Verità e menzogne nel labirinto delle pensioni

I mutamenti demografici investiranno tutta l'Europa, ma la riforma attuata in Italia è in grado, secondo Eurostat, di stabilizzare la spesa pensionistica. Ciò smentisce le tesi degli allarmisti e le menzogne del governo

Il dibattito sulle pensioni è per alcuni aspetti stranamente somigliante a quello che precedette la guerra in Iraq. Probabilmente c’erano delle ragioni vere, ma non furono dette. Si preferì puntare sulle armi di distruzioni di massa, sui legami con Bin Laden, sulla necessità di esportare la democrazia nel cuore del Medio Oriente. Tutte ragioni destinate a rivelarsi inconsistenti, se non pure menzogne. Poi, un giorno, probabilmente, gli storici ci spiegheranno che, diventata inaffidabile l’Arabia saudita, (profondamente coinvolta negli attentati dell’11 settembre), gli Stati Uniti avevano bisogno di costituire una testa di ponte in Medio Oriente, e l’Iraq era l’anello più debole ed esposto.

Qualcosa di simile succede con le pensioni. La riforma è necessaria – si afferma - perché l’invecchiamento demografico rende insostenibile il sistema. Perché il sistema crea disuguaglianze fra le diverse categorie di lavoratori. Perché le pensioni dei padri sono diventate un privilegio che sarà pagato dai figli che, a causa del dissesto finanziario, non riusciranno ad avere una pensione. Perché non dire la verità? Che Tremonti ha, per un verso, un disperato bisogno di fare cassa e, per l’altro, di dimostrare a Bruxelles che la finanza italiana non è solo fondata sulle sabbie mobili delle cartolarizzazioni e dei condoni, ma che si promuovono riforme destinate a ridurre strutturalmente la spesa sociale?


Dovendo mascherare questa elementare e impopolare verità, si propongono motivazioni e obiettivi intercambiabili, che mutano secondo i giorni e gli interlocutori. Ma proviamo a districarci nell’intrigante labirinto dove alcune verità, universalmente accettate, si mescolano a valutazioni arbitrarie e proiezioni statistiche selezionate ad arte.

1. Tra le verità dobbiamo annoverare le tendenze demografiche. La società invecchia. L’attesa di vita si allunga, mentre il tasso di natalità nei paesi ricchi è sceso verticalmente. Secondo le previsioni dell’ONU, la popolazione del pianeta, oggi di sei miliardi di abitanti, sfiorerà i nove a metà del secolo. Ma in quell’angolo di pianeta in cui noi viviamo, l’Unione europea prossimamente allargata a 27, la popolazione diminuirà, passando dai 470 milioni di abitanti attuali a 440. Rispetto agli abitanti del pianeta, la percentuale scenderà dall’otto a uno sbiadito cinque per cento. L’Italia, secondo le previsione attuali, sarà in prima fila in questo processo di anoressia demografica con una riduzione della popolazione, entro la metà del secolo, da 57 a 48 (Euroastat) o addirittura a 45 milioni (ONU) di abitanti.

Non si tratta di un destino ineluttabile. La demografia è una scienza complessa e le previsioni diventano precarie, se il futuro si allunga eccessivamente. Gli stati Uniti facevano registrare negli anni 80 un tasso di natalità inferiore a quello europeo, ma nell’ultimo decennio, la tendenza si è nettamente rovesciata. Un’inversione di tendenza simile si è verificata in alcuni paesi europei, dalla Norvegia alla Svezia alla Francia. Tuttavia, anche se la natalità torna a crescere, i risultati in termini di tasso di dipendenza (vale a dire, il rapporto fra popolazione inattiva, oltre i 65 anni, e popolazione in età di lavoro) sono verificabili solo dopo due o tre decenni. Lo scenario demografico può essere trasformato in tempi più rapidi solo dall’accelerazione dell’immigrazione. Ma qui si pone un complesso problema politico e culturale che, a sua volta, richiede tempi significativi di maturazione e assestamento.

Per concludere su questo punto, la transizione demografica è una sfida che non mette in discussione solo i sistemi previdenziali, ma il futuro stesso di alcuni paesi (e più in generale dell’Europa) che rischiano una progressiva emarginazione dalla storia, in un mondo il cui baricentro tende a spostarsi dal Mediterraneo e dall’Atlantico al Pacifico, dove si affacciano la California e la Cina. I sistemi previdenziali sono solo un aspetto di un complesso di problemi, tra i quali le politiche per la famiglia e dell’immigrazione.

Ma una volta convenuto che in tutti i paesi avanzati si pongono problemi attinenti ai sistemi pensionistici, si sbaglia bersaglio, quando la critica è rivolta al sistema pensionistico italiano, per la semplice ma decisiva ragione che si tratta del sistema, fra tutti gli altri in Europa, che è stato riformato in anticipo e in modo radicale.

2. La riforma del 1995, concordata fra il governo Dini e i sindacati, nel quadro di un vasto consenso politico, presenta due punti di radicale innovazione. Il primo riguarda il passaggio da un sistema retributivo a quello contributivo: in sostanza la pensione non è più basata sulla retribuzione finale, ma sui contributi versati durante l’intera vita lavorativa. Ma il cambiamento che più profondamente rivoluziona il sistema è il secondo, in base al quale l’età per maturare il diritto a una pensione piena è fissata a 65 anni. Questo salto riduce di un quarto la spesa pensionistica rispetto all’attuale età media di pensionamento, che in Italia come nell’Unione europea, è leggermente inferiore a 60 anni, se si considera che la fruizione media della pensione, sulla base dell’attesa di vita, si riduce da 20 a 15 anni.

In pratica, il nuovo sistema abolisce la distinzione fra pensione d’anzianità e di vecchiaia. Il pensionamento può essere, infatti, anticipato a partire da 57 anni, ma il costo per il sistema rimane invariato perché la pensione sarà calcolata con un coefficiente di trasformazione del montante dei contributi versati che rende attuarialmente neutra l’età del ritiro. Questa flessibilità dell’età pensionabile senza costi aggiuntivi, con invarianza della spesa previdenziale, adegua il sistema sia alle esigenze di flessibilità del mercato del lavoro, sia alle scelte individuali, essendo sempre più variegati i bisogni e le preferenze individuali nel bilanciamento fra lavoro e tempo libero nel corso dell’intero arco della vita. Dunque la riforma, oggi tanto insistentemente quanto confusamente invocata, è stata fatta, ed è per consenso fra gli esperti internazionali la più radicale nell’ambito dei sistemi a ripartizione.

Ma qui i tecnici dell’allarmismo spostano il bersaglio dalla riforma alla transizione, vale a dire ai tempi previsti per la sua realizzazione. Di che si tratta? La modifica dei sistemi pensionstici non può non essere graduale, dal momento che implica diritti e aspettative accumulati nel corso di decenni. Non a caso, le previsioni si fanno a lungo termine, proprio per avere il tempo di introdurre modifiche graduate entro tempi sufficientemente lunghi. Negli Stati Uniti le previsioni sugli andamenti pensionistici si fanno a 75 anni. Il periodo di transizione stabilito dalla riforma del 1995, prevede che il nuovo regime non si applichi ai lavoratori che in quell’anno avevano già maturato un’anzianità contributiva pari o superiore a 18 anni. La giustificazione sta nel fatto che il passaggio al nuovo sistema comporterà, in linea generale, un abbassamento del tasso di sostituzione del salario che, secondo la riforma, potrà essere compensato da una pensione complementare, basata sulla partecipazione ai fondi a capitalizzazione.

Evidentemente, per coloro che avevano una condizione anagrafica e contribuiva già molto avanzata, la fruizione di una pensione complementare sarebbe stata difficilmente attuabile o comunque di scarso valore. Per coloro, invece, che nel 1995 avevano accumulato meno di 18 anni di contribuzione, la pensione è calcolata per gli anni anteriori col vecchio metodo e, a partire dal 1996, col metodo contributivo. Dov’è lo scandalo? Quello che è considerato un “privilegio” accordato ai lavoratori che avevano mediamente superato la metà della loro vita lavorativa, ha bloccato o vanificato gli obiettivi della riforma? A questa domanda si può rispondere onestamente solo cifre alla mano e con dati di fatto. Vediamoli.

All’inizio degli anni 90 la spesa previdenziale era intorno al 14 per cento del PIL. Lasciando funzionare i meccanismi esistenti, la tendenza alla crescita della spesa pensionistica sarebbe diventata esplosiva. Secondo le proiezioni elaborate dalla Ragioneria generale dello Stato prima della riforma Dini, la spesa avrebbe raggiunto e superato nei prossimi decenni il 23 per cento del PIL. Otto anni dopo la riforma, possiamo registrare un risultato immediato e uno strutturale. Quello immediato è che la spesa non è più aumentata e, anzi, alla fine del 2002 era diminuita rispetto a quella prevista in seguito alla riforma. Il risultato strutturale è che, secondo le proiezioni comparative presentate a livello europeo dall’Ecofin, la spesa previdenziale rimarrà in Italia sostanzialmente stabile intorno al 14,2 per cento del PIL fra il 2000 e il 2010 per raggiungere il picco del 15,9 nel 2030, e ridiscendere fino al 13,9 nel 2050. Sulla base di queste proiezioni, avremo nella fase di picco un incremento della spesa di 1,7 punti, mentre è previsto un incremento della spesa previdenziale più che doppio ( intorno al 4 per cento) in Belgio, Francia, Germania e Danimarca, oltre il 6 in Olanda e Portogallo, e intorno all’8 per cento in Spagna.

Alla domanda se la riforma abbia funzionato, la risposta è nitida e incontrovertibile. Da dove nasce l’allarmismo e lo scandalo? Quando si appunta la critica sulla lunghezza della fase di transizione si offusca il fatto che questa fase è segnata da forti trasformazioni del vecchio sistema. Basta considerare che il vecchio sistema consentiva nel pubblico impiego il pensionamento, indipendentemente dall’età, con 20 anni di anzianità contributiva (ridotta a 15 per le donne con figli). Con la riforma i requisiti anagrafici e contributivi minimi (57 anni e 35 anni di contribuzione) sono parificati a partire dal 2004. Bisogna aggiungere che per tutti - e questo rappresenta un cambiamento particolarmente incisivo, operato già dal governo Amato nel 1992 e confermato nel 95 - le pensioni non sono più indicizzate sulla dinamica dei salari reali, ma solo sui prezzi (e, oltre una certa soglia, solo parzialmente).
I tempi della transizione sono, dunque, segnati da una sequenza di cambiamenti che hanno accompagnato la riforma strutturale del 95, consentendo la stabilizzazione della spesa previdenziale.

I tecnici dell’allarmismo, nell’indomita ricerca di sempre nuove ragioni per attaccare il sistema riformato, osservano che la spesa rimane comunque in termini assoluti alta rispetto la media europea. Ma tutti sanno che il sistema previdenziale italiano è stato utilizzato come una sorta di ammortizzatore universale rispetto a tre grandi trasformazioni del paese: il passaggio da una società fondamentalmente agricola a una industriale, che ha scaricato una parte importante dei costi sociali derivanti dall’espulsione dei lavoratori dalle campagne sul sistema pensionistico; la successiva, per molti versi drammatica, ristrutturazione del settore industriale, col suo lungo corteo di espulsione dalle fabbriche di lavoratori cinquantenni costretti al pensionamento anticipato; e, infine, il sostegno al reddito nel Mezzogiorno, caratterizzato da una disoccupazione di massa endemica, per il tramite delle pensioni di invalidità.

Negli altri paesi europei, questi aspetti dello stato sociale sono stati addebitati a capitoli di spesa ad hoc, in termini di sostegno al reddito dei disoccupati o come garanzia di un reddito minimo destinato a contrastare il rischio della povertà. In Italia l’assenza di un sistema di ammortizzatori sociali degno di questo nome ha prodotto una spesa previdenziale impropria e nella quale sono esaltati i fattori puramente assistenziali. Non c’è dunque nessuna catastrofe incombente. L’Italia (seguita tre anni dopo dalla Svezia) ha fatto col consenso dei sindacati, che ne sono stati protagonisti attivi, una riforma radicale, in grado di consolidare i sistemi a ripartizione.

Questo non significa che non rimangano aperti problemi Ma, contrariamente alle tesi correnti, i problemi irrisolti non si pongono dal lato della sostenibilità finanziaria, ma piuttosto da quella della sostenibilità sociale. Il nuovo mercato del lavoro è sempre più segnato da attività di lavoro discontinue, saltuarie, a bassa retribuzione. I giovani alternano lavori provvisori, discontinui, a interim, a part time, pseudo-indipendenti. Nel migliore dei casi, dovranno inserire nella vita lavorativa periodi dedicati alla formazione. Altre fasi della vita, soprattutto per le donne, sono caratterizzate dalle attività di cura. Per un elevato numero di lavoratori, i tradizionali sistemi assicurativi, quale che sia il metodo di calcolo, retributivo o contributivo, non sono in grado di garantire una rendita pensionistica decente. Né per questo tipo di lavoratori possono soccorrere i fondi privati a capitalizzazione che, in generale, non coprono più del 50 per cento dei lavoratori. La soluzione dovrà essere cercata tramite l’estensione della copertura contributiva “figurativa”, al verificarsi di circostanze che involontariamente interrompono o riducono l’attività lavorativa.

In molti paesi i sistemi contributivi sono integrati da interventi di tipo fiscale. In Francia è stato costituito un Fondo di riserva per le pensioni, alimentato da una contribuzione sociale generale.Non si tratta di assistenza, ma di razionalizzazione di un sistema economico che esalta il lavoro flessibile come condizione di maggiore sviluppo, occupazione e competitività. Un sistema che, secondo il paradigma europeo della flexcurity, deve coniugare le flessibilità domandate ai lavoratori con adeguati sistemi di tutela e di protezione.

In Italia stiamo procedendo in senso contrario. Da un lato si intensifica la deregolazione del mercato del lavoro, introducendo nuova precarietà. Dall’altro, si mette a repentaglio la copertura pensionistica pubblica per le nuove generazioni, proponendo la riduzione dei contributi per i nuovi assunti a beneficio di un minor costo del lavoro per le imprese. Si tratta di questioni che meritano un approccio sistematico e non casuale. Questioni non compatibili con l’attuale, irresponsabile bricolage di proposte che minacciano di scardinare le basi della riforma pensionistica più innovativa attuata in Europa nel passato decennio. La riforma del 95 prevede al suo interno un meccanismo decennale di verifica del funzionamento dei suoi meccanismi.

Bene, nel 2005 avremo il primo round della verifica. Questa potrà essere l’occasione per un esame a tutto campo dei problemi che possono prospettarsi a medio e lungo termine: gli andamenti finanziari e demografici, compresi i tempi e le modalità del periodo di transizione residuo; i problemi derivanti dalle sempre più diffuse condizioni di precarietà che si riflettono sul futuro dei rendimenti pensionistici; i rapporti fra spesa previdenziale in senso stretto e spesa assistenziale sulla quale intervenire con strumenti fiscali. Le correzioni da apportare potranno essere realizzate, utilizzando la scadenza istituzionale prevista dalla riforma alla luce del sole, fuori dal castello di carta della finanziaria, dal labirinto di proposte casuali e funzionali ad altri obiettivi, dagli intrighi politici.

Mercoledì, 24. Settembre 2003
 

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