Un'idea straordinariamente sbagliata

L’Italia ha il più basso livello di occupazione e la più alta durata del lavoro fra i paesi sviluppati dell’Unione europea. Ma, secondo una stravagante idea “riformista”, il problema dei bassi salari si risolverebbe estendendo e defiscalizzando il lavoro straordinario

Adesso la destra e una parte della grande stampa hanno scoperto che i salari in Italia sono bassi. E la responsabilità di questo squilibrio sociale e del disagio che genera per milioni di lavoratori è attribuito al fisco. Che la pressione fiscale colpisca esageratamente il lavoro dipendente, mentre sono privilegiati rendite e profitti, è fuori discussione. Ma la prima ragione per la quale i salari sono squilibratamente bassi dipende dal fatto che i salari reali crescono poco o non crescono affatto. Ormai da più di un decennio la dinamica contrattuale nel settore privato è stata generalmente bloccata entro i limiti del recupero dell’inflazione. Profitti e rendite hanno requisito la crescita più o meno pronunciata della ricchezza nazionale.

 

Contro l’aumento dei salari reali si porta l’argomento canonico dell’elevatezza del costo del lavoro.. Ma è un argomento che non regge alla prova dei fatti. In Italia il costo del lavoro è al di sotto della media dei quindici paesi più sviluppati dell’Unione europea. Se  poi si considera l’industria manifatturiera, che dal punto di vista della competitività internazionale è il settore più sensibile, si trova che  in Germania il costo del lavoro è il 40 per cento più alto che in Italia, in Francia il 30, in Olanda, Danimarca, Svezia il divario è fra il 40 e il 50 per cento. Ne discende che i salari in Italia sono bassi prima ancora che si prenda in considerazione la pressione fiscale.

 

Detto questo non c’è dubbio che il prelievo che grava sui redditi medio-bassi  dei lavoratori debba essere ridotto. Ma come? Dario Di Vico, editorialista del “Corriere della Sera”, ha proposto di defiscalizzare il lavoro straordinario, prendendo a esempio Sarkozy, all’insegna dello slogan “lavorare di più per guadagnare di più”. La proposta piace alla destra perché il maggior lavoro va a beneficio dell’impresa, mentre il maggior salario viene posto a carico dello Stato e quindi della fiscalità generale. E se è vero, come è vero, che la quota maggiore del prelievo (tra il 70 e l’80 per cento) deriva dalle ritenute alla fonte che incidono sulla busta paga, quello che si propone è una redistribuzione fra i lavoratori. Per di più una redistribuzione casuale, quando non iniqua, dal momento che il lavoro straordinario non è per tutti. Alcune imprese lo richiedono in circostanze particolari, altre non ne hanno alcun bisogno. Per un altro verso, le donne difficilmente sono in condizione di prolungare l’orario di lavoro, dovendosi generalmente sobbarcare a un secondo lavoro di cura all’interno della famiglia.

 

Ma le incongruenze di questo tipo di proposte non riguardano solo gli elementi di casualità e discriminazione che le caratterizzano. L’efficienza di un sistema produttivo – vale a dire la crescita della ricchezza nazionale – dipende, per quanto riguarda il mercato del lavoro, da tre fattori: Il tasso di occupazione, vale a dire la quantità di persone che essendo in età di lavoro hanno un’occupazione; le ore di lavoro effettivamente lavorate; la produttività oraria del lavoro. Come si pone l’Italia dal punto di vista di questi parametri? La produttività oraria del lavoro ha risentito negativamente della fase di stagnazione, ma ha ripreso a crescere negli ultimi anni. Per quanto riguarda poi l’orario effettivo medio di lavoro è, dopo la Grecia, il più alto fra i 15 paesi della vecchia Unione europea. Germania e Francia, nostri diretti concorrenti,  sono nei primi cinque posti tra i paesi con la più bassa durata del lavoro medio effettivo nell’insieme del mondo industrializzato. Questo dato di per sé rende paradossale una politica di prolungamento dell’orario di lavoro.

 

Ma non si tratta solo di questo. In Italia alla maggiore durata del lavoro medio si accompagna il minor numero relativo di persone occupate. Nel 2006 il tasso di occupazione, vale a dire gli individui compresi fra 15 e 64 anni con un rapporto di lavoro, era del 58,4 per cento, contro il 66 per cento medio dell’Unione europea a 15. Uno scarto di oltre sette punti percentuali che diventa di 9 punti rispetto alla Germania e di 15-20 punti rispetto ad altri paesi come l’Olanda, la Danimarca, la Svezia. Se vi è dunque un problema di efficienza complessiva del sistema, non è l’allungamento dell’orario di lavoro, ma quello della crescita dell’occupazione. Le fanfare della destra suonano una musica stonata nella quale l’ideologia si mescola al disprezzo per i dati di fatto.

 

Naturalmente, questo non significa che non esista un problema di riduzione del prelievo fiscale sui salari medio-bassi. Tutti vedono che un’aliquota del 38 per cento applicata a un salario di 28.000 euro annui è un peso eccessivo, e che va ridotto. Si tratta di una politica possibile? Secondo le variegate voci di destra lo strumento è la riduzione della spesa sociale, in sostanza pensioni e sanità, da indirizzare su un percorso di crescente privatizzazione. Una soluzione peggiore del male che si vorrebbe curare. Negli Stati Uniti, dove il prelievo contributivo e fiscale è più basso, si è creata una deriva sociale incontrollabile che colpisce non solo i più poveri ma soprattutto i ceti medi.

 

In Italia, dove un debito pubblico che è tra i più alti al mondo assorbe 60-70 miliardi per il servizio degli interessi all’anno, la riduzione delle imposte dipende sostanzialmente dalla riduzione dell’evasione fiscale e dall’adeguamento del prelievo sulle rendite finanziarie. Il governo di centro-sinistra, per quanti errori possa aver compiuto – dovuti in generale più che alle scelte politiche alla sua composizione tanto ibrida quanto masochisticamente autolesionista - ha avuto il merito di inaugurare una seria lotta all’evasione, di cui si sono potuti apprezzare i primi risultati.

 

Può darsi che anche per questa ragione il governo abbia, se non i giorni, i mesi contati. Ma siccome nessuno mostra di avere un’alternativa che non sia un oscuro ritorno al berlusconismo, Prodi farebbe bene ad avanzare, a fianco e oltre la finanziaria, una proposta chiara di riduzione progressiva delle aliquote fiscali da attuare con una sequenza annuale finanziata dal recupero di evasione fiscale. A titolo di esempio, posto che la riduzione di un punto dell’aliquota del 38 percento costa intorno a 700 milioni di euro, le disponibilità derivanti dalla lotta all’evasione potrebbero essere in larga misura concentrate, evitando una controproducente distribuzione a pioggia, su un programma di riduzione del peso fiscale sui redditi medio-bassi. Sarebbe interessante vedere le reazioni della destra, che si è improvvisamente scoperta una vocazione filosindacale, a un chiaro e concreto progetto che vada in questa direzione. Soprattutto, le reazioni di quella folta schiera di liberal-liberisti che, a vario titolo, si autoproclamano riformisti.

Lunedì, 8. Ottobre 2007
 

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