata riduzione dell'evasione fiscale. Speranze non implausibili. Ma, appunto, speranze. Il cui conseguimento non sembra proprio dietro l'angolo.

In effetti, le maggiori entrate ricavabili dall'incremento dei contributi a carico degli autonomi e parasubordinati coprirebbero una parte importante della diminuzione delle entrate contributive derivanti dallo sgravio per il lavoro dipendente. Secondo le stime (di Maurizio Benetti e Gabriele Olini) la riduzione di 5 punti per i dipendenti, accompagnata da un aumento di 5 punti per gli autonomi e gli atipici (elevando quindi l'aliquota attuale del 19 per cento al 24) comporterebbe un  disavanzo di cassa di 4 miliardi di euro, rispetto ai 10 miliardi che è il costo della riduzione del "cuneo fiscale".

Tenuto conto degli attuali lumi di luna della Finanza Pubblica, 4 miliardi di euro restano certamente una cifra importante. Ma si tratta però di una cifra che potrebbe essere ulteriormente diminuita mettendo mano alle sottocontribuzioni attualmente previste. Sottocontribuzioni che allo stato delle cose costano all'Inps (e pesano quindi sulla Finanza Pubblica) per circa 10 miliardi di euro. Un intervento in questa direzione appare tutt'altro che immotivato, considerato che in presenza di una diminuzione indiscriminata di 5 punti delle aliquote contributive esse perderebbero gran parte della loro giustificazione. Oltre tutto alcune risultano assolutamente immotivate. Si pensi, ad esempio, alla durata di sei anni per l'apprendistato, la cui sola spiegazione plausibile è quella di assicurare contemporaneamente sei anni di sgravi contributivi alle imprese.

Naturalmente, è facile immaginare che un aumento della contribuzione per il lavoro indipendente non verrà accolta con brividi di entusiasmo da artigiani, commercianti e nemmeno dalle aziende che ricorrono sempre più largamente al lavoro atipico. Tuttavia l'aumento di 5 punti potrà risultare socialmente sopportabile se, per queste categorie di lavoro, dovessero mutare in modo credibile anche le prospettive pensionistiche. Se cioè più contributi significheranno anche più pensione per autonomi e parasubordinati. Si tratta di una questione che non può essere snobbata. Tutti gli studi sui tassi di sostituzione dicono infatti che in futuro (con il sistema contributivo) i lavoratori dipendenti avranno una pensione inferiore di 15/20 punti rispetto alla generazione che va in pensione ora. Per i lavoratori autonomi la prospettiva è addirittura di un dimezzamento.

La stessa sorte degli autonomi toccherà a parasubordinati. Sempre che gli uni e gli altri abbiano una carriera retributiva e redittuale regolare, continua, stabile per almeno 35 anni. Perché, in caso di vita lavorativa irregolare, i tassi di sostituzione saranno ancora più bassi. Per tutta questa massa di lavoratori si prospettano infatti pensioni largamente al di sotto della soglia di povertà. Analogo problema si pone anche per tutti quei lavoratori dipendenti costretti a periodi di lavoro parasubordinato e/o con una carriera lavorativa discontinua. Ad esempio, un certo numero di contratti a termine con intervalli senza lavoro tra un contratto e l'altro.

Stando così le cose, che fare? L'unica cosa che non può essere fatta è far finta di niente. Illudendo ed illudendosi di potere impunemente scaricare la grana sui nostri figli e sui nostri nipoti. Molto più saggio e ragionevole cercare di rimediare. Finché si è in tempo. Pensare che il tempo sia sempre una "gran medicina", scansare i problemi, mettere la testa sotto la sabbia, è stata la cifra politica del quinquennio di governo del centrodestra. Non è un caso che abbia lasciato una pesante eredità economica. Dal centrosinistra ci si aspetta, dunque, legittimamente che sappia fare i conti con i problemi. Per quel che sono. Quindi senza infingimenti. Sapendo parlare con onestà e chiarezza agli italiani che non desiderano essere imbrogliati e sono perfettamente in grado di capire i termini delle questioni e la posta in gioco.

Occorre anche aggiungere che, se un intervento tendente a realizzare una maggiore convergenza tra le aliquote consentirebbe tassi di sostituzione più elevati per autonomi e parasubordinati rispetto a quelli attualmente prevedibili, esso lascerebbe però irrisolto, per tutte le carriere lavorative discontinue (compresa quindi una parte dei lavoratori dipendenti), il problema di poter contare in vecchiaia su una pensione sufficiente ad una decorosa sopravvivenza. E' un aspetto che non può essere ignorato.

Nella campagna elettorale del 2001 Berlusconi aveva promesso di aumentare le pensioni minime a 500 euro al mese. Traguardo che però solo una esigua minoranza dei "pensionati al minimo" ha potuto effettivamente raggiungere. Limite che non ha affatto turbato Berlusconi. Che, nella campagna elettorale appena conclusa,  non ha infatti esitato a promettere un ulteriore elevamento delle "minime" ad 800 euro mensili. Bisogna, per altro, dire che se le due promesse berlusconiane fossero andate a buon fine avrebbero determinato un guaio serio. Avrebbero infatti completamente destrutturato il sistema pensionistico contributivo. Senza che il governo si ponesse nemmeno il problema di sostituirlo con qualcosa d'altro. Per capire le possibili conseguenze delle estemporanee misure proposte da Berlusconi non è necessario essere esperti. E' sufficiente saper leggere. Basta infatti dare una occhiata al numero delle pensioni Inps inferiori agli 800 euro mensili per rendersi conto che tutto il sistema sarebbe crollato. Come un castello di carte.

Detto questo, bisogna però onestamente riconoscere che il problema di assicurare una condizione più dignitosa ed umana a molte persone anziane, che hanno avuto la sfortuna di carriere lavorative intermittenti, c'è ed è drammaticamente aperto. E' una questione seria che non può essere scansata. In questa prospettiva, la proposta di armonizzare le aliquote contributive non può perciò essere separata da una correzione del "sistema pensionistico pubblico". L'adeguamento che va perseguito consiste nell'introdurre gradualmente, accanto alla pensione contributiva (rapportata ai contributi effettivamente versati), una "pensione di base uguale per tutti", finanziata attraverso il fisco e condizionata soltanto ad un periodo lavorativo minimo. Grosso modo si potrebbe pensare ad un periodo non inferiore ai 10/15 anni.

Facile intuire l'obiezione degli addetti ai lavori. Tocca ai Fondi pensione privati rimediare a questo inconveniente! Affermazione che conferma il giudizio di Bernard Grasset (famoso editore franese), secondo il quale "la soluzione del buon senso è sempre l'ultima a cui pensino gli specialisti". In effetti, per le "carriere lavorative intermittenti, discontinue" il rimedio a pensioni contributive pericolosamente anoressiche non può certo essere individuata nei "Fondi pensioni privati". Perché, a parte ogni considerazione sulle incongruenze di tali Fondi (Eguaglianza & Libertà ne ha scritto ripetutamente), resta pur sempre il fatto che nei periodi in cui una persona rimane senza lavoro e quindi senza salario si deve supporre che sia priva anche dei soldi necessari per pagare i contributi ad un Fondo pensione privato. L'istituzione di una "pensione pubblica di base", tanto per i dipendenti che per gli autonomi e finanziata fiscalmente, resta perciò l'unica soluzione realistica e, dunque, l'unica praticabile.

Essa comporterà, ovviamente, una maggiore spesa previdenziale. Tuttavia, si tratta di un costo largamente sopportabile e comunque notevolmente inferiore a quello messo in conto con la promessa riduzione del "cuneo fiscale". In ogni caso, per stare al tema del finanziamento, va anche detto che una parte della spesa per la "pensione pubblica di base" diventerebbe sostitutiva del costo sostenuto per le "pensioni sociali". Costo che, se l'ordinamento in vigore dovesse restare immutato, è prevedibilmente destinato a lievitare in modo sensibile. La ragione è semplice. Non pochi autonomi e parasubordinati (per i motivi ricordati) in vecchiaia si ritroveranno nella sgradevole scomodità di disporre solo di un reddito al di sotto della soglia di povertà.

Anche se non esente da sussulti "compassionevoli" la cultura politica di destra, di fatto, ha sempre liquidato la povertà un problema essenzialmente dei poveri. Dal centrosinistra che ribadisce, non senza ragione, di considerare la coesione sociale un valore, ci si aspetta una concezione del tutto diversa. Del resto, poiché gli elettori, con il loro voto, hanno saputo cambiare i musicanti, è lecito aspettarsi che la nuova maggioranza sappia cambiare la musica.

Mercoledì, 24. Maggio 2006
 

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