Un'economia che non fabbrichi crisi

Mentre si scrutano con ansia i dati che dovrebbero segnalare che il peggio è passato, ci si dovrebbe anche interrogare su come dovrà essere un sistema economico che non generi squilibri. C'è bisogno di una nuova teoria? In realtà no: basta guardare un po' indietro per trovare un modello che ha funzionato

Una serie di dichiarazioni ufficiali lasciano intravvedere sintomi di un rallentamento o di un arresto della caduta del reddito e della produzione in vari paesi, tra cui l'Italia. Sospiri di sollievo si sono levati anche da voci autorevoli, comeTremontiil quale, confutando San Giovanni, ha affermato che "l'Apocalisse è scongiurata". La sua imperturbabilità non è scalfita neppure dai recenti negativi dati del Tesoro e della Commissione Europea, che confermano previsioni (catastrofiche?) da noi fatte in precedenti articoli. Questo brusio ottimistico ci ricorda un apologo della favolistica araba. Un povero viandante cadde su un cespuglio ed un rametto d'albero gli cavò un occhio. Egli si rialzò lodando Allah. Un passante gli chiese stupito perchè esultasse in una così tragica circostanza, ed egli rispose "perchè se il ramo era biforcuto sarei diventato cieco". Questo sembra l'attuale atteggiamento delle classi politiche dell'Europa Occidentale.

 
Nell'attuale fase la politica economica del governo italiano appare come una rotazione delle poste contabili su di una roulette alla quale si alternano, in veste di croupiers, Tremonti, Berlusconi e, talora, l'onnipresente Bertolaso. D'altro canto di essa abbiamo già parlato: ribadire le critiche apparirebbe politicamente scorretto nei confronti di un partigiano della Brigata Majella. Con un benevolo giudizio possiamo affermare che essa si ispira al siciliano "chinati giunco......" o al napoletano "a' da passà a nuttata" o, con un tocco di eleganza oxoniana al "wait and see".

   

Anticipando di qualche mese fenomeni in divenire - a meno di sempre possibili sorprese in controtendenza - vorremmo impostare delle domande, formulare delle risposte, suggerire delle proposte.

 

Le domande che ci poniamo sono in sostanza due: a) quale ritmo e quale forma assumerà la ripresa?; b) le politiche poste in atto a livello mondiale sono tali da eliminare gli squilibri strutturali sottostanti alla grande crisi, così da evitarne il ripetersi?

   

Le risposte sono necessariamente articolate. Quel che è certo è che il nuovo equilibrio non riprodurrà il "mondo di ieri", come scrisse Stefan Zweig, narrando la fine della Belle Epoque nella Mitteleuropa.

   

Per quanto concerne la forma della ripresa si discute se essa assumerà l'aspetto di una V, di una U con la base più o meno allargata, o di una L. Il primo segno grafico indica una ripresa a ritmi rapidi. Potrebbe essere il caso della Cina, se la manovra redistributiva a favore delle classi sociali inferiori e delle Province interne avrà successo e forse anche della Malesia e della Corea del Sud. La forma ad U è indicativa di una maggiore o minore gradualità a seconda della larghezza della base della lettera. Rimane comunque da verificare se il braccio di destra della V o della U sarà più alto di quello di sinistra. In tal caso il livello di reddito e produzione risulterà superiore rispetto a quello precedente la crisi. Il simbolo grafico più temuto è la L; essa rappresenta infatti la trasformazione della recessione in stagnazione, ad un livello più o meno alto a seconda del punto in cui si colloca la barretta orizzontale e per un tempo più o meno lungo in rapporto alla lunghezza della stessa barretta.

 

Per rispondere alla seconda domanda, occorre approfondire la riflessione sulle origini della crisi. La tesi della bolla finanziaria che implode e trascina con sé l'economia reale è superficiale e insufficiente. Una schiera di economisti di serie A (quasi tutti Premi Nobel) ha individuato uno dei fattori fondamentali del crack nella maldistribuzione dei redditi, nelle nazioni e fra le nazioni; fenomeno di fondo che le foglie di fico della finanza allegra non potevano occultare a lungo. Ma questa analisi, culminante nella diagnosi del deficit della domanda aggregata, soffre dei limiti propri dell'approccio macroeconomico, frutto di una cucina "fusion" post-keynesiana.

   

Le strutture produttive anche per categorie merceologiche, a lungo andare non possono non rispecchiare le strutture dei redditi individuali, dai quali proviene la domanda. Basti un esempio banale. Un paese che non commerci con l'estero e nel quale vi siano molti poveri, che vorrebbero consumare latte, ma hanno pochi soldi per comprarlo, ed un numero più ristretto di ricchi che vogliono automobili di lusso, finirà per produrre parecchie automobili di lusso e poco latte. Paradossalmente ciò consentirà di ridurre il costo unitario delle automobili e accrescerà quello del latte, per il gioco delle economie di scala. Se il paese si apre agli scambi internazionali questo fenomeno si spalma su una tavolozza più ampia che può solo attenuarlo o accentuarlo, senza annullarlo, perchè la concentrazione dei redditi è un fattore globale.

   

Ne conseguono due conclusioni interessanti. Se le manovre anticongiunturali non producono una sensibile riduzione nella concentrazione dei redditi, i fenomeni di squilibrio tenderanno prima o poi a riprodursi. Se, invece, incideranno su tale concentrazione, ciò avrà come conseguenza anche una ristrutturazione dell'apparato produttivo per categorie merceologiche. Operazione non priva di costi. Verificheremo, fra breve, i successi e le difficoltà della soluzione cinese.

 

Vi è però un altro aspetto, molto importante e forse trascurato che si intreccia con quello delle funzioni non solo quantitative ma anche qualitative dei consumi. Esiste una correlazione non univoca e non perfettamente quantificabile fra struttura dei redditi, struttura dei consumi, struttura produttiva e livello delle tecniche.

   

Nei prossimi anni è atteso un cluster (grappolo) di innovazioni. Queste ondate innovative hanno cadenze non prevedibili: lasciate alle tumultuose forze del mercato esercitano sulle strutture economiche, giuridiche, politico-istituzionali e sugli stessi stili di vita pressioni talora insostenibili, che l'ingegneria finanziaria può solo tamponare, amplificandone però gli effetti di fondo. Conseguentemente taluno ha ipotizzato che le innovazioni strategiche e pervasive che stanno caratterizzando gli anni a cavallo di questi ultimi due secoli, ed ancor più quelle attese, configurino una "nuova economia" che richiederebbe, per essere interpretata e governata una "nuova teoria".

   

Negli ultimi anni abbiamo assistito al prevalere del deepening rispetto al broadening delle strutture produttive. Il primo termine indica gli effetti di innovazioni strategiche nelle tecnologie di prodotto, processo e materiali. Ne consegue una rapida obsolescenza di stocks e macchinari, ben prima che il loro periodo di ammortamento sia completato. Ne risulta un tasso di crescita minore di quello potenziale perchè gli incrementi di produzione ottenuti con le nuove tecniche sono parzialmente o totalmente compensati dalle perdite per obsolescenza. Il broadening consiste invece nell'aumentare la produzione, accrescendo il numero di macchine e prodotti simili a quelli già esistenti. Questo secondo modello consegue l'equilibrio a prezzi decrescenti rispetto al reddito individuale ed è compatibile con una minore concentrazione dei redditi. Storicamente il broadening prevalse in Europa dal 1814 al 1914 e poi fra il 1950 e il 1980, segnando così l'avvento della società dei consumi di massa. Una forma di deepening che, pur azzerando il valore di alcuni impianti consente di accrescere la produzione è, quasi sempre, l'innovazione di processo. Il prevalere sistematico del deepening, con il paradosso di una crescita lenta in presenza di un intenso influsso innovativo (una vera e propria economia dello spreco) è facilitata dalla presenza di un'alta concentrazione dei redditi, perchè i ricchi privilegiano la qualità e la novità del prodotto rispetto alla sua quantità.

 

La ricerca dell'equilibrio è difficile quando il progresso tecnico è convulso e la globalizzazione non pilotata esaspera la concorrenza sui nuovi prodotti. E' questa la "new economy", nella quale le sconfitte della politica, del sindacato e della giustizia sociale vengono irrise con il motto "è il mercato, bellezza!". Alcuni anni or sono ipotizzai l'esistenza di modelli di sviluppo a circuito multiplo, nei quali il circuito superiore avrebbe presentato alti livelli della tecnica, prodotti innovativi, alti salari di personale qualificato ed elevati profitti e rendite, mentre quello inferiore presentava bassi salari, livelli della tecnica, qualità dei prodotti e dei macchinari, profitti unitari anch'essi bassi, compensati dall'impiego di macchinari obsoleti ma ammortizzati. L'esempio citato era il Brasile di allora. Il circuito inferiore forniva a quello superiore manodopera non qualificata, spesso in nero, e acquisiva prodotti e macchinari prossimi al punto di abbandono. Questi modelli sono compatibili con una forte concentrazione dei redditi; hanno una relativa stabilità economica, ma una potenziale instabilità sociale, controllata da dittature militari o dal potere delle illusioni massmediatiche.

 

Venendo ora alle proposte si può ipotizzare un modello di sviluppo che coniughi la meritocrazia con la solidarietà sociale e che assorba un flusso innovativo compatibile con l'elasticità delle strutture sociali. Ciò non implica un blocco del progresso tecnico, ma un aumento della sua efficacia controllata mediante un'armonica combinazione di broadening e di deepening. Le perdite per obsolescenza si riducono ed i vantaggi si propagano all'intera società con prezzi reali decrescenti e salari crescenti. Questo modello richiede uno Stato forte, ma non oppressivo con un sistema fiscale progressivo che combatta le tendenze alla concentrazione dei redditi. Tale sistema fiscale agisce come pompa idrovora continuamente in funzione ed è, accanto alle liberalizzazioni che attenuano le rendite, un riequilibratore automatico. Questo fisco non "mette le mani nelle tasche degli italiani" ma impedisce che i ricchi mettano le mani nelle tasche dei poveri.

 

Le soluzioni ai problemi della ripresa possono quindi essere individuate senza ricorrere ad una nuova teoria economica, come interpretazione olistica della realtà: teoria attualmente non immaginabile. E' pur vero che alcuni fenomeni intaccano uno o più dei cardini su cui le attuali dottrine si fondano. L'ipotesi del cosiddetto "uomo di Chicago" (perfettamente razionale) non regge alle indagini empiriche. Basti pensare alla non corrispondenza dei risultati elettorali con la stratificazione economica della piramide sociale, alle bolle finanziarie e ai fenomeni di panico in Borsa. Ma la reductio ad unum di questi fenomeni rimane lontana. Le proposte operative restano quindi nell'alveo degli schemi teorici già acquisiti.

 

Queste problematiche e queste soluzioni non sfiorano le menti dei nostri governanti, impegnati nell'ascolto attonito delle ininterrotte e torrenziali conferenze stampa (one-man-show) del presidente del Consiglio e nel bramato ampliamento delle strutture ministeriali. Qualunque proposta di interventi redistributivi viene respinta con altezzosa protervia. L'unico barlume di politica welfaristica efficace è per il momento quella della Cei e della Caritas. Ma sarebbe ben triste se la soluzione si limitasse al passare dal governo dei tanti (oltre 100!) al governo dei santi.

Mercoledì, 6. Maggio 2009
 

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