Un paese che avanza a tentoni

La vittoria di Biden ha ridato fiato a tesi secondo cui si vince al centro, o che ora la fida è al populismo di sinistra, entrambe sbagliate: si dimentica che l’appoggio di Sanders, che il candidato ha cercato, è stato decisivo. Ma una nuova offerta politica di sinistra in Italia ancora non si vede, e questo governo, che pure alcune cose buone le ha fatte, appare debole, disorientato e sempre in bilico

Donald Trump ha perso le elezioni ma è certo che i suoi elettori, più numerosi di 4 anni fa, saranno a lungo una spina nel fianco. La domanda da porsi, ora, è chi ha vinto con Biden. Quale America, quale Europa, quale ipotesi di futuro per quello che si ostina a definirsi “mondo libero”. Tanto più in quanto non si può ridurre tutto a una competizione tra sovranismo e liberismo: il mondo è ben più ampio e il panorama più articolato, ma, soprattutto, quei due paradigmi si stanno mostrando entrambi incapaci di interpretare le sfide del presente e di offrire una qualche ipotesi di prospettiva.   

Per questo non hanno molto senso le letture per cui (vedi Tony Blair) sconfitto Trump, ora la sfida è al populismo di sinistra, né quelle (di moda dalle nostre parti) per cui Biden dimostra che si vince al centro. Tra l’altro, a differenza della Clinton che, per vincere al centro, ha voluto marcare le distanze a sinistra condannandosi a una sconfitta che sembrava impensabile, Biden ha mostrato molta più apertura verso la sinistra di Sanders (cui ha anche offerto il Lavoro). Il problema è che, sesovranismo e neoliberismo non offrono una soluzione, l’alternativa ancora non si vede: c’è bisogno di una nuova offerta politica a sinistra, socialista e ecologista. È in cantiere, in giro per il mondo, lungo due direttrici: aggregare attorno a una nuova cultura all’interno delle formazioni storiche, fin qui attratte dal liberismo, o dar vita a formazioni alternative (ancora in uno stadio embrionale).

La situazione italiana, in questo quadro, è più arretrata: non ci sono atti concreti nella prima direzione e più a sinistra la dispersione è ancora più accentuata, un magma confuso, condannato all’inconcludenza. Ed è più grave perché oltre a uno scarso contributo di elaborazione, c’è anche una perdita di memoria circa il nostro passato. Mentre nel resto del mondo a sinistra si riparte, oltre che da Marx, da Gramsci, noi ne dimentichiamo la lezione, quanto sia importante ricostruire la storia nazionale per comprendere le dinamiche della società in cui si agisce. Vivendo in un eterno presente, rimuovendo il passato (anche il più recente), non possiamo avere alcuna visione del futuro. Facciamo anzi fatica a cogliere quanto pesi, all’origine delle nostre particolarità, il portato di una storia recente in cui le libertà fondamentali dei cittadini sono state fortemente condizionate.

Siamo usciti dal mondo bipolare della guerra fredda salutando la fine del fattore K, dell’impossibilità di un’alternativa, ma abbiamo rimosso il lato oscuro, l’inquinamento della vita pubblica che quella condizione aveva indotto. E tra le conseguenze più gravi di questa rimozione c’è stato il venir meno della consapevolezza di come stava cambiando il rapporto dei cittadini con la politica. Abbiamo registrato che gran parte dei cittadini (ormai più della metà) si allontanavano dalla politica lasciando che chi era al potere spacciasse l’istanza di cambiamento che esprimevano per rifiuto della politica. Senza accorgerci che aveva abbandonato a sé stessa la parte che della politica aveva più bisogno.

In questa rimozione collettiva è diventato perfino difficile stupirsi di eventi la cui assurdità finiamo per non vedere. Come il fatto di ritrovarci con un governo frutto di una doppia eterogenesi dei fini. La prima quando, dopo una manovra orchestrata per impedire qualunque soluzione diversa dalla grande ammucchiata al centro, è stato affidato un ruolo determinante al leader della forza più estremista ed eversiva dell’arco parlamentare. Poi quando, collassato quel governo dopo meno di un anno per una smargiassata di quel leader impresentabile, si è arrivati all’attuale. Nato da un’altra manovra, ordita nell’intento di scongiurare il voto dando vita una coalizione in fragile equilibrio, affidata a un Presidente del Consiglio privo di credenziali politiche solide e perciò condizionabile, ha invece guadagnato consensi inaspettati nel Paese, in particolare tra i cittadini più lontani dalla politica degli ultimi anni, grazie a circostanze, interne e internazionali, in cui un evento naturale che sfuggiva al controllo della politica dominante, come la pandemia, ha avuto un peso decisivo. Ora, chi è stato al centro di entrambe le manovre (non si sa se in proprio o per conto terzi) ne sta tentando una terza. C’è un lato comico, in queste trame ripetute e nel loro naufragio. Ma fino a quando? A che prezzo?

Guardiamo allora più da vicino all’attualità e alle sue incognite.A questo governo credo si possano attribuire quattro punti di merito. 1) Aver salvaguardato il reddito di cittadinanza, mostrando anzi l’intento di migliorarlo quanto ai limiti, irragionevoli, all’accesso e alla mancanza di interventi radicali sul sistema dei servizi regionali per il lavoro (tra i più inefficienti al mondo). 2) Aver tenuto fermo il rifiuto di accedere a linee di prestito escogitate da una UE nel pieno del delirio neoliberista e aver giocato una partita un po’ più ambiziosa con BCE e Commissione. 3) Aver tenuto fuori dal circuito della spesa pubblica (almeno quella statale, poco potendo per quella decentrata) il coagulo di interessi che negli ultimi venti anni ha drenato migliaia di miliardi dalle casse dello Stato e ora annusa l’occasione di un’emergenza planetaria che richiede risorse (e procedure) eccezionali. 4) Avere abbandonato il dogma alla base delle privatizzazioni (il privato è più efficiente dello Stato) riaprendo una serie di dossier, impantanati nella gestione di governi compiacenti verso i privati, non chiudendoli ancora ma reimpostandoli, con il pubblico in un ruolo determinante.

Non è poco. Eppure, non si sfugge a un senso di desolazione, perché questo governo, non rispondendo alla logica (deforme) della politica nostrana, è sempre in bilico. Abusivo, in effetti, perché l’eterogenesi è uno stravolgimento dei fini. Basti pensare che non uno dei quattro punti fa parte dell’armamentario programmatico che il PD si è dato da molti anni a questa parte (ben prima della gestione Renzi). E che i Cinquestelle, che pure su quei punti hanno tenuto, non sono una soluzione, non tanto perché hanno perso metà dei consensi, ma per le ragioni per cui li hanno persi: la mancanza di un retroterra politico e culturale solido, l’eclettismo e l’agnosticismo ideologico a cui si ispirano. Cosicché, se non sfociano nel centrismo, nel migliore dei casi si limitano alla riduzione del danno.

Per i problemi che il paese (per non dire il mondo) ha di fronte, non basta tener duro su quello che c’è, ma occorrono discontinuità forti, senza temporeggiare in attesa di tempi migliori. Pensiamo alla sanità, su cui si deve tornare a investire (45 miliardi nei prossimi 5 anni, non i 9 che si prospettano) per rivoluzionarne l’assetto e gli indirizzi: centralità del pubblico, prevenzione, territorio, ma anche assunzione di responsabilità dello Stato, chiamato a determinare “i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, nonché “i principi fondamentali”. All’emergenza ambientale su cui la vera prova del nove sarà l’abrogazione dei sussidi ambientalmente dannosi, la tassazione delle emissioni nocive, la messa al bando della plastica monouso, il blocco delle grandi opere inutili. Mentre sullo sfondo c’è la questione della mole di risorse da investire in tempi brevi che sono una scommessa sul futuro ma anche un prelievo che rischia di ipotecarlo, a spese delle nuove generazioni. Il che significa che sarà necessaria una massiccia creazione di nuova occupazione (di ogni euro speso si deve evidenziare la ricaduta occupazionale), contrastando ogni forma di speculazione (le mafie oltretutto sono in agguato), estendendo l’area dei beni comuni a partire dalla imminente campagna di vaccinazione. E che si dovrà intervenire in profondità sulla struttura del prelievo fiscale tornando alla progressività e alla tassazione dei patrimoni (e delle successioni) di maggiore entità, assumendo un’iniziativa a livello internazionale per i risvolti che travalicano l’ambito nazionale.

Resta il tema di una non più rinviabile inversione di rotta nel rapporto tra cittadini e politica. Primo passo, l’introduzione di una legge elettorale che sottragga ai partiti il potere di condizionare le scelte degli elettori. Su questo l’iniziativa è ferma, nell’indifferenza dei cittadini, ormai mitridatizzati. L’unica proposta in campo, pur priva dei consensi necessari, è la riproposizione sotto mentite spoglie del sistema attuale. È evidente che limitare i collegi ai soli plurinominali abolendo gli uninominali, confermare le candidature multiple e il no alle preferenze e, in più, innalzare la soglia dal 3% al 5%, non solo non cambia l’effetto maggioritario ma lo amplia, accentuando la stretta sul diritto di tribuna per le formazioni minori. Aggiungiamo che limitarsi ad abbassare la soglia (al 4%? al 3%?) non cambia la sostanza ma lascia solo a qualche altro mini-apparato la possibilità di tentare l’avventura. E che riesumare le coalizioni ci riporterebbe al Rosatellum, con un ulteriore calo (sotto il 50%) dei votanti.

Come cambiare? Non serve una bacchetta magica: basterebbe tornare a parlare agli elettori di qualcosa che, almeno quelli dai 30-35 anni in su, potrebbero ricordare. Peraltro, con un nome (il Mattarellum) che anche ai più giovani può suonare familiare. Con una quota proporzionale del 25% alla Camera si garantirebbe un diritto di tribuna perfino a formazioni al disotto dell’1% (garantendo un deputato su 400, ma la tribuna è questo e non altro). E ci si potrebbe spingere oltre con appena qualche ritocco, come l’abolizione dello scorporo del proporzionale e l’introduzione di un doppio turno nei collegi dove non si raggiunga il 50% al primo turno. Semplice, lineare, comprensibile, tale da restituire ai cittadini un potere di scelta oggi negato.

Ben vengano obiezioni e contributi, se questi spunti potessero servire a riportare l’attenzione sul tema. Che rappresenta un passaggio ineludibile per tornare a credere nella politica, e ha il valore di una scelta decisiva, davanti a un bivio fondamentale per il futuro del nostro paese.  

 

(*) Una versione più estesa di questo contributo si può trovare qui:

https://www.blog.demosfera.com/2020/11/30/13937/

Lunedì, 21. Dicembre 2020
 

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