Flessibilità, l'Europa dica la sua

Nonostante il "pensiero unico" sulla necessità di estenderla al massimo per favorire l'occupazione, teoria in vari casi contraddetta dai fatti, persino nel paese che ne ha fatto una bandiera, l'Inghilterra, si comincia a prendere coscienza dei suoi aspetti negativi. Sarebbe il momento perché l'Unione desse un quadro di riferimento valido per tutti i paesi membri
Ormai cominciano ad esserne convinti in tanti: il "mantra" della flessibilità del lavoro non produce effetti benefici né sui mercati del lavoro né sulle condizioni di vita e di lavoro e nemmeno sulla solidità delle imprese europee. Soprattutto se la flessibilità viene interpretata e declinata secondo i dettami della più rigorosa ortodossia neo-marginalista. Quest'ultima precisazione la si trova, un po' a sorpresa, in un recente ampio saggio di David Coats, un inglese direttore di The Work Foundation, significativamente intitolato Who's afraid of Labour Market Flexibility?(1)
 
In questo saggio si sottopone ad analisi serrata un decennio di politiche del lavoro ispirate ai dogmi della flessibilità così come divulgati, per vero soprattutto in passato, dall'OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) o Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici), a seguito delle note analisi che individuano nella rigidità dei mercati del lavoro una delle cause della ancora consistente disoccupazione europea.(2) Il punto di vista è centrato sull'esperienza britannica, che dovrebbe essere un modello di flessibilità realizzata. Le conclusioni portano Coats ad affermazioni che dovrebbero far drizzare le orecchie (e i capelli) a tutti gli europei:
a) non è vero che la Gran Bretagna ha conosciuto negli ultimi anni soltanto politiche di flessibilità benedette dall'OECD  (ad esempio in materia di salario minimo o di orario di lavoro sono stati introdotti vincoli o si è proceduto con prudenza);
b) non è vero che il mercato del lavoro inglese abbia conseguito i risultati migliori in termini di occupazione, perché hanno fatto altrettanto bene altri paesi perseguendo politiche del lavoro sensibilmente diverse e meno ossessionate dalla flessibilità (ci si riferisce ad Austria, Olanda, Svezia e Danimarca);
c) non è vero che le politiche della flessibilità in salsa inglese siano il paradiso delle imprese: esse hanno mostrato moltissime controindicazioni ("the dark side of flexibility"), specie in ordine alla professionalità manageriale e no, agli investimenti in formazione, alla proiezione delle strategie di innovazione aziendale sui tempi medio lunghi, alla polarizzazione dei jobs (crescono good e bad jobs, ma vengono distrutti i middle jobs), alla mobilità sociale, alle disuguaglianze nei redditi (le ultime due con effetti che vanno per la verità molto al di là delle convenienze aziendali);
d) sarebbe quanto mai opportuno che l'ordinamento britannico accogliesse qualche nuova regola di labour law, segnatamente riguardo alla troppo ampia possibilità delle imprese di disfarsi dei propri dipendenti.
E così, con quest'ultima conclusione e proprio dove meno ce lo si aspetterebbe, rinasce in Europa la necessità di limitare il potere di licenziare, classicamente considerato come un salutare contenimento degli effetti indesiderati della flessibilità.

Certo si potrebbe iniziare un ragionamento in materia dalla Francia o dalla Spagna: paesi dove la lotta alla disoccupazione e al lavoro precario sembra invece aver prodotto interventi volti a ridurre i vincoli al licenziamento, magari solo per i neo-assunti. Al riguardo sono ancora vive le roventi polemiche di inizio primavera 2006 sul CPE, contrat première embauche,(3) che ha decretato il fallimento politico di Dominique de Villepin, ma che non ha intaccato la precedente introduzione (agosto 2005) del "contratto di nuova assunzione" (CNE),(4) basato su un meccanismo analogo al CPE.
 
E in Spagna solo da  pochi mesi  (con il decreto-ley del 9 giugno 2006 n. 5,(5) mediante il quale viene recepito l'accordo stipulato un mese prima con le parti sociali) il governo Zapatero tra gli strumenti per promuovere lavoro a tempo indeterminato e contrastare l'eccessivo ricorso delle imprese ai contratti a termine ha riconfermato ed ampliato la scelta del contratto per la promozione del lavoro stabile (contrato para el fomento de la contratación indefinida) che, in sostanza, si differenzia dal contratto a tempo indeterminato ordinario in quanto l'indennizzo che spetta al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo per motivi oggettivi risulta essere di entità meno elevata.(6)
 
Se si enfatizzasse il significato di queste scelte francesi e spagnole (per molti versi però diverse tra loro) la direzione di marcia dell'Europa apparirebbe di nuovo unilineare: flessibilità e licenziabilità intese come una inseparabile coppia. Il senso comune ne risulterebbe rassicurato e molti policy maker rincuorati. In Italia potrebbe persino tornare d'attualità la polemica sull'anacronismo dell'art. 18, facendo la felicità di quanti si affannano ormai da anni a produrre proposte di riforma abrogative di questa anomalia tutta italiana.(7)
 
Divergenze di principio e difficile interpretazione dei dati
Ma  bisogna guardarsi bene dal compiacere l'acuto bisogno di capri espiatori o di facili risultati da sbandierare per guadagnare effimeri consensi. Questo insegna l'esperienza inglese, già ricordata; e questo insegna anche l'esperienza francese, nella quale è apparso molto molto difficile valutare con certezza l'impatto occupazionale dell'introduzione del CNE.(8)
 
Anche l'esperienza italiana in realtà induce alla prudenza, soprattutto dopo l'inutile shock cui è stato sottoposto il diritto del lavoro italiano negli ultimi cinque/sei anni.
Certo in Italia la flessibilità non è andata a braccetto con la licenziabilità: dinanzi alla proposta di abrogare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori ci fu, come si ricorderà, un inespugnabile muro sindacale, che il governo di centro-destra scelse di aggirare scontentando grandemente Confindustria e partorendo una riforma ispirata a tutte le possibili flessibilità tranne quella in uscita.
 
Naturalmente anche le altre flessibilità non erano di facile digeribilità per il mondo sindacale, che solo in parte sottoscrisse il Patto per l'Italia del 2002, avallando una legislazione barocca e tortuosa, incentrata: sulla proliferazione dei tipi contrattuali per assumere a costi (relativamente) più bassi; sulla valorizzazione, da un lato, dell'autonomia negoziale a scapito di quella collettiva e, dall'altro lato, del libero mercato a scapito di un serio rilancio del servizio pubblico diretto ad implementare politiche attive del lavoro con tempi e modi appropriati; su improbabili ibridi di lavoro autonomo e subordinato (tale è il lavoro a progetto); su meccanismi di deflazione del contenzioso mal concepiti e peggio congegnati, destinati solo ad elevare il tasso di ipocrisia giuridica da cui è sempre di più affetto il diritto del lavoro italiano. Il tutto nella convinzione che il principale problema del mercato del lavoro italiano fosse la sua estrema rigidità, causa di un sempre più elevato tasso di lavoro nero, grigio o, comunque, non ufficiale.(9)
             
Vista oggi - e tenendo anche conto delle difficoltà politiche a superarla - la riforma italiana si presta ad un bilancio, al momento, semi-fallimentare, soprattutto perché non ha intaccato il tasso di economia sommersa, aumentando invece sensibilmente la precarietà del lavoro. Aumenta il flusso degli occupati precari (più 11% di assunti a termine nel 2004; circa il 50% di assunti con lavoro a progetto nei servizi per il 2005) e diminuisce anche lo stock di occupati stabili, con preoccupanti arretramenti rispetto alle medie europee (32% in Italia contro il 39% in Europa, che, se si guarda al lavoro femminile, diventano 23% contro il 30%).(10)
 
Non si deve però essere ingenerosi. La colpa maggiore degli scarsi risultati della riforma italiana non sta probabilmente nei rimedi, ma nelle diagnosi che hanno condotto a certe scelte, talora, si deve supporre, anche in buona fede. Sotto questo punto di vista  sono molto convincenti le considerazioni di Emilio Reyneri,(11) che sottolinea tre cose:
a) non è affatto vero che il mercato del lavoro italiano sia caratterizzato da un tasso alto di rigidità rispetto a quello di altri paesi: questa, che sembra ormai una banalità, è frutto di un errore di valutazione nelle analisi dell'Ocse, errore che è stato ammesso nel 2004 e che consiste nell'aver ritenuto doppio l'indicatore di rigidità dei mercati del lavoro utilizzato in queste analisi internazionali;
b) la principale patologia del mercato del lavoro italiano e meridionale è l'economia sommersa, poco o nulla scalfita da allettamenti normativi o riduzioni del costo del lavoro tanto minimi quanto complicati;
c) le dinamiche occupazionali sono infine insoddisfacenti soprattutto per la qualità del lavoro e ciò è imputabile in buona parte al nanismo delle imprese italiane (secondo dati Eurostat la percentuale italiana di micro-imprese - cioè con un massimo di 9 lavoratori - è di oltre il 95%, contro l'85 dell'Irlanda, l'88 della Germania, il 90 dell'Olanda, il 93 della Francia; ma ancora più eclatante è il dato sulle imprese medio-grandi - cioè con più di 50 addetti - che in Italia sono lo 0,5% contro l'1,7% di Germania, lo 1,1% della Francia, il 2,7% del Lussemburgo, il 2,6% dell'Irlanda, il 2,4% dell'Austria e il 2,2% dell'Olanda). Tutto ciò, con grande evidenza, si ripercuote in primo luogo sulle economie delle Regioni più esposte e, in modo particolare, sul Mezzogiorno.

Se è vero che l'errore sta nella diagnosi, allora ciò deve servire anche per orientarci nel riprendere le riflessioni europee sul nesso tra flessibilità e licenziabilità. Infatti è sempre in agguato una proposizione: le imprese non assumono perché poi non possono licenziare. I limiti alla possibilità di licenziare rendono il lavoro sommerso e precario imbattibile; se si vuole rilanciare il lavoro a tempo indeterminato basta ridurre drasticamente i vincoli alla licenziabilità. Si tratta di una speciale versione di quella tendenza nella legislazione sul lavoro che si può definire, con Coats, "race to the bottom"; e, dinanzi a questa tendenza, è inevitabile chiedersi: che fine fa lungo questa direttrice evolutiva il modello sociale europeo?

Come si è visto dall'esperienza inglese verrebbe un altro insegnamento. Ed anche la Germania non sembra granché convinta dalla ricordata proposizione, grazie soprattutto ad un orientamento negativo da parte del ministro del Lavoro socialdemocratico del nuovo governo Merkel.(12) Ma Francia e Spagna qualche tentazione la rivelano: anche se ciascuna con la sua specifica storia alle spalle. Tutto considerato però è utile riproporre alcune domande almeno all'apparenza vecchie, tenendo conto di elementi normativi e fattuali nuovi.

Il primo è che gli sviluppi degli ordinamenti giuridici - tanto nazionali quanto europei - non possono seguire analisi basate essenzialmente su dati di tipo economico, per di più non sempre incontrovertibili. In questo ha ragione Coats: "it is problematic … that the OECD's approach to EPL (Employment Protection Laws) is primarly economic. What is missing from their analysis is any sense that EPL exist to offer a degree of workplace justice that would simply not materialise in a free market". A mio parere questa è ormai un'indicazione di metodo e di merito che gli europei non possono in alcun modo ignorare: le recenti vicende dimostrano che la stessa integrazione politico-istituzionale può venire messa a serio rischio se si trascura la sete di giustizia sociale (da non confondere con l'attaccamento ai privilegi) delle popolazioni. Né questa esigenza si può appagare scrivendo unicamente una Carta di principi contenenti i diritti sociali fondamentali: almeno fino a che non si chiarisce qual è l'effettiva portata giuridica di questi diritti e quale spazio devono assumere concretamente negli ordinamenti giuridici nazionali. I principi e le norme devono vivere e non solo nelle aule di giustizia; devono essere compresi dai cittadini e, possibilmente, essere in sintonia con il minimo comune denominatore delle culture nazionali.(13)
 
Sotto questo aspetto il conflitto sociale francese acceso dal contrat première embauche e l'ampia opposizione alla prima versione della Direttiva Bolkestein(14)  hanno mostrato come l'Europa sociale non pretende di esistere solo nella testa e nei cuori degli elettori francesi e olandesi, ma anche nelle strade e nello spirito delle grandi capitali del continente. La ragione economica deve giustamente indicarci i limiti derivanti dalla necessità di competere sui mercati mondiali; ma alla politica e al diritto compete il compito di preservare di un popolo la sua anima collettiva o addirittura di edificarla (come nel caso dell'Europa): senza di essa e con il solo ausilio del calcolo economico è impossibile coniugare sviluppo economico e benessere sociale.

Tanto più che un'attenta analisi economica sta lì a dimostrarci che il problema non è il grado di protezione assicurato dalle leggi ai lavoratori. Nell'Employment Outlook 2004 dell'OECD  risulta che Svezia, Austria, Danimarca e Olanda sono tra le nazioni con la disciplina più restrittiva in materia di licenziamenti individuali o collettivi:(15) ciononostante, come si è detto, le loro performance in termini occupazionali sono di tutto rispetto, sicuramente paragonabili a quelle inglesi (come è immaginabile l'Inghilterra ha la legislazione più permissiva in materia).(16)

E nemmeno da trascurare è un'altra considerazione di carattere generale: spesso non è la mera disciplina legislativa a fare la differenza, ma la sua concreta applicazione. Ad esempio sulla carta il Portogallo ha una disciplina assai più restrittiva della Spagna: ma è quest'ultima ad avere un tasso di controversie vinte dai lavoratori molto più elevato. Si tratta di un dato che rimanderebbe ad un'accurata analisi della giurisprudenza, chiedendosi, tra le altre cose, se la spiegazione del caso spagnolo vada cercata nei contenuti legislativi o negli orientamenti dei giudici o nei meccanismi processuali. Ma di per sé esso ci invita a scindere l'analisi statica della legislazione da quella della sua applicazione ad opera dei giudici, perché diversi possono essere i rimedi dinanzi ad una qualche patologia. In questo anche il caso italiano è paradigmatico: sappiamo tutti che l'art. 18 dello Statuto sarebbe assai più sostenibile se la durata dei processi in Italia fosse contenuta entro limiti accettabili. 
    
Fatta la tara all'effettivo ruolo che può giocare il quadro normativo, bisogna poi riconoscere che nel diritto comunitario sono emersi valori, principi e persino diritti nuovi:(17) come appunto quello secondo cui "ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali" (art. II-90 del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa; art. 30  della Carta di Nizza). Pur sottolinenando come la formula non sia priva di genericità o ambiguità "il rilievo di questo solenne riconoscimento non è di poco conto: il diritto in argomento, anche se trova riscontri nelle norme internazionali(18)  e nelle leggi di vari Stati membri, non è mai stato oggetto di proclamazioni di rango costituzionale negli ordinamenti interni.(19) Almeno su questo aspetto il Trattato non è più arretrato delle Costituzioni nazionali".(20)

Rimane certo da chiarire quale deve essere il "contenuto essenziale del diritto" (art. II-112 par. 1 del Trattato) ed il suo ambito di riferimento. Quanto al primo non v'è dubbio che non può non esserci una sanzione in caso di licenziamento ingiustificato.(21) Per il secondo aspetto si pone invece la questione che più da vicino ci riguarda: il diritto di cui all'art. 30 della Carta di Nizza in quanto diritto sociale fondamentale è riconosciuto anche ai lavoratori assunti con "contratti flessibili"? E' chiaro che la questione non può porsi per i contratti ai quali si prevede l'apposizione di un termine (o meglio si pone in maniera più limitata, in quanto attiene alla tutela contro il licenziamento immotivato fino alla scadenza del termine).(22) Ma quel diritto può essere limitato - ad esempio temporalmente, come nei CNE(23)  e CPE francesi - per alcuni contratti a tempo indeterminato? O bisogna ritenere, come da tempo ha fatto la Corte Costituzionale italiana,(24) che al di là di un più o meno lungo periodo di prova, tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato hanno diritto ad essere tutelati contro il licenziamento ingiustificato, salvo una modulazione dei meccanismi sanzionatori rimessa al prudente apprezzamento del legislatore?  E, infine, quel diritto può essere escluso o ridotto a ben poca cosa in virtù di un'ambigua qualificazione legislativa, come accade ad esempio in Italia con il lavoro a progetto?(25)
 
Ragionare per modelli o per punti cruciali
Al di là delle risposte riguardanti aspetti importanti ma specifici (come quello appena ricordato), una tentazione ricorrente nell'analizzare le tendenze dei sistemi europei è quella di ricondurre le soluzioni legislative specifiche all'interno di una modellistica che rispecchia diverse impostazioni ideologiche prima ancora di categorie e regole giuridiche.
 
In questa prospettiva è abbastanza frequente la contrapposizione tra un "modello anglosassone" e un "modello nordico": il primo caratterizzato da un elevatissimo grado di flessibilità della legislazione del lavoro (light EPL), sindacati e contrattazione collettiva deboli, forte competizione di mercato, basso livello di tasse e di benefici da welfare, alti tassi di occupazione, ma disuguaglianze nei redditi e una forte presenza di working poors; il secondo invece basato su una forte enfasi sulla contrattazione collettiva e il dialogo sociale, benefici da welfare generosi ma di durata limitata e finalizzati alla ricerca di un lavoro (workfare), più stringenti EPL, tasse più alte e maggiore equilibrio sociale. Nell'ambito del modello nordico emergerebbe l'orientamento alla flexicurity, diretta a contemperare una notevole dose di flessibilità organizzativa anche in uscita con adeguate garanzie di reimpiego per i lavoratori.

Non credo che l'integrazione europea possa giovarsi di una polarizzazione di questi due modelli. Ne è una riprova la difficoltà di ricondurre l'Italia (ma anche altri paesi) all'uno o all'altro. Come pure lo sforzo di creare sintesi o punti di convergenza, come un modello anglo-sociale, intorno a cui lavora ad esempio Coats nel saggio citato.
Ragionare e procedere per modelli in realtà non solo è difficile, ma può anche rendere assai complesso delineare punti di convergenza che valgano ad avvicinare le culture delle imprese, dei lavoratori e dei sindacati. Se è sempre più vero che non possono esistere ricette uniche, anche la modellistica va ridimensionata per far posto ad una riflessione che ponga al centro un sistema di fonti flessibili ed alcuni irrinunciabili valori ed obiettivi.(26) Per il primo va fatto spazio alla contrattazione collettiva, anche transnazionale.(27) Per i secondi, va approfondito il grado di effettività da assicurare negli Stati nazionali a principi ormai maturi, come quello della non arbitrarietà dei licenziamenti.
 
In fondo proprio in questa materia non possono esservi dubbi su valori ed obiettivi: una disciplina restrittiva del licenziamento - oltre ad essere coerente con i principi generali del diritto dei contratti per il quale il recesso unilaterale è un'eccezione che andrebbe espressamente prevista, almeno nel contratto individuale, e che se viziato da nullità non può determinare l'estinzione del contratto(28)  - è indispensabile almeno a tre effetti: a) tutelare la dignità del lavoratore; b) incentivare gli investimenti aziendali sulla qualità del lavoro; c) consentire una presenza sindacale nei luoghi di lavoro. Più che di modelli, al riguardo, l'Europa sembra aver bisogno di regole più precise e comportamenti più omogenei che concilino le diverse esigenze in modo funzionale ed effettivo. Forse meglio sarebbe fare il punto su queste esigenze comuni e valutare i modi ottimali per soddisfarle. Quanto alle esigenze c'è:
a) da incoraggiare le imprese a valorizzare il fattore lavoro, connotandolo in termini qualitativi, cioè di knowledge (v. la strategia di Lisbona );(29)
b) non massificare i lavoratori, consentendo l'emersione delle individualità e la loro combinazione ottimale con le esigenze delle organizzazioni e i contesti socio-territoriali in cui il lavoro viene prestato, da un lato, e utilizzato, dall'altro; 
c) riconoscere un significativo ruolo al sindacato e alla contrattazione collettiva in una disciplina dei licenziamenti che risponda alle esigenze appena indicate.

Se su queste esigenze si concorda, non ci si può fermare alla, pur faticosa, emersione ed interpretazione di una tutela costituzionale europea contro i licenziamenti arbitrari. Occorre capire come si può andare  verso una più marcata armonizzazione e, soprattutto, estendere realmente il nucleo minimo e irrinunciabile di tali tutele all'Europa orientale.

 Oltre tutto, se la prospettiva di percorsi di ulteriore armonizzazione in questi ambiti può spaventare, è necessario avere ben presente che esistono alcune Direttive che riguardano altre materie ed altri istituti, ma che non possono non interagire sulla disciplina del licenziamento in generale. Mi riferisco innanzitutto alle Direttive c.d. di seconda generazione sui divieti di discriminazione, in virtù delle quali nei rapporti di lavoro, anche flessibili, deve essere comunque garantita l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta dovute non solo al sesso, ma anche alla razza e all'origine etnica, prevedendo particolari regimi probatori e sanzioni "effettive, proporzionate e dissuasive" (v. artt. 15 della Direttiva 2000/43 e 17 della Direttiva 2000/78, che però non escludono sanzioni risarcitorie). E queste Direttive si applicano esplicitamente (v. art. 3 di entrambe) "all'occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione".(30)
 
Quali strade servono di più a costruire l'Europa? 
Da approfondire assai è dunque la questione di un adeguato dosaggio di fonti e contenuti precettivi se ci si pone nella prospettiva di una nuova stagione di armonizzazione normativa europea. D'altronde se la costituzionalizzazione di un diritto può essere a monte la strada maestra da percorrere fino in fondo, specie una volta che sia basata su valori e principi ampiamente condivisi e, tutto sommato, ampiamente sperimentati in molti ordinamenti nazionali, a valle esiste un enorme problema di definizione degli ambiti di applicazione, di tecniche normative  e di articolazione delle tutele.
 
Su questo gli ordinamenti si differenziano moltissimo tra loro. Alcuni (Germania) fanno leva sul coinvolgimento delle rappresentanze dei lavoratori nelle imprese (ma solo nelle più grandi); altri si basano su relazioni sociali di tipo più conflittuale (Italia e Gran Bretagna); altri ancora lasciano ampi spazi alle incognite dell'applicazione giurisprudenziale (Francia, Spagna,Gran Bretagna). Ampie diversità implementative però, mentre possono essere gestibili con riguardo ad un limitato numero di paesi, rischiano di essere inconoscibili e ingovernabili quando i paesi diventano tanti e con prassi assai differenziate tra loro. Qui c'è sicuramente uno sforzo da fare alla ricerca di una maggiore omogeneità almeno di alcuni capisaldi della disciplina, che non può essere limitata ad una importantissima ma esile cornice costituzionale.

Da questo punto di vista è interessante l'esperienza di regolazione comunitaria dei licenziamenti collettivi, che, pur non conducendo ad una totale omogeneità, ha però determinato sensibili accostamenti in ordine alla fattispecie, alle procedure, alle garanzie minime individuali e collettive, lasciando peraltro il dovuto spazio alle prassi applicative nazionali.(31)
 
Qualcosa di analogo potrebbe anche sperimentarsi sui licenziamenti individuali, prevedendone un ambito di applicazione definito in modo omogeneo - specie in considerazione del proliferare di tipi contrattuali o di canali peculiari a sostegno dell'occupazione di determinati soggetti - sì da evitare che si proceda di paese in paese con scelte radicalmente differenti. Non può ad esempio non colpire che in Francia, già dall'estate 2005, siano stati esclusi i dipendenti giovani, cioè al di sotto dei ventisei anni, dal calcolo dei lavoratori effettivi da computare per l'applicazione delle tutele legali e contrattuali (unica eccezione, la sicurezza sul lavoro).(32) Si rischia così di alterare enormemente non solo le condizioni di lavoro degli europei, ma anche le regole fondamentali per valutare i vincoli e le dimensioni delle imprese nei diversi paesi.
 
In Francia, ad esempio, per certi effetti legali o contrattuali una piccola impresa potrebbe anche avere centinaia di lavoratori, purché assunti con una tale flessibilità da mantenerne sempre una consistente quota al di sotto dei ventisei anni. Ma che senso ha allora ancorare in sede comunitaria agevolazioni, modelli organizzativi, tutele a parametri occupazionali quantitativi? Si tratta di veri e propri  trucchi contabili, anche se non riguardano direttamente i bilanci pubblici. Perché allora non dettare criteri di regolazione che diano uniformità e conseguente comparabilità dei diversi paesi?
 
Europa e resto del mondo
Naturalmente è chiaro che qualunque irrobustimento o pur lieve razionalizzazione migliorativa delle tutele in ambito europeo solleva ed aggrava una questione di fondo: come fare uscire dall'isolamento mondiale un eventualmente rafforzato modello sociale europeo. La  globalizzazione come forza che conduce ad un'equiparazione al ribasso non è infatti una mera invenzione, anche se essa non può surrogare le volontà politiche delle macroaree del mondo quale è l'Europa. Qui non si può certo approfondire questo complicatissmo problema. E' però doveroso menzionarlo, specie per esprimere una convinzione che può essere più o meno condivisa: la realtà del mercato globale non è un alibi per ridimensionare senza fine le tutele sociali, ma una seria difficoltà da affrontare con tutti gli strumenti politici e giuridici. E questi strumenti non mancano, se c'è la volontà di utilizzarli.(33)
 
  Lo scritto è destinato agli Sudi in memoria di Matteo Dell'Olio.
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Note
 
1) Vedilo nel sito della Fondazione Adapt.
2) Nel giugno 2006 il tasso di disoccupazione è del 7,8% nella zona Euro e dell'8,1% nella Ue a 25 (dati Eurostat, in il Sole 24 ore del 2 agosto 2006).
3)  Il CPE può essere utilizzato da tutte le imprese del settore privato con più di 20 dipendenti per l'assunzione di giovani al di sotto dei 26 anni, esclusi i lavori stagionali. In caso di recesso anticipato del rapporto di lavoro da parte dell'imprenditore nel corso dei primi due anni, quest'ultimo non può sottoscrivere un nuovo CPE con lo stesso giovane prima di tre mesi. Il CPE obbedisce alla stessa legislazione dei CDI (contratto a tempo indeterminato), salvo che per quello che riguarda la rottura del contratto. Durante il "periodo di consolidamento" di 2 anni, l'imprenditore può, in ogni momento, licenziare il dipendente senza l'obbligo di motivare. Come nel caso del CNE (per il quale v. la nota successiva), ogni ricorso al giudice si prescrive nel termine dei 12 mesi. Superati i primi due anni, il CPE si trasforma in un regolare contratto a tempo indeterminato. Le garanzie che sono state offerte per il CNE in caso di licenziamento vengono leggermente migliorate:  il giovane ha diritto, salvo colpa grave, a un preavviso di due settimane per una anzianità compresa tra uno e sei mesi, e di un mese per una anzianità superiore; a un' indennità di licenziamento pari all''8% della retribuzione totale percepita dalla sua assunzione; se non ha una anzianità sufficiente per ottenere l'indennità di disoccupazione, il giovane riceve poi un assegno giornaliero di 16,40 euro per due mesi e beneficia di un "accompagnamento rafforzato" da parte del Servizio dell'impiego, finanziato da contributi versati dall'imprenditore pari al 2% del salario.
4) Il "contratto di nuova assunzione" (CNE), riservato alle piccole imprese (fino a 20 addetti), è un contratto a tempo indeterminato (CDI) con una importante innovazione: nel corso dei primi due anni può essere interrotto dal datore di lavoro senza giustificato motivo per il licenziamento (poi il contratto diviene un CDI di diritto comune). L'estinzione del rapporto di lavoro dà luogo al preavviso e al versamento di una indennità ad hoc (8% della retribuzione lorda totale). Ogni eventuale ricorso al tribunale si prescrive nell'anno. Per addolcire la pillola, su richiesta dei sindacati, l'interruzione del rapporto di lavoro presenta numerose contropartite: diritto alla formazione, accompagnamento rafforzato da parte del Servizio pubblico per l'impiego, erogazione forfettaria statale di 500 euro in un'unica soluzione in assenza di indennità di disoccupazione: v. Freyssinet, I secondi cento giorni di Villepin: nascita e morte del contrat première embauche, in DLM, 2006, n. 2.
5)
Consultabile qui
6)
V. Santos Fernández, Alcune note sulla recente riforma spagnola del mercato del lavoro, in DLM, 2006, n. 2; v. anche BAYLOS GRAU A., Spagna, storia e analisi dell'accordo sul lavoro, in Eguaglianza e libertà. Rivista di critica sociale on line, qui. Il contratto in questione era stato già introdotto nel 1997: v., oltre agli autori citati, Loffredo, Il "decretazo": l'ultima versione della riforma permanente del diritto del lavoro spagnolo, in DLM, 2003, pp. 593-610.
7) V., per tutti, Zoppoli L., Il licenziamento tra costituzionalismo e analisi economica del diritto,  e De Luca Tamajo, La discplina del licenziamento individuale tra conservazione "miope" e tentativi di riforma, in DML, 2000, risp.  415 ss. e 513 ss.; Liso, Appunti sulla riforma della disciplina dei licenziamenti, Carinci F., Discutendo intorno all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori,  e Ichino P., La stabilità del lavoro e il valore dell'uguaglianza, in RIDL, risp. 2002, I, p. 169 ss.,  2003, I, p. 35 ss., e 2005, I, spec. pp. 28-29. La versione più recente di questo dibattito si riaggancia alla lotta alla precarietà: v. Ichino P., Come superare il dualismo del mercato del lavoro e  Considerazioni (quasi) conclusive su lavoro precario e stabilità, Boeri-Garibaldi, Un sentiero verso la stabilità, Pallini-Leonardi, Quale riforma per la legge Biagi, tutti in in Lavoce.info, dell' 8maggio e del 4 settembre 2006; al riguardo v. anche Naccari, Tre proposte che non convincono, in Eguaglianza e libertà. Rivista di critica sociale on line, qui
8) "L'INSEE (Istituto nazionale di statistica e di studi economici), per effettuare le sue previsioni congiunturali, si è posto il problema del metodo da utilizzare per il calcolo degli effetti dei CNE. La questione è difficile perché non c'è un riflesso diretto sui costi salariali per gli imprenditori. I titolari dei tradizionali contratti a tempo indeterminato non ricevono l'indennità di licenziamento se non al termine di due anni di anzianità. I titolari dei contratti a tempo determinato ricevono, alla scadenza del contratto, un "premio di precarietà" pari al 10% del salario perduto, quind
Sabato, 25. Novembre 2006
 

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