Tre proposte che non convincono

Apparse su "lavoce.info", hanno in comune la prospettiva di uno scambio fra una sostanziale unificazione dei contratti di lavoro e una riduzione delle tutele più o meno accentuata. Ma non è accettabile scaricare sul lavoratore il rischio d'impresa
1. Una prova dell'attitudine apparentemente modernista nel progettare la riforma del diritto del lavoro è contenuta in tre proposte (Boeri e Garibaldi; A. Ichino; Leonardi e Pallini; con introduzione di P. Ichino) di flessibilizzazione parziale delle tutele del rapporto di lavoro (vedi www.lavoce.info).

Nell'introduzione alle proposte, Pietro Ichino dichiara di condividere la proposta promossa a suo tempo dalla CGIL, che ha indicato come la distinzione tra lavoro subordinato e parasubordinato sia del tutto superata dalla realtà delle nuove professioni e come la cosiddetta eterodirezione non possa svolgere alcuna funzione discretiva e dunque sia matura l'ora di configurare un solo rapporto di lavoro connotato dalla dipendenza socioeconomica e di riunificare subordinazione e parasubordinazione.

Solo che, per la proposta CGIL, questa unificazione deve comportare l'estensione delle tutele oggi previste per il solo lavoro subordinato a tutti coloro che operino effettivamente per altri in stato di dipendenza socioeconomica, proprio perché va superato il vecchio equivoco che le tutele siano date a compenso della subordinazione personale anziché, come è vero, della dipendenza socioeconomica. Per Ichino, viceversa, l'unificazione deve essere accompagnata da un abbassamento delle tutele oggi riservate, particolarmente in materia di licenziamenti, ai rapporti di lavoro subordinato ed in questo senso si dichiara favorevole alle tre proposte presentate, le quali costituiscono, a ben vedere, soltanto variazioni sulla vecchia equazione: meno garanzie uguale maggior occupazione; o costituiscono uno scambio tra minori tutele e unificazione dei rapporti di lavoro.
 
2. Scendendo ad un esame delle tre proposte, si può rapidamente segnalare, anzitutto, un necessario dissenso con quella (A. Ichino) che è tutta giocata sul binario contratto a tempo determinato/contratto a tempo indeterminato.

L'essenza della proposta è quella di sostituire a tutti i contratti atipici un contratto temporaneo limitato (CTL), il quale dovrebbe avere durata minima di almeno tre anni, non ripetibile presso la stessa azienda e ripetibile per non più di tre volte durante l'intera vita del lavoratore. Già questo limite palesa l'assurdo della proposta, perché ci chiediamo quale destino attenderebbe il lavoratore che avesse già "consumato" tre contratti di questo tipo in un mercato in cui le imprese preferiscono questo contratto rispetto a quello a tempo indeterminato. A quel punto, infatti, il lavoratore "dovrebbe" essere assunto solo a tempo indeterminato; ma da chi? D'altra parte la proposta forse non è neanche appetibile al padronato, stante l'attuale apprendistato di sei anni e a contribuzione fortettaria.

Il fatto è che ci si ostina a non comprendere che i contratti atipici non sono solo un modo di sottoporre il lavoratore a delle "lunghe prove", ma ormai proprio una tecnica di sfruttamento del lavoro implicante un accentuato turn-over, come dimostra la circostanza che ormai più del 50% di contratti a termine non vengono confermati. E' illusorio pensare che fissare una durata minima (non già massima) di tre anni a un contratto a termine senza causale implichi comunque un interesse del datore di lavoro a confermare il lavoratore ormai esperto. Questo perché il contratto a termine non viene affatto utilizzato normalmente per le professionalità alte, per le quali questo tipo di aspettativa potrebbe forse avere un senso. Viene usato, al contrario, di preferenza per le mansioni operaie e d'ordine. Questa proposta, pertanto, servirebbe su un piatto d'argento alle imprese, ad esempio commerciali, la possibilità di cambiare ogni tre anni commesse, segretarie, addetti ai servizi vari etc., dopo averli in quei tre anni tenuti in stato di soggezione nell'illusione di una conferma che non verrà.

3. Per la proposta Boeri e Garibaldi il contratto a termine resterebbe incondizionato, limitato a due anni, e penalizzato da un incremento contributivo. La rimodulazione contributiva riprende alcuni suggerimenti già elaborati altrove (anche in casa Cgil) ed è senz'altro accettabile, entro un quadro tuttavia di recupero della disciplina limitativa del lavoro a termine e di vera attuazione della Direttiva Comunitaria (che richiede un numero e un tempo massimo di contratti a termine presso lo stesso datore di lavoro).
 
La proposta, poi, vorrebbe configurare, quanto al rapporto a tempo indeterminato, un "sentiero a tappe" verso la stabilità che appare, tuttavia, piuttosto artificioso. Dopo un lungo periodo di prova (da sei a dodici mesi), il lavoratore entrerebbe in un purgatorio della durata di due anni, detto "periodo di inserimento", durante il quale fruirebbe dell'articolo 18 dello Statuto solo in caso di licenziamento disciplinare; fruirebbe, invece, di tutela obbligatoria  (risarcimento da due a sei mensilità) in caso di licenziamento economico per motivo oggettivo. E solo dopo il terzo anno fruirebbe dell'art. 18 anche per questo secondo tipo di licenziamenti (art. 18 che, comunque, non si applicherebbe per i lavoratori delle piccole imprese).

Qui non si comprende che cosa significa quel genere di tutela solo risarcitoria limitata al licenziamento economico per motivo oggettivo. Infatti, se un licenziamento viene intimato per motivo oggettivo, le possibilità sono due, e cioè che esso esista davvero, ed allora nessun risarcimento deve essere dovuto; oppure che il motivo non esista, e in tal caso si tratterà di un licenziamento arbitrario che deve essere trattato, né più né meno, come un licenziamento intimato per motivo soggettivo, anche esso arbitrario. Con questa "riforma" basterebbe al datore di lavoro intimare il licenziamento, durante il "periodo di inserimento", sempre come "economico" (indipendentemente dalla ragione vera), per sottrarsi alla tutela della stabilità reale dell'articolo 18 e rischiare solo la penale risarcitoria di importo compreso tra due e sei mensilità. Occorre, infatti, ricordare che l'art. 18 è un potente fattore dissuasivo contro le espulsioni di mera convenienza e contro ogni inadempienza datoriale.
 
4. La terza proposta (Leonardi e Pallini) è la più sofisticata. Essa appare in larga misura vicina alle idee elaborate dalla Cgil - ed alle indicazioni della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia - nei punti seguenti: 1) introdurre una sola figura di lavoro dipendente, comprensivo del lavoro subordinato e del lavoro coordinato, con un unico codice di disciplina; 2) ricondurre il lavoro a termine ad un regime limitativo, reintroducendo requisiti causali oggettivi; 3) abrogare i nuovi tipi contrattuali che parcellizzano la prestazione, introdotti dalla legge 30.

La proposta di riassorbire tutte le figure atipiche oggi esistenti costituisce certamente obiettivo da condividere; ma allora perché non rivedere anche il nuovo contratto di apprendistato (che da solo dura sei anni per i giovani fino a 29 anni), salvo a introdurre una formazione permanente per tutti?

I punti di dissenso appaiono due: il primo riguarda la retribuzione inferiore per i coordinati rispetto ai subordinati, a compenso della libertà dagli orari e dai vincoli.
È ben possibile che ciò avvenga ad opera dei contratti collettivi. Resta tuttavia il necessario riferimento all'art. 36 della Costituzione: il compenso a "corpo" (a progetto, a programma, a fase ecc.) deve avere comunque una equiparazione rispetto alla retribuzione a tempo se, a conti fatti, la qualità e la quantità di lavoro nell'arco di sei mesi o di un anno siano le stesse. Insomma un compenso a forfait non deve implicare un risparmio del costo, ma solo un diverso criterio di computo. Il problema, come si sa, non è di poco conto.

Il secondo aspetto controverso è la previsione, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, effettivamente esistente, di un'indennità economica di licenziamento, salvo, però, il diritto del lavoratore di impugnare, se lo ritiene ingiustificato, il licenziamento stesso, chiedendo la reintegra ai sensi dell'articolo 18 secondo le regole ordinarie.
L'idea è apparentemente tranquillizzante perché resta comunque fermo il percorso dell'art. 18 per quei lavoratori che non accettino l'offerta dell'indennità. Ma, a ben vedere, il lavoratore per lo più accetterebbe obtorto collo l'indennità, visto che un processo contro il licenziamento, in una grande città, dura due o tre anni in primo grado. Con tempi aggiuntivi ed imprevedibili in appello (cui vanno aggiunti gli attuali due anni della fase di Cassazione).

La Commissione ministeriale, voluta nel 2000 dal ministro Salvi e guidata dal consigliere Raffaele Foglia, ha elaborato un intelligente progetto di snellimento del processo del lavoro e della conciliazione/arbitrato. Da qui occorre ripartire per dare garanzia di effettività dei diritti a tutti, a partire dai licenziati (ma anche ai trasferiti ed ai mobbizzati). Tanto più che, stante l'attuale collasso del processo del lavoro, un lavoratore che incautamente optasse per la causa (anziché per l'indennità economica di licenziamento) avrebbe davanti a sé un giudice del lavoro stressato dalla mole di arretrato, severo nel giudizio e probabilmente prevenuto nei confronti del litigante "incallito".

Insomma la proposta Pallini-Leonardi ha degli effetti boomerang che andrebbero attentamente valutati.
 
5. Resta al fondo di ogni proposta "l'esigenza di avere maggiori margini di flessibilità per ridurre i costi nel caso di domanda debole" poichè "l'economia moderna è sottoposta a cambiamenti delle condizioni di domanda molto più frequenti di un tempo, e i risultati di impresa sono molto più variabili".

La diagnosi è certamente condivisibile; non certo la prognosi, che scarica sul lavoratore dipendente il rischio tipico di impresa.

Le proposte Cgil, formalizzate nel disegno di legge di iniziativa popolare di qualche anno fa, intendono evitare questo scadimento, universalizzando ed automatizzando gli ammortizzatori sociali ante licenziamento; ponendo il relativo costo a carico della generalità dei datori di lavoro; condizionando i licenziamenti economici alla ricollocazione dei lavoratori in esubero presso altra azienda del gruppo societario o presso altra azienda affiliata alla medesima associazione imprenditoriale.
Il progetto Cgil è del 2002. Ha raccolto 5 milioni di firme. Vogliamo provare a discuterne?
Venerdì, 23. Giugno 2006
 

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