Obama, una sconfitta figlia del modello americano

Un disastro annunciato per il presidente, provocato da fattori che non poteva essere in grado di cambiare. La disoccupazione alle stelle è quella che ha pesato di più: le imprese hanno approfittato della crisi per attuare licenziamenti di massa, con il paradosso di ottenere profitti record. Che accadrà ora? Una politica “centrista non sarebbe la soluzione

La sconfitta di Barack Obama era un verdetto annunciato. Eppure, non può non sorprendere la rapidità con la quale in due anni lo scenario politico americano sia cambiato. Il mondo aveva guardato con attenzione e speranza all’avvento di un uomo nuovo mentre imperversava la più grave crisi economica dopo gli anni Trenta. I repubblicani che, col doppio mandato di Bush, avevano creato le basi della crisi, ora conquistano una vasta maggioranza alla Camera, riducono drasticamente la maggioranza democratica al Senato e guadagnano il controllo di molti stati decisivi come la Florida e l’Ohio. Che cosa è successo? Dove ha sbagliato Obama? Ci saranno molte analisi per un ribaltamento così radicale. Saranno analisi e giudizi controversi. Ma, intanto, due o tre cose si possono dire.

La prima è che il nuovo presidente si è trovato nel mezzo di una crisi economica e sociale – per non dire dell’eredità di due guerre dalle quali l’America può uscire solo sconfitta - che era ancora in evoluzione, non aveva dato tutti i suoi frutti maligni. Per fare un paragone spesso evocato, quando Franklin Roosevelt assunse la presidenza, la crisi durava già da tre anni, l’America del presidente repubblicano, Herbert Hoover, era in ginocchio, un quarto della forza lavoro era disoccupato, le banche erano fallite. Il nuovo presidente aveva di fronte un compito immane, ma anche un paese che chiedeva disperatamente di cambiare, disponibile ad appoggiare le novità più dirompenti. Nella prima settimana dopo l’insediamento, Roosevelt propose e ottenne dal Congresso una radicale riforma del sistema bancario, e iniziò il processo di riforme che, nel giro di due anni, portarono al New Deal, l’insieme di riforme sociali che dovevano cambiare per sempre il volto dell’America.

Profondamente diverso lo scenario nel quale Obama arrivò alla Casa Bianca. La crisi finanziaria definitivamente esplosa con il collasso della Lehman Brothers nell’autunno riportava gli Stati Uniti al 1929. L’economia era in piena recessione e la disoccupazione era raddoppiata. L’amministrazione Bush aveva messo a disposizione delle banche un pacchetto di aiuti di oltre 700 miliardi di dollari. Obama decise quella che è stata la maggiore operazione politica della sua presidenza: il pacchetto di rilancio dell’economia - taglio delle tasse per i ceti meno abbienti e investimenti - per circa 800 miliardi di dollari. Un’operazione di stampo keynesiano nella misura in cui, insieme con le precedenti misure di salvataggio delle banche, andava a gravare sul bilancio pubblico, accrescendone il deficit. Negli stessi mesi avviò la riforma sanitaria che doveva eliminare lo sconcio di quasi cinquanta milioni di cittadini privi di assistenza nel paese più ricco del pianeta.

Poteva il presidente fare di più per favorire la ripresa e contrastare la marea montante della disoccupazione? E’ indubbio che il pacchetto di aiuti all’economia poteva essere, come sostenevano l’ala progressista dei democratici ed economisti come Paul Krugman e Joseph Stiglitz, più sostanzioso. Mentre la riforma sanitaria poteva essere più coerente e radicale nel ridurre il potere delle compagnie assicuratrici che ne fanno lievitare la spesa a livelli insensati. In altri termini si è rimproverato a Obama di non essere stato abbastanza deciso, di aver cercato un’impossibile partnership con i repubblicani, di non essere più stato capace di mantenere alta la mobilitazione popolare che lo aveva portato trionfalmente alla presidenza. E alla luce dei fatti, i diversi elementi di questa critica si sono dimostrati giusti.

Dopo qualche trimestre di ripresa l’economia è tornata a languire. La promessa di ridurre la disoccupazione si è dimostrata fallimentare. Quanto alla riforma sanitaria, che ha impegnato l’intero primo anno della presidenza, i suoi limitati effetti positivi si vedranno a partire, se va bene, dal 2014, mentre, intanto, i costi assicurativi continuano a crescere e rimangono intatte le differenze fra chi può fruire di una polizza del valore medio di diecimila dollari e chi può consentirsene una del valore doppio. In altri termini, dalla riforma bancaria (che, pur approvata, rimane incerta nella sua applicazione pratica), all’impegno finanziario per la ripresa economica, alla riforma della sanità e, in primo luogo nell’impegno contro la disoccupazione, Obama – questa è la critica della sinistra democratica – poteva e doveva essere più coerente con la sua promessa di rinnovamento e doveva dare alle speranze che aveva suscitato più audacia.

Ma il paradosso sta nel fatto che i repubblicani hanno vinto rimproverando al presidente non l’insufficienza della politica di riforme, ma il fatto stesso di averle intraprese. Per dare forza a queste critiche hanno adoperato due argomenti. Da un lato, l’aumento del disavanzo pubblico, letto come una sorta d’invasione socialista dello Stato a danno delle libertà individuali – e la riforma sanitaria rientra in questa accusa di statalizzazione. Dall’altro, il fallimento della lotta alla disoccupazione. Questi due punti meritano di essere presi in considerazione, visto che hanno avuto un effetto deflagrante sulla presidenza.

La prima critica – la crescita del disavanzo pubblico - è priva di senso. In un paese in cui la moneta è ormai distribuita gratuitamente alle banche con tassi prossimi allo zero e senza limiti quantitativi, ma dove gli investimenti latitano in tutti i settori, dall’industria manifatturiera alle costruzioni, l’unica possibilità di fronteggiare la crisi sta negli investimenti pubblici e nel sostegno ai redditi. Vale a dire, nella capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche.

Ma una considerazione a parte merita la questione della disoccupazione. La crisi ha aggiunto otto milioni di disoccupati a quelli esistenti. Ufficialmente rasentando il dieci per cento della forza lavoro. Ma si va molto oltre se si considerano milioni di persone che hanno dovuto accontentarsi di un part time non volontario e quelli che sono definiti "scoraggiati", nel senso che hanno rinunciato alla ricerca di un lavoro nell’impossibilità di trovarlo. Qui la domanda che si pone non è rivolta ai repubblicani, ma ai democratici e agli economisti che giustamente pongono la questione di una maggiore spesa pubblica, il deficit spending. Sarebbe stato veramente sufficiente aggiungere due o trecento miliardi al pacchetto di stimolo economico varato dall’amministrazione per fronteggiare il raddoppio della disoccupazione americana? La risposta è incerta, se non del tutto negativa. Gli otto milioni di nuovi disoccupati, il passaggio da meno del 5 per cento al 10 per cento del tasso di disoccupazione, non sono la conseguenza naturale della crisi, ma il riflesso di una patologia strutturale delle istituzioni del mercato del lavoro americano, che la terapia keynesiana non può da sola risolvere.

Le imprese americane non hanno solo subito la crisi, ma l’hanno utilizzata per operare licenziamenti di massa, al di là della caduta della produzione e dei consumi. L’America si è gloriata della piena flessibilità del lavoro, della libertà di licenziare. I licenziamenti sono "ad nutum": non c’è bisogno di un’alcuna motivazione. E’ il trionfo della deregolazione, quella che i cosiddetti riformisti in Europa (e alcuni giuristi ed economisti di centro-sinistra in Italia) invidiano e vorrebbero realizzare con nomi diversi e più complicati, come flexicurity, contratti cosiddetti "unici", nuovi "statuti" e altri mascheramenti.

L’analisi dei processi sociali è avara di dimostrazioni scientifiche e di controprove fattuali e incontrovertibili. Ma, nel caso della disoccupazione indotta dalla crisi corrente, la controprova esiste. Il caso più esemplare è costituito dalla Germania. Il governo (conservatore) di Angela Merkel ha promosso un accordo, non scritto ma sostanziale, fra associazioni imprenditoriali, sindacati e amministrazione pubblica per il blocco dei licenziamenti. La caduta della domanda in Germania è stata la più grave tra tutti i grandi paesi industriali dell’occidente, più profonda di quella americana, con un crollo del prodotto interno lordo intorno al sei per cento nell’anno più critico fra il 2008 e il 2009. Ma la disoccupazione è aumentata di mezzo punto percentuale, poi ha cominciato a diminuire. Nell’autunno del 2010 l’occupazione ha superato il livello pre-crisi e la crescita dell’economia, trainata dall’industria e dall’esportazione, si attesta intorno al tre per cento.

Intanto la Volkswagen e la Siemens si sono accordate con i sindacati per la garanzia dei posti di lavoro per i prossimi anni. In altri termini. La tanto biasimata rigidità del lavoro, sotto la forma di protezione del lavoro, si rivela un fattore fondamentale dell’exit strategy. Negli Stati Uniti le grandi imprese hanno seguito la strada contraria. In un mercato del lavoro nel quale la deregolazione è un paradigma sovrano hanno ridotto insieme la produzione e, molto più che proporzionalmente, la forza lavoro. Il risultato è stato per loro non solo positivo ma stupefacente: nel 2009, nel pieno di quella che è stata definita la crisi più grave dopo gli anni Trenta, hanno realizzato - secondo Fortune , l’autorevole quindicinale che fa capo a Wall Street - con l’esclusione di un anno, i più alti tassi di profitto dell’ultimo mezzo secolo. Il trinomio è servito: crisi, esplosione della disoccupazione, aumento dei profitti. E’ l’esito della de-regolazione, del lavoro senza protezione, del ripiegamento di quelli che furono, dopo la politica di sostegno di Franklin Roosevelt, i più potenti sindacati del mondo oggi ridotti, con la contrattazione aziendale, nelle "riserve indiane" di poche grandi imprese con la rappresentanza dell’8 per cento della forza lavoro nel settore privato.

Torniamo, per concludere, alla sconfitta di Obama. Essere disoccupati in America è un’esperienza dura. Quando perdi il lavoro è alta la possibilità di perdere l’assistenza sanitaria e difficilmente puoi pagare la retta per i figli all’università Ma la novità è un’altra. In America i due terzi delle famiglie pagano un mutuo sulla casa. Sui dieci milioni di famiglie che hanno acceso un mutuo, oltre un milione ha già perduto casa o è sotto procedura di sfratto. Altri milioni sono a rischio di incorrervi se la disoccupazione si prolunga o si aggrava.

In queste condizioni di crisi sociale, non ci voleva una particolare immaginazione politica per prevedere l’ineluttabile sconfitta di Barack Obama, quali che fossero le sue buone intenzioni e il suo talento. Aveva sollevato enormi speranze, e le attese sono andate deluse. I repubblicani non hanno contrapposto nulla che avesse senso, salvo misure destinate a peggiorare la crisi, ma sono stati abili nello sfruttare delusione, frustrazione e rabbia. Ora Obama è allo stesso crocevia che incontrò Bill Clinton nel 1994, quando perse le elezioni di medio termine, dopo aver trionfato due anni prima. Accettò di negoziare con la destra e riuscì, in assenza di avversari di qualche peso, a conquistare il secondo mandato. Ma erano tempi di crescita in America e nel resto del mondo. Ora c’è la crisi e la salvezza non sta nel ritorno a Hoover, il presidente che nei primi anni Trenta cercava ancora nel riequilibrio del bilancio l’uscita dalla crisi che stava devastando l’America. Il modello "centrista" di Clinton difficilmente potrà salvare la presidenza da qui a due anni. Il destino di Obama è incerto, ma non necessariamente segnato. Molte cose devono ancora accadere, a partire dal cambiamento del suo staff economico, guidato da Larry Summers che lascerà a fine anno. In ogni caso, una nuova fase si apre nella crisi che segnerà il destino dell’America nel nuovo secolo.
Domenica, 7. Novembre 2010
 

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