Il bivio di fronte a Draghi

Il suo discorso al Senato non marca una scelta di campo precisa. Ma ora è richiesto, come non mai, il coraggio di modificare gli attuali assetti di potere, a danno proprio degli ambienti che hanno fatto ricorso a lui come extrema ratio

Nessuno può dubitare che Mario Draghi abbia superato in modo molto brillante l’ostacolo (il “grosso rompicapo”) che il Presidente Mattarella gli aveva affidato il compito di risolvere. È riuscito a far sì che i partiti rappresentati in Parlamento appoggiassero “un governo non riferibile ad alcuna formula politica”: che rinunciassero, cioè, alla loro missione fondamentale in nome di un’emergenza nazionale. I numeri – una maggioranza superiore al 90% – non lasciano spazio a dubbi.

Ma che succederà ora? Come andrà avanti? Qui il giudizio deve essere molto più cauto e appare perfino controverso. Il suo discorso programmatico è stato abile, da politico consumato più che da tecnico (infatti, chi presiede la BCE ha responsabilità che rientrano a pieno titolo in un ambito politico tra i più delicati e impegnativi). Ma è arduo sostenere che abbia segnato una presa di posizione chiara, una scelta di campo a favore di un cambiamento radicale di paradigma.

Piuttosto, verrebbe da dire che è venuto a reimpostare il pilota automatico. La rotta deve essere modificata, perché a questa convinzione sono approdati i leader politici dell’Unione Europea: ma non si può consentire che il timone sia nelle mani della dirigenza politica locale. Quella che ha retto l’Italia dopo la crisi del 2008 fino all’arrivo di Monti era inaffidabile; quella venuta in seguito ha perso tempo e, soprattutto, ha perso contatto con la realtà aprendo la strada ai sovranisti-populisti; l’ultima, una soluzione di emergenza, sembrava più affidabile e meglio indirizzata ma era debole e “sotto schiaffo” da parte della vecchia politica. Pertanto, le correzioni dovevano essere imposte con un atto di forza evitando ogni possibile sovvertimento radicale dell’ordine costituito. Ossia, dell’ordine che regna a Bruxelles. Dove, ripresa in mano la situazione dopo le elezioni del 2019, si è deciso di aggiustare la rotta, per non perdere il controllo della situazione.

La domanda da porsi, come sostenevo in precedenza, era se Draghi avrebbe avuto la capacità di scegliere. Di non essere ecumenico ma di prendere partito. La risposta la darà il tempo, ma il suo discorso di investitura permette di formulare una previsione: non dà idea di volerlo fare.

Il Presidente BCE del “whatever it takes” ha mostrato in quel frangente grande determinazione e si è guadagnato per questo un notevole prestigio. Ma è chiaro che si tratta di due situazioni molto diverse. Allora era chiamato a difendere l’interesse dell’Europa (non certo della sola Italia) messa sotto attacco da potenze esterne (grande finanza e stati sovrani). Dal suo discorso di investitura si capisce che lo schema che ha in mente è il medesimo: anche adesso vede l’impegno che lo attende come una difesa dell’Italia dal nemico esterno. Esordisce parlando di «Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti»; proseguendo qualifica il suo governo come non di parte ma piuttosto “governo del Paese”; alle forze politiche che lo sostengono chiede «una rinunciaper il bene di tutti», i politici e i tecnici di questo governo sono «tutti semplicemente cittadini italiani». Infine, si richiama al precedente dell’immediato Dopoguerra quando partiti “ideologicamente lontani, se non contrapposti” collaborarono in un clima di “fratellanza nazionale”.

Al richiamo patriottico affianca subito quello alla patria europea, perché «fuori dall’Europa c’è meno Italia»: un passaggio con cui si conferma il fatto che l’incarico di governare l’Italia lo ha assunto in nome dell’Europa: che sarà “politicamente più integrata”, fino ad avere un bilancio comune; gli Stati nazionali acquisteranno “sovranità condivisa” cedendo parte della loro. Un modo per dire che i cambi di rotta che realizzerà, se ci riuscirà, saranno concordati con Bruxelles. Se non imposti.

Questo schema è rivelatore della formazione, e della forma mentis, del personaggio Mario Draghi: a dispetto delle responsabilità di grande rilievo politico che ha assunto, non sembra lasciare molto spazio a quella che dovrebbe essere la caratteristica peculiare dell’attività politica, che si basa sulla dialettica di posizioni diverse (in base a premesse di valore e a interessi di parte) e in conflitto tra loro. Parla piuttosto come uno che si sente chiamato a difendere una comunità solidale dalle insidie provenienti dall’esterno.

Non è un atteggiamento da condannare in sé, ci sono momenti e situazioni (come quella in cui l’euro era sotto attacco) in cui è quello che ci vuole. Il fatto è che in questo momento storico il problema che l’Italia nel suo assieme è chiamata ad affrontare è un altro, del tutto diverso. Deve modificare i rapporti di potere al suo interno perché quelli fin qui prevalenti, sin dal periodo della Ricostruzione post-bellica (che Draghi sbaglia storicamente a richiamare come modello di fratellanza nazionale, dandone una lettura che trascura il peso dell’ipoteca degli accordi di Jalta), hanno depresso le potenzialità di un popolo ricco di ingegno in quanto ne hanno limitato la libertà di azione e di manifestazione del pensiero.

Fino al 1989 la democrazia in Italia è stata limitata, bloccata dagli equilibri internazionali che la sovrastavano. Dopo di allora il tentativo di liberare la democrazia nel Paese, e di lasciare che le energie latenti si sprigionassero appieno è stato soffocato e attende ancora di essere portato a compimento. Ora è richiesto, come non mai, il coraggio di modificare gli attuali assetti di potere, a danno proprio degli ambienti che hanno fatto ricorso a Draghi come extrema ratio, contando sul suo prestigio. Con l’obiettivo, se non di tornare in auge, almeno di arrestare una deriva che rischiava di sovvertire l’equilibrio storicamente consolidato.

Resta dunque l’incognita: se Draghi avrà la lucidità – e il coraggio – di scegliere a quale Italia votarsi potrà avere un posto non solo nella storia dell’Europa (un posto che si è già guadagnato) ma anche nella storia della regione europea che gli ha dato i natali e di cui ambisce a ergersi a difensore. Alle incrostazioni di potere che hanno pesantemente condizionato lo sviluppo civile del suo Paese dovrebbe far capire che è intenzionato a sovvertire gli equilibri consolidati “a qualunque costo”. Aggiungendo, magari, che “mi dovete credere: sarà abbastanza”.

Temo però che servirà dapprima che qualcuno (da intendersi come un insieme di soggetti collettivi) abbia la forza e la chiarezza di idee per convincerlo a fare un passo di questa portata.

Lunedì, 22. Febbraio 2021
 

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