Unità sindacale. Un patrimonio da non disperdere

La pratica di accordi separati rischia di diventare normalità. Ma c’è qualche segno di ripresa unitaria

Ovviamente, ormai, non c'entro più molto con il sindacato. Eppure, dal momento che è stata la mia vita, sento il bisogno di proporre alcune riflessioni al dibattito.
Parto dalle osservazioni che fa Romagnoli e dalla storia di trent'anni che lui sottolinea. Nella mia memoria ci sono ricordi differenti, almeno su alcuni aspetti.
Una osservazione sul 1973, quando si era deciso di fare la FLM. FIM, FIOM e UILM avevano già preso le decisioni di scioglimento.
Il mio ricordo è vivissimo. Ci saranno stati anche i veti in casa DC, dei quali non ho informazioni particolari. Ricordo una riunione convocata in CGIL, a Torino, da Emilio Pugno per dirci, con evidente fatica e dolore, che non si poteva fare. Il Partito (Comunista) era contrario. In fondo, anche la CGIL. Si sarebbe lasciato libera la sigla della CGIL, della quale altri si sarebbero impadroniti. Ci sarebbe stata la scissione. Eccetera.
Non fu un piccolo momento. Credo che, se si fosse realizzata la fusione e fosse nata la FLM “vera”, probabilmente sarebbe cambiata radicalmente anche la storia politica di questo paese. (1)

Un secondo ricordo riguarda il Congresso nazionale della CGIL del ’96, l’ultimo al quale ho assistito.
Sono passati molti anni. Il Segretario Generale era Sergio Cofferati. Sergio D’Antoni guidava la CISL. Alle spalle c’era una lunga discussione sull’unità sindacale e sui temi della rappresentanza; sulla necessità di andare ad una regolamentazione legislativa, oppure no.(2)
Il Direttivo della CGIL aveva votato qualche tempo prima un o.d.g. che poneva come condizione per fare passi avanti concreti sui temi dell’Unità sindacale, in quella fase, l’intesa unitaria per chiedere una legge sulla elezione delle RSU e sulla rappresentanza a Governo e Parlamento.

Era già nato il Governo Prodi.
Al Congresso della CGIL, a Rimini, Sergio D’Antoni venne a dirsi disponibile a tale accordo, pur ribadendo la poca convinzione della CISL sul metodo legislativo, ma affermando che la CISL credeva talmente all’unità sindacale, che era pronta a disancorarsi da questo punto fermo della propria tradizione per scommettere su un grande processo nuovo di unità.
Nella replica Sergio Cofferati rispose “no grazie!”, dando l’impressione di essere troppo preoccupato della tenuta unitaria della CGIL, per imbarcarsi in una avventura di Unità sindacale.

Ci possono essere stati tanti buoni motivi per riaffermare prudenza nel processo unitario. Certo che, essendo quello il momento più alto nei rapporti unitari (di quella stagione), frutto di una lenta risalita. dopo le gravi lacerazioni dell’84 (punti di scala mobile), il rifiuto di una “offerta” pubblica così autorevole, non poteva che generare una reazione di maggior radicalizzazione identitaria in tutte le Confederazioni.

In sostanza: ci fu allora una scelta (a mio avviso miope), che, credo, sia stata molto influenzata dalle preoccupazioni che generava la nuova situazione politica, del dopo elezioni per l’unità interna della CGIL.
La CGIL decise che l’unità sindacale era rinviata ad un altro momento politico, meno lacerante per la sinistra.
Vista soprattutto con il senno del poi, questa scelta fu gravida di conseguenze.

Veniamo al periodo più recente, sempre fortemente influenzato dalla situazione politica, in tutte e tre le confederazioni.
La situazione, ad oggi, è diventata molto difficile e delicata. Quello che, fino a qualche anno fa, sembrava una realtà quasi impossibile, gli accordi separati, rischia di diventare una consuetudine a cui, tristemente, ci si abitua. Nodi grandissimi, di principio, (quali: l’approvazione degli accordi con referendum da parte dei lavoratori, o da parte degli iscritti; la rappresentanza; ecc.), si intrecciano con valutazioni molto diverse sul Governo, sulle sue politiche economico/sociali e sulle relazioni da tenere tra organizzazioni sindacali e presidenza del Consiglio, o i singoli Ministri, come con questa Confindustria.

Ci sono molti buoni motivi, per quanto mi riguarda almeno, per diffidare profondamente delle scelte di questo governo e di questa Confindustria e di valutarle contrarie (non solo nel merito, ma nella filosofia e nell’impostazione) agli interessi dei lavoratori, così come, negli anni, hanno provato a rappresentarli CGIL, CISL, UIL.
Quello che resta un macigno da rimuovere al più presto, sempre guardando ai lavoratori, è, almeno, la rottura dell’unità d’azione tra le organizzazioni sindacali, salvo il pericolo gravissimo di disperdere il patrimonio grandissimo accumulato in molti anni di lotte, di conquiste e di sconfitte.

Comunque sia, andare ad un rinnovo contrattuale con piattaforme diverse, significa essere debolissimi nei confronti della controparte (e poi: quale controparte!); soprattutto quando l’obiettivo strategico della controparte è quello do non fare più i contratti nazionali di lavoro o di svuotarli di contenuto.
A chi giova tra i sindacati?

Esisteranno sempre, per fortuna, idee e impostazioni diverse tra i lavoratori; e, quindi, tra i sindacati. Non ha senso pensare di “eliminarle”, o di umiliare uno o l’altro dei sindacati confederali.
Quale visione strategica può avere, allora, il permanere sistematico di una divisione sindacale anche nei “fondamentali”, nelle piattaforme, negli scioperi, negli accordi? Solo quella di un lungo periodo di sconfitte?

Non c’è dubbio che la situazione politica, sia tra Ulivo e Polo, sia all’interno dell’Ulivo e della sinistra, non aiuta molto la faticosa ripresa di un processo unitario.
E la scomparsa di grandi partiti, come fu quello comunista e anche quello democristiano, la grande frammentazione dei loro epigoni e dei loro quadri e militanti, non danno coordinate forti per tenere insieme forte identità e processo unitario; insieme, non c’è più in campo un soggetto politico sufficientemente autorevole per essere punto di riferimento anche dei militanti di altri schieramenti, di altre formazioni politiche.

Non c’è dubbio che, in questa situazione, sia forte la tentazione di indirizzare il sindacato (che, non si può dimenticare, è rimasta l’unica grande istituzione politica passata alla cosiddetta “seconda Repubblica”, senza soluzione di continuità) come strumento sussidiario alle debolezze del quadro politico.
Nella mia formazione l’azione del sindacato confederale è “politica”, per definizione; in quanto sia autonomo, in quanto faccia accordi; e, per ciò stesso, in quanto diventi punto di riferimento di altre componenti (politiche, professionali, sociali, tematiche, ecc.) presenti nella società.
Tanto più, in quanto pesi la qualità degli obiettivi che si pone, degli accordi che raggiunge.
Tra i lavoratori pesano i risultati ottenuti, i diritti consolidati e ampliati, la qualità degli accordi raggiunti.

La posizione e l’iniziativa unitaria contro la guerra; la piattaforma unitaria sulle pensioni, aprono nuove speranze.
Conterà molto la convinzione soggettiva dei gruppi dirigenti, anche di quelli diffusi e locali. Tenendo conto che le fratture, le lacerazioni tra i gruppi dirigenti si possono saldare con fatica; quelle tra i militanti suoi luoghi di lavoro sono molto più difficili da superare.

(1) Sono convinto, infatti, che la storia italiana, dal dopo guerra in poi, ha avuto due momenti importanti nei quali si poteva cambiare radicalmente il tipo di alleanze politiche che la governavano e, insieme, la storia culturale del paese, della società: un momento fu quello, appunto; l’altro fu il ’97 e l’alleanza nata intorno a Prodi. Infatti questi sono stati i due momenti nei quali più chiaramente e profondamente, ci fu una frattura politica nel “mondo cattolico”, in Italia fondamentale per poter mettere insieme la maggioranza dei cittadini e del paese intorno ad una idea di “riformismo progressivo”. In tutte e due queste occasioni il “partito” (nel ’73 “comunista”, nel ‘97 il PDS/DS) non ebbe il coraggio di esserne con decisione un protagonista. Anzi: per una (discutibile!) difesa dell’”identità” propria, nei fatti, ne fu un agente diffidente e ostile. Ne paghiamo lo scotto.

(2) E’ nota l’impostazione differente, di lunga data, nella cultura fondante di CGIL e CISL, secondo cui, per la CISL non si è mai posto il problema di adeguare la legislazione al dettato costituzionale, con una regolazione legislativa di riconoscimento delle organizzazioni sindacali, in nome dell’autonomia del sindacato e dei risultati della contrattazione; per la CGIL questo, invece, era utile e necessario, per consolidare i risultati della contrattazione.

Venerdì, 21. Marzo 2003
 

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