Il referendum e gli equilibri dello Statuto

C'è chi, come Luciano Gallino, pur ammettendo che l'iniziativa è nata per 'creare difficoltà al sindacato e ai Ds', si schiera per il 'sì' per contrastare il governo. Ma è sbagliato usare lo Statuto come terreno contingente di lotta politica
L’Appello che motiva le ragioni del rigetto del referendum sull’art.18 del prossimo 15 giugno, promosso da Eguaglianza e libertà, ha ottenuto molti consensi di lavoratori, esponenti politici, intellettuali. Ma, come si può leggere nelle lettere che pubblichiamo, non mancano riserve, obiezioni e critiche. Lasciamo da parte quelle il cui argomento principale è un’accusa di “tradimento” che si commentano da sé. Vi sono motivazioni contro la non partecipazione al voto e a favore del Sì che meritano una riflessione schietta, quanto approfondita e pacata.

Ci riferiremo all’articolo pubblicato da Luciano Gallino su La Repubblica del 18 maggio. Gallino, con la chiarezza e l’onestà intellettuale che lo distinguono, ripercorre gli argomenti portati a sostegno della non partecipazione al voto e li considera seriamente fondati. In sostanza, Gallino non crede che abbia un senso logico e pratico l’estensione dell’articolo 18 alle piccole e piccolissime aziende al di sotto di 16 dipendenti. Non si vede – osserva Gallino – come si possa mettere sullo stesso piano l’aziendina di un idraulico con un cantiere navale o uno studio dentistico con tre dipendenti e un’acciaieria.
 
In definitiva, il referendum sull’estensione dell’articolo 18 - egli aggiunge - fu immaginato non perché avesse una logica rispetto alle microimprese, ma era diretto “a creare problemi al sindacato e ai Ds”. Ma, pur date queste premesse, Gallino considera il Sì un modo di esprimere il dissenso verso la politica del governo: una politica che penalizza il lavoro, aumenta la precarietà, minaccia l’intelaiatura di diritti conquistati in passato.
 
Votare Sì, dunque, non perché abbia un senso proprio il quesito del referendum, alla cui base vi è piuttosto una logica di contrasti interni alla sinistra, ma per esprimere il dissenso verso la politica del governo.
 
Diciamo che su questo punto non c’è dissenso. Non credo che tra i promotori dell’appello vi sia alcuna indulgenza verso la politica nefasta del governo Berlusconi, sia che si tratti di lavoro, che di giustizia o di asservimento alla politica dell’amministrazione americana. Il punto è un altro. Si tratta di sapere se qualsiasi terreno sia utile nella lotta al governo, o se non capiti alla sinistra (come spesso capita) di scegliere quello meno efficace, o addirittura sbagliato e controproducente.
 
Non bisognerebbe mai dimenticare che lo Statuto dei lavoratori rappresenta una conquista storica fondamentale, e che, al tempo stesso, si tratta di un terreno delicato, e continuamente sotto il tiro della destra. I referendum che in passato lo hanno riguardato sono stati sempre promossi con lo scopo aperto o implicito di disgregarne l’intelaiatura, ridurre i diritti dei lavoratori, colpire il sindacato. E, non a caso, la straordinaria manifestazione di massa del 23 marzo 2002 poneva al centro l’intangibilità dello Statuto con la parola d’ordine: “l’articolo 18 non si tocca”.
Bisognerebbe riflettere sul fatto che lo Statuto ha acquisito nei suoi oltre trent’anni di vita il valore politico e culturale di una costituzione formale e sostanziale dei diritti dei lavoratori. La caratteristica delle costituzioni moderne è la loro rigidità. Intervenire su di loro, alla stregua di una legislazione ordinaria e contingente, è pericoloso e potenzialmente distruttivo. E, a maggior ragione, ha poco senso sottoporre a una valutazione estemporanea di classi sociali indifferenti o ostili diritti e tutele conquistati in un contesto storico particolare, come fu quello del 1969-70.
 
Affermare che il terreno del referendum è sbagliato, che le modifiche richieste non hanno senso logico e pratico, e poi concludere che è bene dichiararsi a favore – diciamo così, per punire la politica del governo – non solo è un salto logico, ma è anche una scelta che mette in gioco gli equilibri dello Statuto, tentando di utilizzarlo come terreno improprio di lotta politica.
 
E’ anche importante ricordarsi che la conquista dei diritti sindacali e collettivi nella tradizione italiana, prima ancora che dell’azione legislativa, sono state il frutto di grandi movimenti di lotta, della capacità di aggregare un vasto consenso di massa, di basare su questo il negoziato con le controparti e il sostegno all’iniziativa legislativa. E’ nato così lo Statuto, al culmine del più alto movimento di lotte della seconda parte del secolo scorso. E’ stato così nel decennio passato, per citare un terreno diverso ma socialmente contiguo, per la riforma delle pensioni che, con tutti i suoi limiti, è la più avanzata in Europa. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.
 
La crescente precarietà di una vasta area del lavoro è un problema drammaticamente centrale, soprattutto nelle aree più deboli. Ma l’articolo 18 non è il punto. Il Mezzogiorno è l’area dove in proporzione vi è dal doppio al triplo di lavoratori nelle piccolissime imprese. Ma, paradossalmente, i lavoratori che vi lavorano formalmente sono i più protetti: infatti, le stesse microimprese utilizzano una vasta area di lavoro nero caratterizzata dal sottosalario e dall’assenza di qualsiasi elemento di protezione. La microimpresa difficilmente licenzierà il lavoratore coperto dal contratto (e, in ogni caso, non può farlo senza giusta causa), disponendo di una vasta area di lavoro informale o comunque non coperto da un contratto a tempo indeterminato che, indipendentemente dall’articolo 18, è priva di tutele contro la perdita del posto di lavoro.
 
Se i problemi effettivi sono questi, e se la tendenza a disfarsi delle regole e del controllo sindacale fa parte del DNA dell’attuale governo, è anche difficile immaginare che la soluzione possa essere trovata attraverso la scorciatoia di un referendum che nasce – come ammette Gallino – dalla volontà di “creare difficoltà al sindacato e ai Ds”. Rifiutare di partecipare al voto in queste precise circostanze non è un segno di abulia, ma una scelta consapevole e attiva.
 
Le controriforme presenti nella politica del governo Berlusconi debbono essere combattute con mezzi espliciti, chiari e diretti. Una volta liberati dalla scadenza del referendum, l’obiettivo dovrebbe essere uno e uno solo. Riprendere il terreno della lotta sindacale con piattaforme e iniziative unitarie. Rimobilitare sulla base di rivendicazioni chiare e concrete i lavoratori, i disoccupati del Mezzogiorno, i giovani condannati a una precarietà insostenibile. In altri termini, ricostruire le condizioni minime indispensabili per affermare, innanzitutto sul terreno proprio dell’iniziativa sindacale e delle lotte di massa, gli obiettivi che si vogliono realizzare con l’iniziativa contrattuale e con quella legislativa.
 
Il referendum è nato nel tempo della massima divisione nel sindacato (e le conseguenze sono ancora oggi visibili nella rottura contrattuale dei metalmeccanici). Neutralizzare con la non partecipazione al voto le origini ambigue che ne sono alla base e gli effetti boomerang che possono derivarne, deve essere visto non come un atto elusivo, ma come la premessa consapevole, ragionata, attiva di un’iniziativa di massa, chiara, esplicita definita negli obiettivi e negli strumenti. Un’iniziativa che riscopra il valore indispensabile dell’unità sindacale, quanto meno dell’unità d’azione. Insistere sui temi della divisione, sapendo che i problemi sono altri, è un autoinganno che ha già provocato molti guai alla sinistra.
 
L’obiettivo, oggi possibile, è la ricostruzione delle condizioni di merito e di fiducia reciproca sulla quale rilanciare una mobilitazione unitaria, in grado di riportare i temi dell’occupazione e della regolazione del lavoro al centro del confronto sociale e politico.
Venerdì, 23. Maggio 2003
 

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