Usa, la rassegnazione al potere

A meno di sorprese dai ricorsi giudiziari di Trump, sarà Biden il nuovo presidente. Stavolta è andato a suo vantaggio il voto “contro”, cioè la volontà di liberarsi del reazionario in carica. Ma questa vittoria rafforzerà chi nei Democratici non vuole cambiamenti di linea, che è invece quello che gli elettori negli ultimi anni hanno mostrato di volere, e quindi forse prepara una prossima sconfitta

A meno di colpi di coda giudiziari di Donald Trump, che perdendo la presidenza rischia un futuro in galera, Joe Biden sarà il 46° presidente degli Stati Uniti. Designato dopo una prova elettorale che ha visto il record di votanti dell’ultimo secolo, il che spingerebbe a dedurne che sia un politico forte e carismatico, visto che è andato alle urne anche chi di solito non se ne cura. Invece è difficile ricordare un candidato più sbiadito, più incolore, oltre ad essere il più anziano che si sia mai seduto nello studio ovale: 78 anni, otto in più del presidente uscente quando assunse la carica.

In effetti il carisma c’era, ed era tutto dall’altra parte: ma un carisma bacato, perché ha suscitato forti sentimenti opposti, spaccando l’America a metà, come si è visto. Il record di votanti è “merito” di Trump, che ha suscitato la partecipazioni sia di chi lo ammirava che di chi voleva cacciarlo; e per un pelo hanno prevalso i secondi.  Se uno dei più noti slogan del  ’68 era “L’immaginazione al potere”, in questo caso si potrebbe parafrasare con “La rassegnazione al potere”: eravamo scontenti, abbiamo provato l’alternativa e abbiamo visto che era ancora peggiore.

Quella che ha sostenuto Trump è una corte dei miracoli di negazionisti (di vario genere: dai danni all’ambiente al Covid), bigotti anti-aborto e tradizionalisti in campo sessuale, razzisti di varie gradazioni (dai tiepidi ai suprematisti), persino filo-nazisti. Tutto il catalogo reazionario che il paese è in grado di produrre, oltre – naturalmente – ai ricchi da lui beneficiati e ai liberisti in economia senza se e senza ma. Di fronte a tanto, l’altra metà dell’America si è mobilitata e ha votato il meno peggio.

Biden sarà certo meno “muscolare”, meno provocatore, ma chi si aspetta svolte politiche a 180 gradi con ogni probabilità rimarrà deluso. Si è detto che si preannuncia una politica “tassa e spendi”: forse un po’ più di quanto avrebbe fatto Trump, ma è difficile aspettarsi una stretta sul fisco da chi ha fatto una lunga carriera politica come senatore del Delaware. Questo Stato è per gli Usa quello che Lussemburgo, Olanda e Irlanda sono per la Ue: un paradiso fiscale, meno scenografico delle isole tropicali ma altrettanto attraente per chi è allergico alle tasse. Già si prevede che la riforma fiscale di Trump sarà ritoccata, ma non più di tanto, E quanto ad altre riforme che rivoluzionino il sistema americano, sono probabili come una pioggia arancione.

Per giunta Biden avrà contro un potere forte, o forse due. Il primo è la Corte suprema, dopo le nomine di Trump a solida maggioranza reazionaria;  l’altro potrebbe essere il Senato (al momento i due partiti sono pari con 48 senatori ciascuno, dipenderà dai due ballottaggi a gennaio in Georgia), snodo di grande importanza per vari aspetti , come ad esempio l’approvazione delle nomine.

In politica interna non ci sono dunque da aspettarsi grandi sconvolgimenti. Per quella estera ci saranno forse cambiamenti un po’ più sensibili. Non nello scontro con la Cina, che ci si può aspettare soltanto che assuma toni un po’ più sommessi, ma senza sostanziali mutamenti. Quelli più rilevanti riguarderanno probabilmente i rapporti con l’Iran: potrebbe forse essere recuperato l’accordo sul nucleare disdetto da Trump, che in fondo era stato firmato quando Biden era vice presidente; e – secondo quanto annunciato in campagna elettorale – il rientro nell’accordo di Parigi sul clima. Probabile inoltre una certa ripresa del multilateralismo nei negoziati internazionali.

Biden, comunque, appare essere un presidente di transizione. Alla scadenza del primo mandato avrà 82 anni, è per lo meno dubbio che resti in corsa per il secondo. Nel frattempo il Partito democratico dovrà trovare il modo di ricostruire una linea, perché la prossima volta non ci sarà un Trump-babau a mobilitare l’elettorato. Per i Democratici avere un avversario del genere è stato un colpo di fortuna, ha permesso loro di ottenere il “voto contro” che quattro anni fa aveva avvantaggiato Trump. Purtroppo non sembra che siano in grado di recepire il messaggio che ormai da anni viene dall’elettorato americano, come pure viene dagli elettorati di quasi tutti i paesi europei. Un messaggio che urla che sempre più persone non solo non se la passano bene, ma non prevedono miglioramenti nel loro futuro finché ci saranno al potere coloro che seguono le politiche egemoni fin dagli anni ’80 del secolo scorso, quelli del TINA, There Is No Alternative, la famosa frase di Margaret Thatcher . Una filosofia che ha conquistato anche i partiti progressisti in tutte le democrazie avanzate. Ma molti ricordano che l’alternativa c’è, perché nel trentennio precedente agli anni ’80 le cose andavano diversamente, e i paesi avanzati hanno conosciuto un periodo di prosperità e di riduzione delle disuguaglianza come mai nella storia precedente. E così votano per chi riesce a presentarsi come alternativo rispetto al pensiero dominante.

E’ questo che affossato Hillary Clinton, la miglior candidata che i Democratici potessero presentare come espressione del loro partito, moglie dell’ex presidente durante il cui mandato gli Usa hanno avuto uno dei periodi più lunghi di crescita ininterrotta e poi Segretaria di Stato nell’amministrazione Obama. Poi c’era l’”intruso”, Bernie Sanders, un marziano che si è dichiarato socialdemocratico in America: troppo lontano dal TINA, anche se tutti i sondaggi lo davano vincente su Trump. Certo, i sondaggi sono inaffidabili: ma in quel caso probabilmente avevano ragione, un “alternativo” di sinistra per fronteggiare un “alternativo” di destra. Ma sta proprio qui il punto: Trump, come si è visto e come si sapeva, non era alternativo per niente. Quindi, anche per l’establishment democratico, comunque meglio lui che Sanders.

Paradossalmente, la vittoria di Biden potrebbe essere un fattore negativo per i Democratici, perché rafforzerà i sostenitori dello status quo. Ma se non troveranno il modo di offrire una prospettiva a chi continua a votare per rabbia e voglia di cambiamento, la prossima volta andrà com’è andata con Hillary Clinton: perderanno.

Venerdì, 6. Novembre 2020
 

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