Università, la riforma coi fichi secchi

Accanto ad alcune norme di assai dubbia costituzionalità e alcune “novità” già introdotte da Prodi o in vigore 50 anni fa ci sono anche misure corrette, anche se confuse. Ma aspetti importanti mancano del tutto. In complesso, l’ennesima occasione perduta

La riforma universitaria o, per meglio dire, il simulacro di riforma approvato dalle Camere, è stata salutata dall'on. Gelmini come un evento, manco a dirlo, epocale: dimenticando che le principali innovazioni (riduzione del numero degli insegnamenti e valutazione dei professori) erano già state introdotte dal governo Prodi. L'avvocato-ministro assomiglia sempre di più ad Alice nel paese delle meraviglie. Nonostante qualche punto apprezzabile il documento legislativo, confuso e arruffato, avvolto da una colossale impalcatura burocratica (sono previsti 50 decreti attuativi: un record da impero bizantino) sembra piuttosto una grande occasione perduta, da celebrare nel "giorno del non compleanno".

 

L'approvazione della legge è stata preceduta da una massiccia campagna di disinformazione, condotta con argomentazioni e battute del genere del "vieni avanti cretino" dei circhi equestri che giravano i paesi del Nord-Italia nella seconda metà dell'800. Sgombriamo il campo da questo ciarpame. Si è mostrato meraviglia e disgusto per il fatto che il 95% delle spese ordinarie correnti delle Università sia destinato al personale; ignorando che è proprio il personale lo strumento fondamentale della trasmissione del sapere (e non le slot-machines delle reti Fininvest o delle pseudo-università on-line), e fingendo di ignorare il fatto che, ad esempio, l'edilizia figura in altri capitoli di bilancio ed è spesso a carico di amministrazioni locali.

 

Altri sacerdoti del sacro rito berlusconiano si sono stracciate le vesti nell'apprendere che in classifiche anglosassoni le Università italiane si collocavano ben lontane dal vertice. Non si è tenuto conto del fatto che tali classifiche sono rapportate a modelli organizzativi che implicano residenzialità di studenti e docenti e di centri di ricerca, mentre in Italia la ricerca pubblica si svolge prevalentemente nell'Enea, nel Cnr e nell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: organismi che non in tutti i paesi hanno equivalenti. Inoltre, vi è una sola Università residenziale pubblica (Arcavacata). Non si considera inoltre il fatto che il livello medio delle lauree nordamericane, anche tecniche, è molto inferiore a quello italiano, come sanno tutti i nostri ingegneri che a vario titolo collaborano con i colleghi di oltre Oceano. Il vero equivalente americano della nostra laurea quinquennale è il Master. Del resto, con quella simpatica auto-ironia che caratterizza il mondo anglosassone (e che è sconosciuta all'attuale classe politica) è comune la battuta secondo la quale per avere una buona laurea negli Usa bisogna essere alti, negri e giocare a basket.

 

Quanto ai "37 insegnamenti con un solo allievo" essi rappresentano l'uno per mille del totale, e cioè un dato statisticamente irrilevante. Comunque, con queste battute da caserma si mostra ignoranza per il ruolo della ricerca non mercantile e della speculazione intellettuale, che può prevedere discipline molto specialistiche, ad esempio nel campo dell'archeologia e della numismatica. Ciò non esclude che si siano create addirittura vere e proprie università fasulle, per lo più private, sia nel Sud che nel Nord. Quel che sfugge all'opinione pubblica morfinizzata dalle TV è che queste storture non possono che essere imputate a coloro che hanno governato il paese negli ultimi otto anni su dieci e che dovrebbero quindi indossare le lunghe tuniche bianche dei Flagellanti.

 

Alcuni provvedimenti sembrano corretti, anche se realizzati in modo confuso: ad esempio l'idoneità all'insegnamento universitario. Con uno spettacolare balzo all'indietro di oltre mezzo secolo viene riesumata la libera docenza con un meccanismo simile a quello degli anni '50. Non essendo però previsto il numero chiuso - mentre un tempo il numero era ristretto e i vincitori dovevano trovare un incarico accademico entro un triennio - vi è il fondato timore che la procedura approdi ad un "todos caballeros". La chiamata diretta da parte delle Facoltà potrebbe apparire in contrasto con l'art. 97 della Costituzione, che prevede un concorso per l'ingresso nella pubblica amministrazione. La norma che fissa un minimo di tre membri della "società civile" nei Consigli di amministrazione viola l'autonomia universitaria prevista nell'art. 33 della stessa Costituzione. Altra violazione all'autonomia si riscontra nella determinazione di un massimo di 12 Facoltà per Ateneo, indipendentemente dalle diversissime dimensioni. Questo provvedimento alla Masaniello si può risolvere in indebite disaggregazioni nelle piccole Università e nella creazione di singolari ircocervi in quelle molto grandi (alla Sapienza, Statistica è stata frettolosamente accorpata a Ingegneria).

 

Apprezzabile l'iniziativa di proseguire nella strada già iniziata dal governo Prodi, con buoni risultati, della riduzione del numero di insegnamenti; ponendo fine a quella disaggregazione molecolare che consentiva agli studenti più astuti percorsi di minore resistenza con pessimi risultati per la preparazione professionale. Il percorso accademico dei ricercatori è stato assimilato a quello degli antichi assistenti, con una differenza di non poco conto. Gli assistenti che non conseguivano la cattedra entravano, conservando l'anzianità, nei ruoli della scuola media superiore: evitando il trauma dell'interruzione del rapporto di lavoro, trasferendo competenze nella scuola ed evitando allo Stato la perdita delle somme erogate in un decennio. Permane il dubbio sulla funzionalità di affidare ai ricercatori compiti diversi da quelli della ricerca....

 

Su altri punti fondamentali la legge tace. Non si parla di rivalutazione generale degli stipendi del corpo docente, inferiori di oltre il 45% a quelli francesi e tedeschi; delle incompatibilità; della auspicabile abolizione del tempo definito (e cioè cumulabile con attività professionali). Soprattutto nelle facoltà di Medicina e Giurisprudenza, il cumulo fra professione e docenza penalizza la ricerca, l'insegnamento e gli esami, affidando di fatto la copertura di queste funzioni proprio ai tanto vituperati ricercatori.

 

Alcune stranezze affiorano fra i relitti della riforma naufragata. Ad esempio si possono affidare corsi ad esperti esterni, purchè abbiano un reddito di almeno 40.000 euro lordi. La norma è strampalata: è vero che si propone di evitare l'affidamento ad un nullafacente e non ad un professionista, ma facendo così si potrebbe correre il rischio di conferirlo ad un fruttivendolo. Meglio sarebbe creare un ristretto albo di professionisti altamente qualificati, riducendo il corso a seminario di poche ore e, quindi, non destinato a coprire vuoti di organico, ritornando così all'originaria ratio legis.

 

Un'ultima considerazione va fatta per quanto concerne la riduzione dell'anomalo numero di sedi universitarie. Premesso che questa proliferazione è stata largamente promossa dall'attuale maggioranza, bisogna ammettere che il fenomeno può anche costituire la risposta italiana all'assenza di campus. Grazie anche a finanziamenti di enti locali si sono risparmiate le enormi somme necessarie alla creazione di grandi Università con residenze per insegnanti e studenti. Per ridurre radicalmente le sedi periferiche senza danneggiare gli studenti occorrerebbe prevedere un aumento molto sensibile nel numero e nell'importo delle borse di studio; o, in alternativa, un formidabile programma pluriennale per la creazione di campus. Come dovrebbe sapere la novella sposa on. Gelmini, non si possono fare le nozze con i fichi secchi. Ritorneremo comunque su questi temi quando ci si addentrerà nei meandri dei decreti attuativi. Rimane in ogni caso il fatto che ancora una volta il sonno della ragione dei ministri genera i mostri dei burocrati.
Domenica, 9. Gennaio 2011
 

SOCIAL

 

CONTATTI