Non barate sulle pensioni

Si annuncia l’ennesima riforma previdenziale, ma nel dibattito si insiste su numerose distorsioni di dati di fatto. Ci sono comunque alcuni punti fermi. Ulteriori peggioramenti non possono essere una sorta di pedaggio per evitare che altri facciano la loro parte per il risanamento e in ogni caso nessuna modifica dovrebbe prescindere da un accordo con le parti sociali che finanziano un sistema in equilibrio

Sulla base delle intenzioni programmatiche enunciate dal nuovo governo e delle anticipazioni mediatiche, sembra certo che il tema delle pensioni faccia parte dell’agenda politica del nuovo esecutivo. Per alcuni la questione è reale e deve essere dunque affrontata. Per altri è invece un pedaggio che deve essere pagato per evitare che i ricchi ed i benestanti si sottraggono ulteriormente ad accettare anche una loro qualche partecipazione ai costi dell’aggiustamento dei conti pubblici. Una discussione non puramente propagandistica in materia non dovrebbe tuttavia prescindere da alcuni dati di fatto. In particolare:

 

  1. La critica circa la presunta maggiore incidenza sul Pil del sistema pensionistico italiano rispetto a quello degli altri paesi europei non ha fondamento. In effetti, solo in piccolissima parte essa riflette la diversa situazione demografica. Per il resto lo scarto vero dell’indice deriva dal fatto che da noi esistono sistemi previdenziali obbligatori anche (per categorie numerosissime) del lavoro autonomo che altrove non sono invece previsti.

  2. I conti del nostro sistema previdenziale sono in equilibrio, malgrado il deficit di alcuni fondi speciali e di quelli del lavoro autonomo. I trasferimenti dallo Stato all’Inps non coprono interamente nemmeno le prestazioni assistenziali decise dal Parlamento. Anzi lo Stato trae addirittura vantaggio finanziario per il prestito forzoso imposto ai lavoratori dipendenti (senza averlo mai concordato con nessuno) in quanto il Tfr non destinato alla previdenza complementare viene depositato all’Inps da dove viene prelevato ed utilizzato dal Tesoro.

  3. Poiché dunque il finanziamento del sistema non utilizza risorse pubbliche, ma è interamente privato, dovrebbe essere giudicato inimmaginabile ogni intervento in materia previdenziale che non sia preventivamente discusso e concordato con le parti sociali.

  4. A questo riguardo, secondo alcune anticipazioni, il ministro del Welfare sarebbe intenzionato a proporre di portare immediatamente a regime la riforma Dini, estendendo a tutti pro-rata il sistema contributivo. Questa intenzione verrebbe motivata da ragioni di equità. In proposito è stato invocato il caso limite di un lavoratore che va in pensione da direttore generale avendo iniziato da fattorino. Sarebbe interessante conoscere quanti sono i possibili casi di questo genere. Mentre sono certamente centinaia di migliaia i lavoratori che, avendo preso atto di tempi e modalità di attuazione della riforma previdenziale, su di essa hanno costruito ipotesi e progetti per la propria vecchiaia. Propositi e programmi che, senza un motivo gravissimo ed ineludibile,  non andrebbero sconvolti continuamente.

  5. Al contributivo pro-rata si dovrebbe aggiungere una età di pensionamento flessibile. Dai 63 ai 68 anni. Con rendite proporzionalmente più alte per chi resterà fino a 68 anni. Si tratta di una inutile complicazione perché, come è noto, nel sistema contributivo l’età pensionabile non ha praticamente alcuna importanza, in quanto l’ammontare della pensione è la risultante di un calcolo attuariale basato sull’ammontare dei contributi versati e delle attese di vita.

  6. Secondo alcuni volonterosi l’incentivo al prolungamento dell’età pensionabile va interpretato come un contributo che viene richiesto ai padri a favore dei figli che rischiano di passare da un lavoro precario mentre sono giovani alla mancanza di pensione quando diventeranno vecchi. Ma, con il proposito di applicare a tutti il sistema contributivo è evidente che se i giovani continueranno a non avere altro futuro che quello della precarietà anche in ordine alla possibilità di costruirsi una pensione non cambierà assolutamente nulla. Quindi, se si vuole davvero aiutare i giovani, invece di perdere tempo con inutili finzioni, sarebbe il caso di intervenire per disboscare l’assurda proliferazione delle forme di rapporto di lavoro esistenti in Italia. E soprattutto per correggere, una volta per tutte, il fatto che il lavoro precario costa meno del lavoro stabile. Che è la vera ragione della sua crescita esponenziale. Senza di che persino il sacrificio dei padri derivante dal possibile prolungamento della loro età pensionabile si ritorcerà paradossalmente contri i figli. Perché, diminuendo il turnover, si otterrà l’irragionevole effetto  di rendere ancora più difficile l’inserimento dei figli nel mondo del lavoro.

  7. L’altra questione che viene sollevata è quella della eliminazione delle pensioni di anzianità. Perché, si afferma, in Europa esse costituiscono una anomalia. Argomento debole. In quanto anche il sistema pensionistico contributivo in Europa rappresenta una eccezione più che la regola. Il fatto è che, come per altri aspetti relativi ai sistemi di protezione sociale, le storie nazionali hanno prodotto costruzioni diverse. Quindi se si dovesse decidere che si deve andare verso una armonizzazione è evidente che si deve armonizzare tutto. Perché non sarebbe tollerabile che venissero eliminati i pochi aspetti positivi conservando invece tutti quelli negativi. In ogni caso, se si vuole discutere di pensioni di anzianità non si dovrebbe prescindere da alcuni punti fermi. In particolare, qui sì, per ineludibili ragioni di equità. A questo proposito, non esiste nessun possibile margine di discussione per quanto riguarda la condizione di coloro che effettuano un lavoro manuale. Anzi, andrebbe semmai affermato il principio, anche in deroga alle normative vigenti, che dopo 40 anni di lavoro essi hanno maturato indiscutibilmente il diritto alla pensione. Quale che sia la loro età anagrafica. Tanto più tenuto conto che svolgono mansioni più faticose e fisicamente più logoranti. Ma soprattutto avendo iniziato di solito a lavorare in più giovane età non si capisce perché mai dovrebbero lavorare mediamente più anni degli altri per maturare il diritto alla pensione. Da ultimo, perché attualmente le pensioni di anzianità relative al lavoro operaio costituiscono solo il 20 per cento del totale. Essendo l’80 per cento assorbito da categorie che fanno parte di fondi speciali, strutturalmente in disavanzo. A cominciare da quelli dei dirigenti e del trasporto aereo. Il che contribuisce anche a spiegare perché il valore medio delle pensioni di anzianità sia significativamente più elevato di quelle di vecchiaia.

 

Per le cose richiamate, ed altre che potrebbero essere aggiunte, dovrebbe essere evidente che il tema delle pensioni costituisce una questione delicata. Che andrebbe perciò maneggiata con estrema cautela. Avendo naturalmente conoscenze di causa. Ma soprattutto con la consapevolezza che non è possibile prescindere dal previo coinvolgimento ed assenso delle parti sociali sui correttivi possibili. Sia in quanto finanziatori esclusivi del sistema, sia perché titolari dei diritti. Diversamente, ogni tentazione interventista, magari agitata strumentalmente allo scopo di ammorbidire la riluttanza o l’opposizione di quanti finora sono riusciti a sottrarsi alla necessità di contribuire ai costi dell’aggiustamento economico, rischia di portare soltanto ad una situazione socialmente disastrosa.

Mercoledì, 23. Novembre 2011
 

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