Una politica industriale per fermare il declino

Idee per un programma / Ormai ci sono tutti gli elementi per comprendere i motivi della nostra sempre peggiore performance. Bisogna però che tutte le componenti del centro sinistra ne prendano atto e che si ricominci a pensare che 'intervento pubblico' non è una bestemmia

Il combinato disposto costituito da un accentuato e diffuso processo di innovazione tecnologica - a sua volta determinato dal progressivo cambiamento dei rapporti storici tra scienza-tecnologia-produzione - e dalla crescente dimensione degli scambi internazionali che, tra l'altro, accentua le interdipendenze economiche internazionali e quindi le quote di produzione interna scambiate sui mercati internazionali, rappresentano le due componenti della attuale distribuzione e ridistribuzione del lavoro sotto la duplice valenza quantitative e qualitativa.  La concomitante presenza di una mobilità finanziaria sregolata accresce una condizione di finanziarizzazione dell'economia internazionale in termini tali da accentuare i fenomeni speculativi in controtendenza e in contrasto con una parallela crescita della qualità della domanda sociale.     

In questo quadro complesso e conflittuale, sembra che - seppur con un ritardo intorno al quale sarà opportuno riflettere - si sia riconosciuto che il declino industriale, ma non solo industriale, del nostro paese sia una questione centrale che investe in maniera diretta il lavoro e le relazioni industriali, ma in termini più generali anche la finanza pubblica e privata, il livello dei diritti sociali, la qualità civile e democratica della nostra società. Un declino che i dati dicono essere diverso e ben più pesante rispetto alle difficoltà che pur esistono anche in molti paesi dell'Unione Europea. Le cause di questa situazione vanno ricercate non in un destino cinico e baro, ma, anche se non esclusivamente, nell'errore, commesso da lustri, di considerare le prospettive di una specializzazione produttiva nei prodotti di consumo finali, nel cosi detto Made in Italy, a contenuto tecnologico medio-basso, come sufficienti per attraversare il percorso degli anni dell'innovazione tecnologica oltre che della apertura dei mercati. Una scelta, oltre a tutto, in chiara controtendenza rispetto ai paesi industrializzati.

Focalizzando ulteriormente l'attenzione sul nostro paese, una seconda questione incomincia ad emergere - anche questa con un incredibile ritardo - e cioè la presa d'atto che la scarsa propensione delle nostre imprese ad investire in ricerca non è la causa di tale specializzazione produttiva ma ne è l'effetto. Infatti a parità di dimensioni e di specializzazione tecnologico-produttiva, le nostre imprese spendono in ricerca sostanzialmente quanto le analoghe imprese dei paesi più avanzati. Il ritardo con cui si è evidenziato questa situazione appare ancora più straordinario, considerato che si tratta non di una questione opinabile, come in qualche misura potrebbe essere la precedente, ma di un dato intuitivamente ragionevole e rilevabile con relativa facilità . Questa seconda considerazione non sembra, tuttavia, ancora maturata al punto da trarne tutte le logiche conseguenze.

La terza considerazione che sembra trovare una crescente condivisione anche nei Sindacati e in Confindustria, conseguente alle due osservazioni precedenti, consiste nel riconoscimento della necessità di un intervento e di un rilancio anche della ricerca pubblica, come strumento essenziale di una politica di recupero tecnologico-competitivo. Si tratta di un atteggiamento nuovo, almeno per quanto riguarda Confindustria che modifica di 180 gradi le precedenti posizioni che avevano contribuito a portare, tra l'altro, ad un crescente grado di crisi il sistema della ricerca pubblica, colpito ripetutamente da riforme "inventate" la cui unica costante era quella della riduzione delle risorse. Questo pur tardivo riconoscimento rappresenta la testimonianza di una condizione di crisi industriale tale da far considerare come necessario anche da Confindustria un intervento pubblico, seppur mirato e funzionale all'obiettivo del cambiamento di specializzazione tecnologico-produttiva. 

E' opportuno fermarsi intanto su queste tre considerazioni ed evitare di entrare nel merito di tanta cattiva letteratura che confonde l'acquisto d'innovazione con l'innovazione, tipico il caso dell'ICT (Information Communication Technology);  l'offerta di lavoro qualificato e formato con una domanda che non c'è, come se questo diverso livello professionale fosse il vincolo alla modificazione della qualità tecnologica della produzione e non il contrario; che si rifugia nel disinteresse per il manifatturiero visto che l'occupazione cresce nei servizi, come se nei servizi non si vivesse di innovazioni originate in gran parte nel settore manifatturiero e come se, conseguentemente, la competitività tecnologica dei nostri servizi non fosse ancora peggiore;  che confonde la libertà della ricerca con le questioni della qualità dello sviluppo; che rinuncia a considerare il cosa e il come produrre definendola una questione di interesse solo dell'impresa; che predica lo sviluppo sostenibile o il non sviluppo senza fare i conti con i processi che consentirebbero di modificarne le caratteristiche insostenibili attuali; o che ritiene la capacità di introdurre nuovi prodotti come il frutto di indefinite capacità  relazionali; ecc., ecc.. 
 
Le tre considerazioni accennate all'inizio avrebbero potuto essere svolte più di dieci-quindici anni fa, quando il declino della nostra competitività e le prospettive di entrata nel mercato comune indussero la più grande svalutazione della lira, nella ipotesi - rivelatasi naturalmente errata - che l'economia reale avrebbe seguito quella finanziaria. Questo errore è proseguito nel tempo, la parola politica industriale divenne un tabù, sino al governo attuale dove le privatizzazioni dirette o indirette traducono quella concezione dello Stato leggero secondo la quale nemmeno il mercato ma il potere personale deve essere reso libero di manifestarsi in ogni campo: privatizzare la salute, la scuola, l'Università, ecc. si può fare anche senza riforme normative; è sufficiente tagliare i fondi, rendere questi servizi pubblici inefficienti e alimentare per questa via il processo di sfiducia nel pubblico, da un lato, e di apertura al privato, dall'altro con un effettivo ed elevato alleggerimento dello Stato, diventato a sua volta non l'espressione della società ma un fardello da eliminare insieme alle relative istituzioni. Là dove questa "cura" risulta difficile - è il caso della giustizia - si ricorre alle leggi ad hoc e alle riforme istituzionali per raggiungere sostanzialmente lo stesso scopo.

Lungo questo percorso ormai i sintomi di degrado alla sudamericana sembrano accrescersi e incominciare ad incidere su una opinione pubblica vanamente martellata dalla propaganda. Tuttavia che questi esiti portino a riconsiderare anche le tentazioni neoliberiste che hanno percorso anche il centrosinistra, è ancora da dimostrare. La richiesta di privatizzazioni di servizi e infrastrutture che oltre a rappresentare beni comuni, molto spesso operano in condizioni di monopolio tecnico e come tali non sono aggredibili dal concetto della concorrenza, sono ancora nel prontuario economico di componenti dell'Unione e di una visione salvifica del privato.  

Nel frattempo la concertazione a livello nazionale ha perso, a vantaggio dell'UE,  alcune aree di potenziale manovra dei governi nazionali. Tuttavia l'UE, a sua volta, non ha ancora ricreato a questo livello strumenti alternativi. La recente modifica del Trattato di Maastricht si è mossa in senso meno liberista e ha richiamato l'agenda di Lisbona,  cioè una politica di sviluppo qualificato, rimasta tuttavia priva di vincoli o incentivi. Le modifiche del Trattato sono, dunque, ancora molto parziali e incerte e non recuperano certamente la visione integrata e avanzata di un Delors.  In termini di politica economica l'UE  appare ancora lontana dall'aver superato quella visione.liberista e le politiche industriali restano in grande misura.- con l'esclusione dei limiti alle sovvenzioni e delle regole della concorrenza - di competenza dei singoli Stati. L'UE  si trova, inoltre, a fare i conti con una Costituzione i cui limiti sono diffusamente riconosciuti anche dai sostenitori della sua approvazione.
 
Quale vorrebbe essere l'impiego di queste nuove potenziali risorse messe a disposizione di una interpretazione flessibile del Patto, per quanto riguarda l'attuale  capo del governo italiano è ormai chiaro: dovrebbero essere assorbite dalla nuova manovra di riduzione delle tasse. Che poi si affermi che gli eventuali sforamenti siano da attribuire a politiche di sviluppo basate su incentivi alle imprese di varia natura, compresi quelli per la ricerca, o simili, rientra nel gioco delle tre carte la cui specializzazione è ampiamente riconosciuta.

Su questo piano occorre considerare che si tratterà non solo di una coerente quanto brutale politica ultraliberista ma di un impegno per consegnare a chi seguirà - sapendo che saranno altri - una condizione di ingovernabilità economica e sociale del paese, a meno di non ricorrere a quel premierato forte che il centrodestra si sta preparando. Le elezioni regionali hanno dato un colpo a questa strategia, un colpo forse decisivo, ma tuttavia i guasti già arrecati non cambiano di molto questo scenario.  E' di tutta evidenza che il centrosinistra dovrà uscire da questa trappola e riportare il paese in un alveo di riforme dove la ricostruzione morale, civile, sociale ed economica diventa un insieme sempre più intrecciato e, come tale affrontabile solo con interventi strutturali e sostanziosi.

In materia economica il centrosinistra ha alcuni mesi per verificare e far verificare ai cittadini gli effetti di sei miliardi di euro non incassati per favorire il rilancio economico dei più ricchi. Ma occorrerà una lettura della realtà meno approssimata di quella che, ad esempio, ha accompagnato il dato sulla disoccupazione del 2004, ridottasi di circa mezzo punto rispetto al 2003. Il centrosinistra ha messo in evidenza come quel dato si sia  accompagnato ad un aumento delle persone che hanno abbandonato anche l'illusione di presentarsi sul mercato del lavoro.

Osservazione corretta, ma che andava rafforzata dal dato relativo all'andamento di questa riduzione della disoccupazione, in tendenziale appiattimento negli anni di Berlusconi e rimasta ferma ormai sin dal secondo trimestre del 2004. Si vanno esaurendo gli effetti delle acrobazie statistico-contabili per cui anche un precario che lavori un'ora alla settimana è comunque un occupato e dopo che l'emersione dei lavoratori extracomunitari ha ingrossato il numero formale, ma non sostanziale, degli occupati. Ormai il declino economico incomincia a evidenziare il superamento di quella apparente contraddizione tra scarsa o nulla crescita e diminuzione della disoccupazione. Si conferma, invece, il dato fondamentale relativo al tasso di occupazione che resta tra i più bassi in Europa e, tuttavia, in diminuzione, con le ben note punte negative nel Mezzogiorno.

Occorrerà, quindi, mettere i cittadini di fronte ad una scelta tra una  riforma fiscale che consideri tutti i redditi - comprese le rendite -  con una distribuzione più equa dei carichi ma con entrate complessive per alcuni anni difficilmente riducibili in termini indifferenziati, o la conservazione di una lettura ultraliberista della società civile ed economica con tutte quelle conseguenti tensioni, conflittualità e crescenti condizione di insicurezza e di esclusione sociale che accompagnano un processo di declino.  Se non ci sarà chiarezza su questa questione, sarà difficile impostare con una qualche coerenza un progetto/programma di risanamento del Paese e tanto meno una politica economico-sociale di stampo da centrosinistra, compreso tra l'altro una politica che avvii il recupero della nostra competitività, dell'occupazione, in particolare di quella "buona" occupazione di cui si vagheggia.    

E' in questo nuovo e difficilissimo quadro che le tre considerazioni iniziali devono trovare una interpretazione e una logica per potersi tradurre in un progetto/programma di politica economico-sociale.  Operazione che sembra ancora non solo tutta da sviluppare ma obiettivamente complessa, sia per l'entità dei ritardi indicati, ma anche perché gli esiti positivi di una riconversione tecnologica vanno attesi in un periodo medio lungo, in evidente contrasto con l'urgenza grave della situazione. Questo è uno dei prezzi da pagare per quei ritardi e quegli errori di politica economica accennati all'inizio. Occorrerà dunque elaborare anche una politica complementare ma coerente con esiti di  breve periodo. Qui, senza entrare nel merito,  ci si limita a evidenziare come anche in questo caso sia ancora in buona misura la finanza pubblica a dover provvedere; quella finanza pubblica già gravata dagli oneri del debito ed ora anche devastata dall'attuale governo.

Vediamo intanto di incominciare a declinare le tre considerazioni iniziali come condizione preliminare per definire quel programma/progetto dell'Unione per il governo dello sviluppo del Paese sul fronte delle politiche industriali.

La prima considerazione -  quella relativa al cambiamento di specializzazione produttivo-tecnologico -  ci dice che un tale obiettivo non è facilmente raggiungibile con degli incentivi alle imprese, tanto più se questi incentivi devono rispettare i limiti dei vincoli comunitari.  Si possono con questi strumenti e insieme ad interventi per la crescita dimensionale delle imprese, produrre delle modificazioni incrementali, spostare la qualità delle produzioni, ma non cambiarne la natura. Per obiettivi di questa portata occorrono capacità di analisi delle prospettive di mercato, della strutture concorrenziali a livello internazionale cui far corrispondere progetti e aggregazioni di attori specifici, occorrono mezzi finanziari e competenze scientifico-tecnologiche calcolati in termini non sottocritici e le cui dimensioni sono mediamente di livello nazionale. Occorrono, quindi anche scelte che implicano capacità di interpretare la qualità dello sviluppo, i problemi del lavoro, che devono diventare oggetto di una nuova programmazione e di una nuova concertazione. Una concertazione che perché abbia un senso si deve basare, a sua volta, su  analisi e su studi di fattibilità delle varie scelte che costituiscono di per sé una questione tutta da organizzare. 

La seconda considerazione - quella relativa alla spesa in ricerca delle imprese  -  va analizzata sotto varie ottiche. L'ottica delle imprese dice che occorre che il costo della ricerca in Italia sia competitivo con quello che si realizza negli altri paesi e che tali incentivi devono essere certi anche per un tempo non breve per consentire la programmazione degli impegni delle imprese. Si tratta, se espresso in questi termini, di un punto di vista difficilmente confutabile. Attualmente è soddisfatta la prima condizione e cioè un'entità dei trasferimenti superiore alla media europea. Non altrettanto si può dire per la certezza dei finanziamenti, per la tempistica e per le procedure. Ma c'è l'ottica dell'interesse pubblico che dice che questi trasferimenti finanziari per agevolare la spesa in ricerca delle imprese sono accettabili se effettivamente servono a questo scopo, se cioè sono aggiuntivi e non sostituivi del finanziamento privato, se vanno effettivamente a chi fa ricerca e non vengono incorporati nei bilanci finanziari come una qualsiasi altra risorsa finanziaria. E anche questo punto di vista appare difficilmente confutabile.

C'è poi una considerazione generale che riguarda il fatto che la competitività tecnologica non ha una valenza assoluta ma è relativa a quanto avviene nei paesi con i quali occorre competere. Se questi hanno una spesa in ricerca delle imprese che è tre volte quella delle imprese italiane, la semplice agevolazione negli stessi termini determina, in effetti, un progressivo arretramento del sistema della ricerca privata e, se questa spesa è in qualche misura un fattore di innovazione tecnologica, un progressivo peggioramento di quelle condizioni competitive che si vorrebbero correggere.

Per quanto riguarda le risposte da dare in materia di trasferimenti finanziari pubblici per le spese in ricerca da parte delle imprese, le ricette adottate dai vari paesi sono varie. Nel complesso se si vuole evitare di entrare in contenziosi, oggettivamente molto ampi, su cosa è o non è ricerca e se s'intende premiare chi effettivamente fa ricerca senza dover mettere in piedi un incerto, oneroso e pressoché impossibile  sistema di corretta valutazione, gli strumenti non sono molti. Tra questi, a parità naturalmente dell' entità complessiva dei trasferimenti, due appaiono quelli più agevolmente automatici e corretti: la riduzione della spesa  per il personale ricercatore riconosciuto come tale contrattualmente, con un premio significativo per l'aumento delle assunzioni a tempo pieno di questo tipo di personale, e i contributi ai contratti attribuiti dalle imprese alle Università e agli enti pubblici di ricerca.
 
Per quanto riguarda l'osservazione generale e cioè che anche in caso di una corretta, programmabile  e significativa agevolazione della spesa in ricerca da parte delle imprese, il sistema competitivo non solo non migliorerebbe ma potrebbe incappare in un ulteriore progressivo peggioramento relativo, le ipotesi di risposta si spostano affrontando il terzo tema indicato e cioè quello relativo alla necessaria chiamata in causa del sistema della ricerca pubblica: il patrimonio di strutture, competenze, e risorse umane in materia di ricerca del nostro sistema produttivo, pur con tutti gli incentivi possibili, non è in grado da solo di affrontare il problema.

Per la verità anche paesi ben più avanzati ed attrezzati del nostro inseriscono nel "sistema nazionale d'innovazione tecnologica" la componente della ricerca pubblica come un elemento spesso centrale di questo sistema. Nel caso del nostro paese, tuttavia, la scarsità strutturale della componente privata non implica solo la necessità di integrare competenze e conoscenze scientifico-tecnologico pubbliche, ma comporta anche la correzione di un potenziale privato di  spesa insufficiente, altrimenti impossibile anche in relazione ai vincoli comunitari.

Un'ultima questione può apparire scoperta rispetto a questo percorso e cioè la sorte di quella componente economico-produttiva fatta di una miriade di piccole imprese e di settori operanti sul fronte della medio-bassa tecnologia, in particolare nei comparti dei beni di consumo. Si tratta, come è noto, della base della nostra occupazione e del nostro sistema industriale. L'ipotesi che si possa produrre una meccanica sostituzione, coerente nei tempi, di questa struttura industriale con un sistema più avanzato, non può essere intesa come un esercizio di rigore geometrico da tavolino, ancorché condotta su basi concertate e di ampia partecipazione.

Occorre, quindi accompagnare anche questo attuale sistema verso aree produttive, probabilmente più ristrette dal punto di vista quantitativo,  tali da occupare fasce di domanda pur esistenti e resistenti anche nel tempo ma, comunque, necessitanti di trasformazioni tecnologiche, strutturali e di governance. I nostri distretti industriali se vengono aiutati in queste trasformazioni possono permanere, non più giocando solo sui tradizionali fattori  delle economie locali ma su un piano che deve integrare questi fattori con le nuove dimensioni dei mercati e dell'innovazione tecnologica, una condizione quest'ultima che chiama in causa una molteplicità di settori manifatturieri e di servizi in un percorso di ricostruzione verticale della filiera tecnologica-competitiva.

Questa dimensione in qualche misura territoriale del sistema Ricerca-Innovazione-Sviluppo si incrocia con le recenti responsabilità acquisite dalle Regioni in questa materia. Come spesso accade per le riforme, si aprono rischi e opportunità. Le opportunità stanno nella possibilità di calibrare interventi  maggiormente coerenti con le situazioni reali e con il territorio. I rischi, per ora prevalenti, stanno in una situazione di capacità regionali specifiche ovviamente carenti sotto vari profili ma comunque tali da accrescere i divari già esistenti, oltre al rischio di disperdere risorse umane e finanziarie verso obiettivi ardui anche se affrontati a livello nazionale. Questione quest'ultima che si aggrava per l'assenza di una concertazione a livello, appunto, nazionale. Un'assenza che, tra l'altro, esclude, se non per comportamenti volontaristici a loro volta molto limitati dato lo stato delle risorse finanziarie disponibili., la componente della ricerca pubblica senza la quale, come si è visto, le sfide della competitività tecnologica appaiono ancora più ardue. Il recente accordo tra organizzazioni sindacali, Confindustria e Regioni dovrà districarsi, quindi, lungo un percorso ad ostacoli. Rimuoverli offrendo una sponda progettuale e programmatica a livello nazionale dovrà essere un compito del nuovo governo.  

Se su questi punti si potesse verificare un consenso diffuso, si potrebbe sostenere di aver posto la giuste premesse per dare concretezza alla politica industriale e di sviluppo qualificato del Paese. Riconoscere i fallimenti del mercato e l'esistenza di una necessaria area d'intervento pubblico in questo campo è la considerazione che dovrebbe essere resa comune in tutto l'arco del centrosinistra. Naturalmente i passi ancora da compiere, pur in questa ipotesi, sono ancora molti e per vari aspetti anche delicati.  Ma per evitare anche questi primi passaggi "logici" occorre proporre una diversa analisi del nostro declino e un diverso ragionamento "terapeutico" , che ad oggi, per la verità, non sembrano emergere, se non sul terreno della crisi della domanda che sarebbe, tuttavia, sbagliato, nella attuale situazione, contrapporre in termini alternativi alla crisi dell'offerta. E' all'interno di quella scelta di politiche pubbliche che caso mai si dovrebbe riaprire un dibatto.   
 

Venerdì, 15. Aprile 2005
 

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