All'inizio degli anni '80 la "liberista ideologica" Margareth Thatcher diede il via a quel processo di privatizzazioni e liberalizzazioni dei servizi pubblici che si serebbe in breve esteso a tutti i paesi avanzati. Il primo passo fu fatto nel settore telefonico. Anche l'America di Ronald Reagan, subito dopo, si occupava dello stesso settore, in questo caso dal punto di vista dell'antitrust (si ricorderà la divisione della ATT in sette "Baby Bells").
Un aspetto fondamentale in entrambi i processi fu di sottoporre il settore alla vigilanza di Authority molto severe (l'Oftel in Inghliterra e la Fcc negli Usa) con il compito di controllare la concorrenza, la qualità del servizio e le tariffe praticate.
Il liberismo inglese e americano può piacere o no e può anche meritare critiche, ma bisogna rioconoscere che ha una differenza non da poco rispetto al liberismo come viene propugnato in Italia. Lì si ritiene che le conseguenze economiche di privatizzazioni e liberalizzazioni non debbano avvantaggiare solo le aziende, ma anche i cittadini fruitori di quei servizi.
Abbiamo fatto questa breve premessa perché sembra utile un confronto con quanto è avvenuto, invece, nel settore bancario italiano.
Anche in questo caso siamo di fronte ad un processo di privatizzazione di portata storica. Ancora all'inizio degli anni'90 il sistema bancario italiano aveva per oltre il 90% strutture proprietarie (e societarie) di vario tipo, ma comunque ascrivibili all'area pubblica. La prima privatizzazione, è bene ricordarlo, fu quella del Credito Italiano, lanciata sotto la spinta dell'urgenza in piena crisi finanziaria, nel settembre '92, nell'ambito della manovra di finanza pubblica da 92.000 miliardi di lire (quasi il 5% del Pil) del governo Amato, che evitò all'Italia il concreto pericolo di default.
Oggi tutte le banche sono società per azioni, la presenza della proprietà pubblica è residuale e anche quando gli azionisti di riferimento sono le Fondazioni le si può senz'altro considerare facenti parte del settore privato, anche perché nel mondo del credito sono cambiate quasi tutte le regole, sia interne che internazionali.
Ma che cosa hanno guadagnato i clienti-utenti, in tutto questo? Niente, anzi, per loro il processo si è tradotto in una perdita secca. Il costo dei servizi bancari, rispetto a 15 anni fa, si è incredibilmente impennato, nonostante la quantità e la ricchezza di nuovi - e cari - prodotti che hanno certamente allargato il mercato.
Il credito e i telefoni sono la stessa cosa? Sì e no. Non tutte le attività che fanno capo alle banche possono essere considerate nell'ambito dei servizi indispensabili. Ma oggi non si può fare a meno di avere un conto corrente, come non si può non avere il telefono. Anche se privatizzato, non sembra dubbio che si tratti di un servizio pubblico.
I liberisti "fondamentalisti" inglesi e americani non ebbero indecisioni nel creare un sistema di controllo delle tariffe. In entrambi i paesi le Authority hanno applicato severamente il price cap: le tariffe non potevano aumentare più dell'inflazione, e da questa andava detratta una quota dei guadagni di produttività. E' interessante ricordare che negli Usa, in un primo momento, il calcolo del price cap doveva tener conto anche degli investimenti che l'azienda riteneva necessari per garantire lo sviluppo e la qualità del servizio (è questo, per inciso, anche il metodo adottato in Italia per la Telecom). Dopo qualche anno di sperimentazione questo metodo fu abbandonato in base al seguente ragionamento: 1) il controllore rischiava di divenire "prigioniero" del controllato, da cui dipendeva per la conoscenza dei dati necessari a valutare la nuova tariffa; oppure, 2) il controllore avrebbe dovuto avere una capacità autonoma di conoscenza e valutazione dei dati, ma questo avrebbe comportato costi di struttura tanto alti da rendere antieconomico il procedimento. La conclusione fu l'adozione di un price cap "secco", ai fini del quale gli investimenti non dovevano essere considerati diversamente dagli altri costi.
Le banche italiane hanno da alcuni anni sposato la filosofia del "creare valore per gli azionisti" e si danno ogni anno obiettivi di incremento del Roe (cioè della reddititvità), il che è giustissimo nell'ambito delle finalità di un'impresa privata. Non bisogna certo sottovalutare il ruolo dei recuperi di efficienza, ma sta di fatto che l'attività di tipo retail costituisce una parte rilevante, e spesso preponderante, tanto del fatturato quanto - soprattutto - dei profitti delle banche, ed è un po' troppo facile aumentare il Roe solo facendo pagare più cara la tenuta dei conti correnti. Un servizio, tra l'altro, i cui costi, con l'informatizzazione, sono certamente crollati e che non ha nemmeno la giustificazione di un valore aggiunto come può essere, per esempio, la gestione degli investimenti.
Antitrust e Banca d'Italia hanno entrambi annunciato di avere in corso indagini su questa materia. Bene, anche se il meno che si può dire è che avrebbero potuto essere più tempestivi. Di cose da verificare ce ne sono, come quella, che l'Antitrust ha finalmente messo sotto osservazione, dei costi di trasferimento dei titoli da una banca all'altra: per le banche sono prossimi allo zero, agli utenti vengono chiesti fino a 100 euro per ogni titolo! Un chiaro ostacolo, molto scorretto, alla libertà di cambiare banca, e quindi alla concorrenza.
Non sarebbe male, comunque, che si cominciasse ad applicare il price cap anche al costo dei conti correnti, naturalmente dopo che le indagini in corso si saranno concluse, si spera, con un perentorio invito a ridurre i costi attuali. Il prodotto-tipo sarebbe già quasi pronto. Nell'ambito dell'iniziativa "Patti chiari" proposta dall'Abi, è già previsto un conto corrente con tutte le funzioni di base che si dichiara avere un costo contenuto. Non tutte le funzioni di base, in realtà: questi conti non danno diritto all'emissione di assegni. Basterebbe aggiungere quello, obbligare tutte le banche ad offrire questo prodotto e applicargli il price cap, che potrebbe essere gestito dalla Banca d'Italia.
L'iniziativa lederebbe la concorrenza? No, sia perché ogni banca sarebbe libera anche di non farlo pagare affatto, sia perché la concorrenza ha tutte le possibilità di dispiegarsi sul servizio complessivo, che non si riduce certo al conto corrente.
E' ancora in discussione (da oltre un anno!) la legge per la protezione del risparmio. Si farebbe in tempo ad inserirvi anche l'istituzione del price cap.