Salari e produttività, il legame funesto (3 commenti)

L'idea che si va diffondendo di collegare questi due fattori non è solo ingiusta, ma soprattutto è dannosa per l'economia: premia le imprese inefficienti permettendo loro di sopravvivere, riducendo la competitività del sistema nel suo insieme

Una idiozia: il termine può sembrare un po’ pesante, ma è il più appropriato per definire l’orientamento che si va diffondendo di legare in qualche modo la dinamica salariale a quella della produttività. Si potrebbe tagliar corto banalizzando la questione chiedendoci perché mai un camionista che deve perdere una intera mattinata per percorrere la statale della Val Seriana, e dunque è poco produttivo, deve essere retribuito meno di un suo collega che, viaggiando su strade più adeguate alla mole di traffico, è assai più produttivo potendo compiere nella stessa mattinata il doppio o il triplo del chilometraggio. Ma il tema è assai serio e non si esaurisce nella pur pertinente obiezione che sarebbe insensato collegare la retribuzione ad un parametro sul quale i lavoratori hanno scarsa o nulla possibilità di intervenire.

 

La stagnazione, o addirittura la regressione, della produttività nel sistema economico italiano è la causa per la quale il prodotto lordo non cresce da circa quindici anni. La produttività è la “resa” dei fattori della produzione in termini di valore aggiunto, sicché la sua stagnazione determina quella della ricchezza del paese e, dunque, il suo declino nei confronti dei paesi nei quali la produttività, al contrario, cresce. È facile comprendere, del resto, che se una ora di lavoro rende poco, poco potrà essere remunerato chi ha prestato quell’ora di lavoro. Il futuro del rango dell’economia italiana nel mondo e, conseguentemente, del livello di benessere nostro e dei nostri figli è quindi legato alla evoluzione della produttività. Da ciò dovrebbe discendere che obiettivo primario della politica economica dovrebbe essere un aumento della produttività di tutti i fattori della

produzione a cominciare dal lavoro.

 

Le determinanti della produttività del lavoro sono di due ordini: il primo è dato dal contesto nel quale operano le imprese; il secondo è nelle imprese stesse. Solo una visione retriva, eredità di un paese essenzialmente agricolo, può considerare i lavoratori tra queste determinanti, non perché non vi siano incapaci e fannulloni, ma perché l’eventuale incapacità di un lavoratore va imputata alla responsabilità di chi lo ha assunto o ne ha curato la formazione, così come l’indolenza di qualche dipendente è solitamente imputabile a carenze di organizzazione e di controllo interno nelle fabbriche e negli uffici.

 

Sulle cause che rientrano nel primo ordine non ci fermiamo: sono problemi di gestione politica (carenza di infrastrutture, arretratezza delle leggi, malfunzionamenti della giustizia, insufficienza di sostegno alle famiglie più giovani, ecc.) che vanno affrontati in sedi e con procedure del tutto diverse; per attenerci al tema che ci siamo dati – la introduzione di una correlazione tra retribuzioni e produttività – assumiamo questo ordine di cause come un dato di fatto difficilmente modificabile in tempi brevi.

 

Parliamo, dunque, del secondo ordine, le cause interne alle imprese.  I motivi per cui la produttività del lavoro ristagna nelle imprese italiane sono diversi. La maggior parte fa capo alla loro dimensione estremamente piccola alla quale fa riscontro il modesto numero di imprese grandi. La dimensione piccola non consente l’acquisizione e l’impiego delle tecnologie più moderne (si pensi alla scarsa diffusione dell’informatica e della telematica in rapporto alle imprese degli altri paesi evoluti); non consente di minimizzare i costi di approvvigionamento di materie prime, semilavorati ed energia; implica di norma un rapporto più sfavorevole tra capitale circolante e fatturato; il credito che possono ottenere è più caro e più discontinuo; spesso hanno una struttura proprietaria che le vincola alle esigenze di una famiglia; ragione per cui non crescono, anche quando potrebbero, per il timore della famiglia proprietaria di perderne il controllo.

 

Per tutti questi motivi, le imprese piccole sono sottocapitalizzate ed investono poco; fanno poca ricerca e, quindi, poca innovazione; la loro forza sta nella elasticità organizzativa che consente loro prontezza di riflessi e possibilità di cogliere tempestivamente occasioni di lavoro anche contingenti. E tuttavia questo vantaggio è molto lontano dal compensare i vincoli e i limiti della piccola dimensione, tanto che – sono statistiche della Banca d’Italia – la produttività del lavoro in Italia risulta essere inversamente proporzionale alla dimensione (fatta 100 la produttività del lavoro nelle imprese con oltre 200 dipendenti, quella delle imprese con un numero di dipendenti compreso tra 20 e 50 scende ad 80; se si confrontano gli estremi – imprese con oltre 1000 dipendenti e quelle con meno di dieci, la produttività del lavoro in queste ultime è grossomodo la metà).

 

Da ciò discende che una politica di incentivazione della produttività dovrebbe in primo luogo puntare alla crescita dimensionale delle imprese, non solo con incentivi fiscali alle concentrazioni, che non potranno mai compensare il vantaggio soggettivo che il proprietario trae dall’essere unico “padrone” della sua azienda, ma prevedendo, ad esempio, una fiscalità inversamente proporzionale al grado di concentrazione della proprietà e che, di conseguenza, incentivi per questa via una sorta di affrancamento delle imprese dalle esigenze e dalle convenienze delle famiglie proprietarie per aprirle a forme di gestione e di controllo più strutturate ed articolate. Sarà così più facile che si formino imprese tra le quali quelle di successo possano spiccare il volo avvalendosi del mercato, delle risorse e delle maestranze lasciate libere dalle imprese che non hanno avuto successo e che, quindi, hanno dovuto chiudere. Così funziona l’economia capitalista: vincono i più capaci a spese dei meno capaci. Se le risorse di capitale e di lavoro impiegate dai meno capaci si rendono disponibili per i più capaci, il loro impiego sarà più fruttuoso; aumenterà la produzione di ricchezza alla quale daranno luogo; crescerà la loro produttività e con essa la possibilità delle imprese di corrispondere ai propri dipendenti remunerazioni più decenti.

 

La condizione perché questo circuito virtuoso si inneschi è che non venga in alcun modo ostacolato chiedendo alla  collettività, per via fiscale, ed ai lavoratori, per via salariale, di soccorrere le imprese che non ce la fanno. La politica economica o, meglio, economico-sociale dovrà limitarsi, per questo aspetto, a tutelare i lavoratori se e quando dovessero soffrire a motivo di questa riallocazione di risorse da impieghi meno produttivi a quelli più produttivi. Protetti efficacemente i lavoratori, non sarà un dramma se le imprese più deboli chiuderanno ma, al contrario, sarà una salutare depurazione del sistema dalle imprese meno competitive, che producono scarso reddito o non ne producono affatto, che deprimono la produttività generale del sistema, che non generano alcun progresso sulla via del benessere diffuso.

 

E invece, cosa si sta vagheggiando di fare? Esattamente il contrario: commisurando la remunerazione del lavoro alla produttività, le imprese meno produttive non potranno essere sopraffatte da quelle più produttive perché potranno avvalersi di un costo del lavoro più contenuto. È come istituire, a carico dei lavoratori, un premio per le imprese meno efficienti. È un gioco al ribasso: il dinamismo del sistema ne verrà ridotto, le imprese più valide stenteranno maggiormente a crescere; trovare lavoro alternativo sarà più difficile, per cui i dipendenti delle imprese deboli, temendo di non trovare altro impiego, accetteranno un salario più basso pur di mantenere il posto di lavoro. Le imprese più valide soffriranno il vantaggio competitivo accordato a quelle meno valide. Per altro verso, nell’impresa, in tutte le imprese, verrà attenuata la pressione ad accrescere la produttività dei fattori perché anche con una produttività bassa, scarsi investimenti e poca o nulla innovazione sarà possibile tirare avanti. Una idiozia bella e buona, come si diceva all’inizio. Che a perorare la causa di una correlazione tra produttività e salari sia la Confindustria si può capire: questa rappresenta gli interessi delle imprese esistenti le quali avrebbero certamente vita più facile se questa correlazione trovasse una effettiva applicazione. Ma che questa ipotesi si faccia strada nelle forze politiche e addirittura in una parte del sindacato è cosa davvero difficile da comprendere.

 

E non basta. Si consideri la storia della produttività del lavoro nel settore manifatturiero: negli anni ’80 l’incremento medio annuo risultò del 4,5% (molto più di Francia e Germania); nella prima metà degli anni ’90 l’incremento medio già scese al 2,6% ed ulteriormente all’1% nella seconda metà di quel decennio (molto meno di Francia e Germania). Il deterioramento è diventato drammatico negli anni più recenti, la media annua diventando addirittura negativa – -0,3%  – negli anni 2000 ( con un ulteriore peggioramento immaginabile in seguito alla crisi recessiva che ancora stiamo vivendo). Non è un caso che questo progressivo arretramento sia avvenuto, con una relazione quasi lineare, negli anni nei quali il livello reale delle retribuzioni per i dipendenti a tempo indeterminato è rimasto sostanzialmente stagnante mentre si andavano diffondendo contratti atipici, per lo più precari e sottopagati, attraverso i quali il costo medio dell’unità di lavoro si andava riducendo. Come se non bastasse, ora si vorrebbe proseguire ulteriormente su questa strada aggiungendo una parametrazione dei salari alla dinamica della produttività depotenziando ancor più di quanto è avvenuto finora l’impegno delle imprese per accrescerla. Se questa non è una madornale idiozia . . .

 

Commenti

 

Antonio Lettieri - Ritengo ben fondata tutta l'analisi sulla "stupidità" che vuole far dipendere la produttività dal lavoro umano, a prescindere dai contesti organizzativi e tecnologici. Se fosse così Taylorismo e fordismo sarebbero stati inutili....

Trovo invece fuorviante la proposta di penalizzare fiscalmente le piccole imprese più deboli, in modo da buttarle fuori dal mercato col risultato che i lavoratori (disoccupati) siano a disposizione delle imprese a più alta produttività. Mi sembra possano essere ipotesi di scuola che possono valere in sede di analisi storica dei modelli di sviluppo industriale, non in sede programmatica. D'altra parte, nessuno impedisce alle aziende medio-piccole più efficienti di appropriarsi dello spazio delle più piccole e attrarre i lavoratori più bravi, elargendo salari più alti.


Ruggero Paladini - In realtà la tassazione differenziata per grado di concentrazione della proprietà è impossibile, per ragioni giuridiche e tecniche. Non ha nessun senso in sede di persone fisiche (imprese individuali o di persone) ma neppure in sede di società di capitali (srl o spa). Piuttosto direi che il contrasto dell'evasione (e di altre forme di illegalità) può avere un effetto "darwiniano" che può piacere a Recanatesi. Comunque l'articolo è brillante e dice cose condivisibili.

 

Alfredo Recanatesi - Vorrei commentare i commenti al mio contributo di Lettieri e Paladini che ringrazio per l’attenzione che mi hanno accordato. L’idea di penalizzare fiscalmente le imprese in funzione della loro dimensione è una provocazione, e non perché in una qualche forma non la si possa introdurre, ma perché nessun governo avrà mai il coraggio di affrontare il conseguente dissenso elettorale. È, comunque, un tentativo di gettare un sasso nello stagno dell’agiografia della cosiddetta piccola imprenditoria diffusa. Dati per scontati i meriti che questa imprenditoria ha acquisito nei decenni passati, oggi è diventata un limite alla crescita della produttività e, quindi, alla crescita tout-court. La parcellizzazione del sistema produttivo, quando si tratta di competere con l’intero mondo senza conferimenti di competitività dati dalle svalutazioni della moneta, dovrebbe essere avvertita come un problema, non come un motivo per magnificarla e, magari, per proteggerla solo perché oggi è (ancora) “portante”.

 
Tra i piccoli o piccolo-medi ce ne sono molti che svolgono attività di successo suscettibili di essere maggiormente industrializzate e valorizzate. Spesso non lo sono perché possedute da singoli imprenditori che escludono l’ingresso di soci e manager per non perdere i benefici che loro e le loro famiglie traggono dall’essere proprietari esclusivi. Si tratta di benefici economici (quanti costi familiari sono addossati all’impresa!), fiscali, ereditari che rendono l’interesse della famiglia prevalente sull’interesse dell’impresa fino a condizionarne, appunto, il potenziale di crescita.
 
I benefici fiscali alle concentrazioni, più volte tentati, non hanno mai sortito alcun effetto perché sono poca cosa rispetto ai vantaggi della monoproprietà. Occorre, quindi, qualcosa di più incisivo. Intanto una svolta culturale e politica sulla considerazione di queste piccole imprese come una tara all’aumento della produttività e, quindi, come un limite al progresso economico del paese. Inoltre, misure che ribaltino il rapporto costi-benefici relativo alle monoproprietà delle imprese minori (non certo le imprese individuali o quelle artigiane). Fino a quando i vantaggi della monoproprietà prevarranno su quelli della crescita, la maggior parte del sistema produttivo rimarrà ad uno stadio più artigianale che industriale, con buona pace della produttività, della competitività, dello sviluppo.

 

In ogni caso l’obiettivo non è quello di introdurre penalizzazioni per far chiudere le piccole imprese e creare disoccupati, ci mancherebbe!, ma, al contrario, di valorizzare a beneficio dell’intera collettività nazionale il potenziale di crescita che spesso contengono e che troppo spesso rimane inespresso.

Domenica, 27. Settembre 2009
 

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