Un deus ex machina per l’eurozona

La Banca del Giappone ha appena deciso acquisti di titoli di Stato per il 16% del Pil. Se lo facesse anche la Bce la crisi finirebbe, ma non può: anche se volesse l’opposizione politica non lo consentirebbe. Ma proprio sul fronte politico il 2015 può riservare sorprese

Ogni volta che l’allarme cresce nell’eurozona, torna a salire l’invocazione di un deus ex machina, che è poi sempre Mario Draghi, presidente della Bce.

La situazione economica non potrebbe essere peggiore. Sei anni dopo l’inizio della crisi, l’eurozona, per insipienza politica o per una perversa scelta ideologica, lungi dal risolverla, tende ad approfondirla (Paladini). Gli storici troveranno materia per indagare il processo politico che paralizza il cuore dell’Europa, e non potranno non rimanerne stupiti.

L’aspetto più inquietante è l’ostinata persistenza delle politiche che hanno già dimostrato il loro fallimento. Di fronte a questa situazione si ripete con crescente frequenza l’appello al grande sacerdote di Francoforte che controlla le chiavi della politica monetaria.

L’appello ha un senso, se si considera il ruolo fondamentale che ha svolto in America la Federal Reserve. Ora, mentre questa si accinge a dichiarare conclusa la sua missione, è la Banca centrale giapponese a decidere una vasta manovra shock per portare il Giappone fuori dalla crisi. E’ molto probabile che proprio le clamorose decisioni della Banca giapponese abbiano rilanciato l’attenzione sulla Banca centrale europea, e rafforzato la determinazione di Mario Draghi di tornare a intervenire con misure “non convenzionali” per scongiurare il rischio incombente di una lunga e distruttiva deflazione.

In ogni caso, l’esempio giapponese, ipoteticamente applicato all’eurozona mette in gioco non solo gli strumenti tipici della politica monetaria, ma lo stesso paradigma politico che governa l’eurozona.

Proviamo a vedere più da vicino di che si tratta.

La Banca centrale giapponese, come ricorda Martin Wolf (Financial Times, 5/11/14), ha deciso di acquistare titoli del debito pubblico in una misura equivalente al 16 per cento del PIL. Per dare un significato concreto a questa decisone, possiamo dire che per paesi come l'Italia e la Francia, un’analoga misura da parte della Bce equivarrebbe all’acquisto annuo di titoli di Stato nell’ordine di 250 miliardi euro. Poiché, assumendo l’esempio della Banca centrale giapponese si tratterebbe di titoli con una maturità a lungo termine di 7/10 anni, e con tassi d’interesse nominali prossimi allo zero e tassi reali negativi, saremmo di fronte al progressivo consolidamento di una parte molto rilevante del debito, sostanzialmente affrancato dall’onere degli interessi.

I paesi dell’eurozona in difficoltà, da un lato, si gioverebbero di un ridotto ricorso al mercato per il rinnovo del debito pregresso, beneficiando di una riduzione dei tassi; dall’altro, potrebbero impiegare una parte delle risorse rese disponibili dalla Banca centrale per una massiccia operazione di rilancio della crescita e dell’occupazione.

La realizzazione di un insieme di investimenti pubblici infrastrutturali contribuirebbe a mobilitare una massa di investimenti privati, oggi paralizzati dalla recessione, e genererebbe un immediato ritorno in termini di occupazione, di aumento del reddito delle famiglie e dei consumi, spezzando il perverso circolo vizioso che combina bassa (o nessuna) crescita con l’aumento del rapporto debito/PIL.

Non si tratta di fantasie estemporanee. La massiccia e prolungata manovra monetaria con la liberazione di enormi risorse per il bilancio ha consentito agli Stati Uniti di ricondurre il Pil al disopra del livello antecedente alla crisi, e di ridurre la disoccupazione al di sotto del 6 per cento.

Può l’eurozona contare su una politica analoga? In linea  di principio, non si vede perché no. Il punto è che per essere praticabile questa politica dovrebbe superare due ostacoli. Il primo è l’opposizione della Germania a manovre della Bce non più puramente difensive - come quelle adottate per salvare l’euro da un incombente collasso - ma esplicitamente dirette all’espansione dei bilanci statali per consentire l’aumento degli investimenti pubblici, ormai unico strumento efficace di contrasto alla catastrofica combinazione di recessione e deflazione.

Il secondo ostacolo non riguarda il contrasto sulle scelte di politica monetaria, ma la decisione, squisitamente politica, di accantonamento del Fiscal compact, che impone una marcia forzata verso il pareggio strutturale del bilancio e un drastico abbattimento del debito, in un quadro di bassa crescita, quando non di recessione, che rende inattuabili questi obiettivi privi di senso.

Dunque, il ricorso al grande sacerdote di Francoforte è il segno della disperazione e insieme della speranza in un cambiamento che liberi l’eurozona dal rischio di un lento suicidio.

Ma il problema può trovare a Francoforte solo un avvio di soluzione. In ultima analisi, la via d’uscita, bloccata da Berlino, dipende dalla capacità di rovesciare l’attuale politica, mostrandone  a chiare lettere l’inconsistenza. Ma uno sguardo disincantato ai governi dell’eurozona e, in primo luogo, ai governi di Hollande e di Renzi, alla testa dei due paesi più rilevanti dell’eurozona dopo la Germania, ci mostra che l’assoluta, razionalmente incomprensibile a autodistruttiva subalternità all’egemonia di Berlino ci allontana da ogni possibile via d’uscita.

E’ anche vero, tuttavia, che la crisi ha logorato i vecchi equilibri politici come mostrano le tendenze elettorali in molti paesi, dalla Francia alla spagna e alla Grecia (oltre che alla Gran Bretagna). Mentre in Italia dopo la breve quanto intensa luna di miele di Matteo Renzi, il sindacato è uscito da un lungo sonno puntando alla riunificazione di un movimento che la crisi economica e il disorientamento politico hanno contribuito a frammentare. In questo quadro, non è fuori luogo immaginare che il 2015 dell’eurozona sia destinato a riservarci molte sorprese.

Giovedì, 13. Novembre 2014
 

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