Per vincere le politiche il Pd impari dalle città

Il radicamento sul territorio non spiega il grande successo alle amministrative: perché allora a febbraio non ha funzionato? I sindaci hanno presentato programmi concreti di cambiamento, cosa che non è stata fatta nelle elezioni nazionali, dove si è proposta la continuità con il governo Monti. Senza un progetto di lotta contro la disastrosa politica europea non si vincerà mai

Non è la prima volta che il Pd vince le elezioni amministrative. Ma il fatto che in questa tornata elettorale abbia clamorosamente umiliato gli avversari in tutti i capoluoghi di provincia in cui si votava, a cominciare dalla capitale, appare tanto più straordinario e intrigante, in quanto contrasta, a solo tre mesi di distanza, con il mediocre risultato delle elezioni politiche, quando il Pd finì appaiato alle Cinque Stelle di Grillo. La prima spiegazione  individuata dagli analisti si concentra sul radicamento territoriale del Pd. Ma si tratta di una spiegazione parziale e non convincente. Lo stesso discorso dovrebbe valere per le elezioni politiche, dove il centrodestra mostra di poter reggere la sfida, arrivando a un’incollatura dal centrosinistra e poi posizionandosi addirittura in testa secondo i sondaggi correnti.

Non si tratta nemmeno di una particolare capacità di leadership. Per citare due casi esemplari, né Pisapia a Milano, né Marino a Roma hanno vinto per una speciale qualità carismatica, o per  la capacità di mobilitare le masse con gli squilli della demagogia e del populismo.

La differenza con le elezioni politiche deve essere individuata piuttosto nella capacità di presentare un programma di azioni possibili e concrete fondate su bisogni sensibili, ai quali i candidati sindaci promettono di dare risposte, magari modeste, ma chiare e credibili.  Il programma di Marino a Roma è stato da questo punto di vista esemplare: le buche, gli asili nido, le periferie, l’attenzione alle face più deboli della cittadinanza, e così via.

Ma, quando ti presenti alle elezioni politiche, dovresti avere un programma altrettanto concreto e impegnativo su un piano generale. Non puoi dire, come nelle ultime elezioni, che vincendo continuerai la politica del governo Monti, al quale anzi sarà con gratitudine riservato un ruolo importante e di garanzia nel futuro governo. 

Per presentarti con abiti nuovi, per suscitare speranze di cambiamento, per mobilitare un elettorato disperato anche di sinistra che si rifugia nella riserva indiana di Grillo, devi presentarti con un programma che riconosce alcuni bisogni fondamentali della politica nazionale. Soprattutto senza ingannevoli vie traverse. Non puoi piangere, per esempio, sulla disoccupazione dei giovani, se intanto stanno perdendo il lavoro, a centinaia di migliaia, le loro madri e i loro padri. Devi riconoscere che, per uscire dalla più lunga recessione dalla seconda parte del secolo scorso, c’è bisogno di investimenti, a cominciare proprio dalle città dove i nuovi sindaci sono privi di risorse. Devi riconoscere che la tragedia dell’Ilva è l’ultimo anello del disfacimento della grande industria, di cui Marchionne è stato il più recente e smodato protagonista, fino a un certo punto apprezzato  dall’ élite politica nazionale, compresa una parte dello stesso Pd. Devi tornare a promuovere la scuola e la ricerca, perché anche questo è un modo di dare un lavoro decente ai giovani costretti a emigrare, come accadeva ai loro padri negli anni Cinquanta del secolo scorso. Devi dare una risposta alla domanda di un reddito minimo, quando le famiglie  non hanno più la risorsa di un reddito da lavoro.

Ma di un programma simile che parla di investimenti, di occupazione e di welfare si discuteva al tempo del governo Monti, come oggi col governo Letta – del resto sostenuti entrambi dalla stessa innaturale coalizione -  solo per dire che non ci sono le risorse e che bisogna rispettare i vincoli mortiferi imposti dall’asse Berlino-Bruxelles. Non puoi avere un programma minimamente convincente, che ti distingue insieme da Grillo e da Berlusconi, se non ti impegni a combattere, con l’autorità che ti deriva dal governo di uno dei grandi paesi fondatori dell’Unione europea, l’insensata politica di austerità, che si articola in tre esiti intimamente connessi quanto disastrosi: la recessione, la crescita della disoccupazione e, paradossalmente, l’aumento del debito che si voleva combattere.

Si dirà che questo è un problema che schiaccia non solo l’Italia, ma un blocco di paesi: dalla Grecia al Porto gallo, alla Spagna e ormai alla Francia. Ma questa non è una ragione per cedere alla deriva. Semmai, sarebbe vero il contrario.  A che serve un governo di centrosinistra se non si impegna in modo chiaro ed esplicito a operare in direzione di un fronte comune? A che serve se il segno che si percepisce è quello della continuità? In altri termini, il contrario  della capacità di proporre un progetto di cambiamento e discontinuità che è quello che consente di vincere nelle elezioni amministrative e guadagnare  la fiducia degli elettori e il governo delle città.

Non si può, sul piano delle politiche nazionali, lasciare a Berlusconi e ai suoi accoliti la prerogativa di criticare la politica della Merkel, dopo che ha consegnato, nel tentativo di salvare il suo governo, il paese ai diktat dell’Eurozona, promuovendo la incredibile lettera della Bce, degna di un paese sub coloniale, dell’estate del 2011.

Il governo Letta gioca a dadi con l’Imu, l’aumento dell’Iva, l’ingannevole promessa di una politica per l’occupazione giovanile, mentre siamo l’unico paese  che essendo nel terzo anno di recessione è impegnato a rimanere al di sotto del tre per cento del disavanzo di bilancio.

Il successo registrato nelle elezioni amministrative è un segnale importante  che va interpretato come una scelta razionale e generosa di ampi strati di popolazione che hanno voltato le spalle al centrodestra. Ma le elezioni politiche sono un'altra cosa. Senza un programma politico che fa i conti con il disastro della politica europea, in grado di stabilire un filo rosso tra i paesi che soffrono delle stesse difficoltà, il Pd, come asse centrale del centrosinistra, si condanna a questa paradossale scissione fra il governo delle città e l’incapacità di governare il paese, salvo malgovernarlo in un’innaturale alleanza che sembra nessuno abbia voluto, e che ora Letta spera di conservare fino al 2015. Sempre che Berlusconi, incalzato dai tribunali, non decida di sciogliere il sodalizio prima, tentando – e i sondaggi sembrano ancora dargli ragione -  l’avventura elettorale , di cui è maestro, all’insegna del “porcellum”, o addirittura in un nuovo regime di tipo presidenziale.

Giovedì, 13. Giugno 2013
 

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