Uno sguardo oltre la crisi

Il disastro c’è stato e c’è, ma molti numeri vanno interpretati per tener conto degli adattamenti dell’economia. Intanto si intravedono nel prossimo futuro trasformazioni radicali, che andranno accompagnate e tenute sulla giusta rotta da una politica economica adeguata

Qualche anno fa chi scrive frequentò le elementari. Una delle maestrine dalla penna rossa (allora c'erano e non erano necessariamente di sinistra) nell'insegnarmi i primi rudimenti di aritmetica insisteva sul fatto "che non si possono sommare le mele con le pere". In linguaggio meno infantile, comparazioni e proiezioni statistiche implicano la omogeneità degli elementi oggetto di indagine.

    

Ma nel valutare l'entità della diminuzione del Pil italiano dal 2007 ad oggi e dei tempi necessari per recuperare il livello originario, i calcoli si effettuano come se il Pil ante-crisi sia metodologicamente comparabile con quello attuale. Analogo l'assunto implicito nella nota di variazione. Si giunge, quindi, a proiezioni sconcertanti: Squinzi ritiene che se anche si toccasse l'incremento annuo del 2% occorrerebbe almeno un decennio; la Camusso, più prudente sul tasso di sviluppo, sempre calcolato nel modo tradizionale, ha sparato la cifra di un ventennio.

 

Proiezioni catastrofiche e agghiaccianti. Mi sembrano però inappropriate, perché è radicalmente mutata la materia del contendere. Non vorremmo tediare i lettori facendo, come in un feuilleton dell'800, un passo indietro. Ma occorre ricordare che il calcolo del Pil è basato su un metodo universalmente adottato per misurare in cifre il livello di benessere di una collettività e le sue dinamiche, supponendo che tale benessere sia correlato alla quantità di beni e servizi prodotti, il cui valore viene espresso a prezzi di mercato. Le critiche a questo modello sono note: non  tiene conto della distribuzione dei redditi e della ricchezza, calcola in modo confuso gli ammortamenti e i costi ambientali, è influenzato in modo anomalo dalla obsolescenza delle strutture produttive generate dal flusso innovativo, incontra difficoltà nel misurare le spese sociali, etc.

    

Tuttavia, se struttura produttiva e "consumer-mix" (tipologia e peso dei singoli settori di produzione e dei beni di consumo) rimangono immutati nelle loro proporzioni relative, le comparazioni sono possibili, si possono costruire serie storiche, calcolare tassi di sviluppo e di decremento ed impiegare questi dati per strategie di politica economica.

    

La grande crisi che ha investito il nostro Paese con ampiezza tra le maggiori di quella di altri grandi Paesi europei ha fatto venir meno queste condizioni minime di comparabilità. In via preliminare osserviamo che la trottola dei redditi si è schiacciata al centro, si è ulteriormente espansa nella parte cuspidale e si è molto allargata alla base, provocando chiazze di povertà. Come è accaduto anche negli Usa, il ceto medio è scivolato verso il basso.

    

Tuttavia i dati sulla disoccupazione sono probabilmente sovrastimati. Se vi fossero realmente 3 milioni di disoccupati e 6 milioni di sotto-occupati o scoraggiati avremmo da tempo barricate nelle strade. Per incidens, i dati non quadrano con quelli degli occupati che sono diminuiti solo (si fa per dire) di un milione di unità.

    

Fortunatamente non è proprio così. Molti elementi indicano una straordinaria espansione del nero, del grigio e del mini-jobs. Si tratta però di un'economia di galleggiamento che prelude a trasformazioni radicali, da pilotare accortamente per evitare derive catastrofiche. Le radicali trasformazioni tecnologiche renderanno sempre meno significativi i calcoli tradizionali sulla occupazione potenziale nell'economia del futuro. Ma allora risulterebbe inesatto parlare, come abbiamo fatto anche noi, di jobless recovery. L'arco temporale lavorativo è destinato a prolungarsi per la maggiore longevità attiva; ma dovrà ridursi radicalmente il totale delle ore di lavoro "diretto", mentre si amplieranno gli intervalli destinati allo studio, alla ricerca, alla formazione, alla riqualificazione. I ferrei vincoli della tecnologia renderanno concreta l'utopia sessantottesca del "lavorare meno per lavorare tutti".

 

Occorrerà comunque distinguere tre diverse linee di produzione: quelle in cui le innovazioni riducono i costi di processi noti; quelle che alimentano nuovi prodotti e quelle dei cosiddetti servizi alla persona, che coprono molti aspetti della vita sociale: cure dei minori, dei disabili, degli emarginati e degli anziani, e fruizione della bellezza nelle sue varie forme, dal paesaggio, all'arte, alla cultura, all'archeologia, etc. Le due seconde linee sono certamente meno labour saving. In questi campi, e soprattutto nei servizi sociali sta crescendo il ruolo del Terzo Settore, che attenua la contrapposizione Stato/mercato. Negli ultimi anni le no-profit sono cresciute, in Italia, del 28% e i volontari hanno raggiunto la cifra (un po’ gonfiata?) di 7.800.000 unità.

 

La tipologia dei consumi va mutando con una rapidità sconcertante. L'informatica ha sensibilmente ridotto nelle metropoli la domanda di mobilità. Il traffico è sceso ictu oculi. I rapporti con banche, assicurazioni, amministrazioni pubbliche e molti tipi  di pagamento avvengono tramite smart phone. Alcune attività professionali si svolgono prevalentemente per via telematica. Spinti dalla necessità di risparmiare, prima, e dalla consuetudine, poi, i consumatori uniti in gruppi di acquisto, tendono a privilegiare gli acquisti a chilometri zero. Speriamo che ciò ponga fine agli assurdi pellegrinaggi delle acque minerali che fanno bere in Sicilia le sorgenti dell'Adamello. 

    

Per quanto concerne i beni durevoli, tendono a prevalere le caratteristiche di qualità e di durata, in aperto contrasto con le politiche fin qui attuate dai produttori. Il fenomeno accrescerà i costi di manutenzione e abbatterà quelli di rinnovo. Risorgerà quindi la gloriosa categoria dei manutentori e ritorneranno le barzellette degli idraulici che insidiano le virtù delle massaie. Queste tendenze non sono futuribili: sono in atto. Occorrerà tenerne conto rielaborando, per così dire, l'ordito e la trama del Pil. Il riordino dei consumi e l'influenza sui prezzi degli sconti, dell'e-commerce e dei last minute potrebbe produrre un calcolo del Pil sensibilmente diverso, modificando in meglio lo stesso rapporto deficit/Pil.

 

Nel quadro di questa mutata valutazione, da attuare con una radicale revisione dei dati e con la costruzione di un'architettura logico-interpretativa di sintomi talora apparentemente contrastanti, quali potrebbero essere le direttrici di una politica economica di medio-lungo periodo?

    

Il primo intervento, sul quale convergono i pareri dei migliori economisti mondiali, consisterebbe in una drastica azione per ridurre la concentrazione dei redditi. Si tratta in definitiva di conformare puntualmente la politica fiscale al dettato costituzionale. Essa dovrà caratterizzarsi con una accentuata progressività non solo delle imposte dirette, ma anche di quelle indirette e di quelle che colpiscono gli immobili e le ricchezze patrimoniali.

    

Un secondo aspetto importante è l'ordine di grandezza della manovra. Dev'essere proporzionato alle dimensioni dei fenomeni. Non si ferma un treno in corsa con un bastoncino. Gli interventi del 5 o 8 per mille, su cui si accendono risibili liti di coalizione, sono totalmente ininfluenti. Confindustria e sindacati condividono questa tesi. Si potranno programmare tempi lunghi per diluirne l'impatto. Il peso dell'intervento, a parità di efficacia, sarà tanto minore quanto più le misure accompagneranno, governandole, le tendenze di fondo del sistema assecondandone la corsa, ma correggendo gli aspetti negativi come fanno i piloti di formula Uno nelle curve per contrastare la forza centrifuga con sapienti tocchi al volante.

    

Di basilare importanza sono le cosiddette riforme a costo zero. I punti chiave sono noti: sburocratizzazione, semplificazioni, snellimento nei processi civili e amministrativi, con severe sanzioni per i ricorsi temerari al fine di evitare il miserevole spettacolo del blocco di lavori già appaltati. Importanti saranno le scelte di politica industriale, fra cui il piano energetico nazionale, una politica fiscale a favore della ricerca e il sostegno alle punte tecnologiche del nostro Paese. Ma bisognerà anche fare un'operazione massiccia di "remise en forme" delle strutture socioeconomiche italiane. Meno tagli di nastri e più coperture di buche. Le risorse disponibili vanno concentrate verso il reintegro delle parti degradate del sistema, dalla logistica al ciclo dei rifiuti, all'urbanistica sociale, senza creare nuove incompiute. L'epoca dei circhi equestri è tramontata.

    

Due considerazioni conclusive. Sgombriamo il campo dal totem del costo del lavoro, frutto dell'interpretazione equivoca dei dati statistici internazionali. Il costo del lavoro italiano, anche al lordo dei contributi, è il più basso dei Paesi industrializzati. Quello che si è ridotto è il costo del lavoro per unità di prodotto, che dipende dalle dimensioni aziendali, dalle diseconomie esterne, dai costi pubblici e dalla qualità scadente di molti imprenditori. Non solo gli operai richiedono costi di riqualificazione.....

    

Infine è diventato un vezzo quello di attribuire genericamente la responsabilità del degrado alla "classe politica". Passare da "todos caballeros" a "todos cabrones" non è corretto. Coloro che hanno governato più a lungo e che tuttora influenzano l'opinione pubblica con un potere mediatico paragonabile a quello dei regimi totalitari, hanno oggettivamente le responsabilità maggiori.

    

Il Paese ha bisogno di sapienti innesti in un frutteto dove stanno germogliando alberi sinora sconosciuti e non di proiezioni su dati obsoleti e men che mai di Fate Morgane o asfaltatori improvvisati. Occorre evitare che il passato afferri il presente precludendogli il futuro.

Giovedì, 26. Settembre 2013
 

SOCIAL

 

CONTATTI