I dibattiti economici e socio-politici si svolgono non di rado nella nebbia di quelli che potremmo definire "i grandi inganni". Non vi è nulla di più pericoloso dell'ovvio, quando esso non è tale.
Il filo del discorso ci porta sull'impervio sentiero del calcolo del Pil. Non vogliamo affrontare il tema della rappresentatività di questo dato rispetto agli indicatori di benessere. Basti considerare il fatto che a Pil uguale può corrispondere una molto diversa concentrazione del reddito e della ricchezza, per minare la sua affidabilità come misura della "felicità collettiva". Vogliamo invece valutare se il dato del Pil sia significativo dell'incremento effettivo della ricchezza totale di questo paese.
Vorremmo chiudere con notazioni collegate all'attuale congiuntura. Per fronteggiare la crisi e la post-crisi, il governo aveva tre alternative: a) accrescere sensibilmente la spesa pubblica in deficit, scelta ostacolata dal pur ammansito Cerbero di Maastricht. b) Coprire le spese per gli interventi propulsivi con una drastica revisione degli imponibili ed una lotta radicale all'evasione e soprattutto all'elusione (le detrazioni vere o presunte consentite alle partite Iva producono redditi imponibili a livelli che suonano derisori nei confronti di quelli di lavoratori dipendenti o pensionati). Missione impossibile, per la composizione socio-economica dei pilastri di sostegno dell'attuale classe dirigente. c) L'opzione prescelta è consistita nella rotazione degli stanziamenti, mutandone la destinazione finale. I più colpiti sono stati proprio quelli, già estremamente esigui, destinati alla manutenzione e reintegro del capitale fisso sociale.
E' questo, a ben guardare, il nuovo miracolo italiano: trasformare quote di patrimonio in reddito e alimentare con la povertà pubblica di molti la ricchezza privata di pochi.