Jobs Act , un desolante bilancio finale

Varati i due decreti delegati davvero importanti è possibile un giudizio definitivo. Non solo ci sono vari elementi di incostituzionalità, non solo manca tutta la parte dei servizi per l’impiego: la “grande riforma” si riduce alla liberalizzazione dei licenziamenti, grazie anche a trappole e trabocchetti

I decreti delegati. pronti già prima della legge, riguardanti articolo 18 e nuova disoccupazione, sono stati varati dal Consiglio dei ministri alla vigilia della festa. Si chiude così la partita del Jobs Act: il resto delle deleghe sarà materia per i più pazienti tra gli appassionati. Abbiamo quindi gli elementi per un giudizio argomentato. Un bilancio va tratto. Il mio giudizio (1) è negativo, come lo era sulla legge-delega, e ne espongo di seguito i motivi.

 

Il primo, da cui partire, riguarda ciò che non è stato fatto. Si era raccontato al pubblico, ai mercati, all'Ue che avrebbe preso corpo una grande riforma del lavoro. L'Italia ne ha davvero bisogno. Ma tutto si è concentrato sull'articolo 18. Per il resto, c'è chi spera...

Si è trattato insomma del terzo episodio di una saga, iniziata nel 2002, con l'obiettivo del licenziamento ad nutum: per i manuali, “dito puntato verso il malcapitato, sei fuori”.

 

La prima volta, Berlusconi aveva preso atto (a fatica) della sproporzione tra quel sogno di un ritorno all'Ottocento e il prezzo politico da pagare e aveva desistito (2). La seconda il prof. Monti si è accorto di avere esaurito i poteri speciali, con i tagli brutali alle pensioni, e ha ripiegato su una soluzione pasticciata, buona solo per dare lavoro a giudici e avvocati (esattamente il contrario di quello che si sperava, da entrambe le parti).

 

Il terzo assalto è stato affidato a Matteo Renzi. L'idea di una riforma, che aveva disegnato lo stesso Renzi (pur con eccessiva vaghezza) nella newsletter di gennaio (3), ha ceduto il passo a uno scontro di civiltà. Con l'aggravante che si trattava di una materia speciale, i licenziamenti, su cui le due parti pretendono entrambe di difendere un diritto ritenuto intangibile. Il diritto a non subire lesioni della propria dignità nel rapporto di lavoro, che non è meramente di natura commerciale in quanto stabilisce una subordinazione (funzionale) tra uguali (liberi cittadini), da una parte. Il diritto a disporre liberamente dei beni dell'impresa adottando le scelte ritenute idonee per un risultato economico ottimale, dall'altra. È evidente, senza scomodare le biblioteche dedicate all'argomento, che i due diritti, entrambi tutelati, sono destinati a porsi in conflitto. Sta alla legge stabilire dove passi il confine.

 

Il solo fatto che la politica abbia scelto di far propria la causa di una delle due parti è una fuga dalla realtà (e dalla storia). Non solo perché rompe con il principio base del carattere speciale del rapporto di lavoro per l'asimmetria di potere a favore della parte datoriale (la “scelta più di sinistra mai fatta”!) (4) ma perché con il (tentato) ritorno al licenziamento ad nutum si violano anche principi elementari del codice civile in materia di transazioni tra privati. In più, nel prendere le parti di uno dei soggetti si sono appoggiare tesi che con tutta probabilità non godono neanche del favore della maggioranza di quella parte. Almeno, non quella che assicura l'apporto principale alla ricchezza del paese.

 

Pessimo esempio, per una funzione da esercitare con il massimo senso di responsabilità.

Non è forse un caso che, nei due precedenti episodi, per gli artefici dello scontro il futuro si sia praticamente oscurato all'indomani. Il Berlusconi trionfante del 2002 ha visto il consenso crollare all'inizio del 2004, dopo l'”epocale” riforma del lavoro, aprendo la strada al ritorno di Prodi. E il Monti salvatore della Patria dell'inizio 2012 si è ritrovato dopo un anno ridimensionato a meteora della politica italiana. Ci sarà stavolta un futuro radioso per chi ha scelto di proiettarsi nel passato?

 

Di ritorno al passato parlerei anche per un altro aspetto della vicenda Jobs Act, il travisamento degli argomenti. A parte la tesi sulla “riforma più di sinistra della storia umana” di cui sopra, che dire della tesi secondo cui facilitare i licenziamenti favorisce le assunzioni? È stato detto, ma non si è avuto il coraggio di sostenerlo anche di fronte all'Europa (5), a cui si è confessato, candidamente, che il solo provvedimento che avrebbe potuto sortire effetti positivi è lo sgravio per le assunzioni a tempo indeterminato (a cui si è ridotta però la dotazione rispetto alla normativa precedente). E del superamento del dualismo tra garantiti e non, sbandierato mentre lo si accentuava, mantenendo le tutele in essere per i lavoratori in servizio e riducendole per chi sarà assunto in futuro; concedendo l'indennità di disoccupazione (nell'”altro” decreto) ai soli co.co.pro, gli unici di cui si prospetta (in un futuro decreto) il superamento; varando norme su misura per incentivare il ricorso alle false partite iva al posto dei dipendenti e tartassando quelle autentiche. (6) E del modello scandinavo, per cui si sarebbero spostate le tutele dal posto di lavoro (che la fine del taylorismo ha reso flessibile) al mercato del lavoro? A costo zero, avendo destinato le risorse ricavate dallo sforamento dei parametri europei a chi può contare su un reddito stabile (bonus 80€), mentre precari, salariati poveri (incapienti) aspettano. E per restituire efficienza ai servizi all'impiego si studia (con calma) una soluzione: che non richieda nuove risorse... E l'affermazione “abbiamo tolto ogni alibi agli imprenditori restii ad assumere e abbiamo reso l'investimento in Italia appetibile per i capitali stranieri”? Lentezza della burocrazia, corruzione, giustizia inefficiente, diseconomie esterne, scompariranno d'incanto una volta ripristinato il diritto di licenziare ad nutum.

 

Restando in tema di travisamenti, è la scelta stessa di perseguire il licenziamento ad nutum che deve essere dissimulata in quanto contraria alla Costituzione e ai Trattati europei. Ripensiamo all'apologo, in voga ai tempi di Monti e Fornero, del macellaio che “si può liberare della moglie ma non del garzone con cui l'ha tradito”, istruttivo perché falso sin dalla premessa. Della moglie non “ci si libera”, non esistendo più il ripudio, così come non esiste il licenziamento ad nutum. Da una moglie si divorzia, a norma di legge, così come il licenziamento di un dipendente è regolato dalla legge e può essere soggetto al giudizio di un magistrato. Altro che “il giudice non ci deve mettere becco”: il divieto di ricorrere al giudice va contro l'art. 24 della Costituzione, oltre a contraddire l'affermazione di voler salvaguardare il reintegro per i licenziamenti discriminatori, che presuppone siano indagati i motivi reali (“al di là delle motivazioni addotte”) di un licenziamento. Da questa contraddizione – che una parte della minoranza Pd ha ritenuto di risolvere conciliando l'inconciliabile – sono derivate a cascata le contraddizioni, le norme irragionevoli e le previsioni irrealizzabili che compaiono in questo decreto. Su cui giudici e avvocati saranno chiamati a esercitarsi per calarlo nel mondo reale, fintanto che non interverrà la Corte di Cassazione a raddrizzare (fino a ri-normare), o la Corte Costituzionale a cassare.

 

Gli esempi, ampiamente dibattuti, possono essere richiamati per titoli. Si reintegra per insussistenza del fatto contestato ma non per la sua non punibilità: se non hai commesso il furto sei reintegrato ma se ti ho contestato di aver comprato un'auto non Fiat (per dire), ed è vero, resti a casa. Si reintegra per difetto di comunicazione scritta (licenziamento in forma orale) ma non per difetto di motivazione nella comunicazione scritta (la differenza è tutta da scoprire). Si esclude il reintegro nei licenziamenti per motivi economici (la motivazione serve solo al giudice per decidere tra indennizzo e risarcimento), stando però attenti a non portare come motivazioni economiche “fattispecie” che rientrano nell'ambito disciplinare (come lo scarso rendimento) perché si rischia il reintegro. Si esclude in ogni caso il reintegro nei licenziamenti collettivi per motivi economici: ma la legge si applica solo ai neo-assunti, che dunque potranno essere licenziati non solo individualmente ma anche a cinque a cinque.

 

Non vado oltre con i problemi di costituzionalità (c'è qualche disparità di trattamento per soggetti uguali, sembra) e di eccesso di delega (modifiche alla legge 604). Né sul va e vieni della norma sull'esclusione del pubblico impiego, palesemente ridondante come sa chiunque mastichi l'ABC del diritto, anche se il centro-destra l'ha regolarmente inserita nelle sue riforme per motivi propagandistici (di significato ambivalente: concessione benevola ovvero minaccia, “prima o poi tocca anche a voi”). Vale però la pena di proporre un'ultima considerazione sui licenziamenti per motivi economici, su cui è stato costruito il presupposto per dar modo di scansare l'intervento del giudice.

 

Che in un'impresa con più di 15 addetti (dipendenti a tempo indeterminato) si possa presentare la necessità inderogabile di ridurre il personale di una sola unità (piuttosto che ricorrere agli strumenti alternativi a disposizione, a partire dalla riduzione di orario) si può solo scrivere nei tweet. Nella realtà è praticamente impensabile. Ecco il perché della querelle finale sullo “scarso rendimento” (di cui, temo, sentiremo ancora parlare). Qui sta il nodo della vicenda, perché se lo scarso rendimento deriva da motivi oggettivi o trova comunque una giustificazione che non configura alcuna violazione disciplinare, allora non rientra tra le giuste cause di licenziamento. Gli esempi vanno dai problemi di salute, alle condizioni psico-fisiche, momentanee o congenite, ma possono arrivare a comprendere anche situazioni di disagio invalidanti sia all'interno al luogo di lavoro sia nell'ambiente esterno, familiare innanzi tutto. Alla fine della fiera è attorno a questi casi che si è giocata la “guerra di religione”. In definitiva, si tratta del modo di gestire il personale. Di considerarlo davvero una risorsa, al di là degli slogan sulle HR”, human resources. (7)

Perché non porre dunque la questione in chiaro, sin dall'inizio in questi termini? Vien da pensare che questa reticenza degli imprenditori (o meglio delle loro rappresentanze, compreso il ministro che proviene dai loro ranghi) per nascondere una propria debolezza, sia la vera ragione della scelta di non passare per un accordo con le parti sociali. Scelta che ha dimostrato, più che spregio per la Costituzione (per il suo carattere speciale il licenziamento è materia su cui l'ultima parola deve spettare alla legge), scarsa saggezza

 

È così che ci ritroveremo ancora una volta, dopo la via crucis degli interventi della giurisdizione nelle varie forme e ai vari livelli, ad aver perso l'occasione per fissare in modo sufficientemente stabile nel tempo - e condiviso! - quel confine, tra diritti in conflitto, da cui ho preso le mosse. Non è anche questa (l'elenco è lungo) una delle manifestazioni più evidenti di una patologia, di un sistema politico che dimostra di non essere in grado di assolvere alle funzioni basilari cui è chiamato?

 

Note
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(1)   Come quello di non pochi altri. Tra cui segnalerei Luigi Mariucci, Jobs Act, brutti doni natalizi; Valentina Conte, “Dai lavoratori pubblici alle piccole imprese: tutti i “dualismi” che pesano sul Jobs Act”, La Repubblica, 29/12/14; Stefano Fassina, Con questo jobs act completa libertà di licenziare. Renzi segue l'agenda della troika,
 
(2)   Sugli effetti di quella riforma, tra gli altri, si vedano (in AA.VV., La “legge Biagi”: anatomia una riforma”, Roma, 2006): A. Accornero, “Lavoro, mercato, regole: quando il difetto sta nel manico”

 
(3)   Si trova a questo link
 
(4)   Il documento a cui mi riferisco è qui. Un commento della vicenda si trova sul mio sito.
 
(5)   Di questi aspetti dell'intreccio tra jobsact e legge di stabilità mi sono già occupato
 
(6)   “L'interpretazione corrente della legge riconosce lo scarso rendimento come giusta causa di licenziamenti solo se deriva da una condotta volutamente negligente o da una opposizione deliberata e ingiustificata al potere dispositivo (organizzativo) dell'imprenditore. In questi casi è infatti ricondotto ai motivi disciplinari, a condizione che siano rispettate le procedure e il diritto di difesa.” Le citazioni sono riprese da qui.
Giovedì, 15. Gennaio 2015
 

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