Un brutto inizio per il congresso del Pd

Si contrappongono formule (per esempio, “il segretario diverso o no dal premier”?), ma senza discuterle e argomentarle. Sui problemi sollevati da Fabrizio Barca (la necessità di stabilire una chiara divisione di ruoli tra partito e istituzioni) è sceso il silenzio; non c’è dibattito sulla forma del partito

A giudicare da quello di cui si sta discutendo in questi giorni, e da quello di cui si tace, comincia sotto pessimi auspici il congresso del Pd.

 

Si discute molto del ruolo di Renzi. Per scoprire, come se fosse una novità, che nutre l’ambizione di guidare il governo del Paese. O per avanzare il sospetto che, dopo aver fatto fuoco e fiamme per contrapporsi al segretario del partito, con tanto di deroga allo statuto, nelle primarie di coalizione, ora pensi di tornare alla figura unica.

 

La questione che pone Renzi è diversa. La pone attraverso la stampa tedesca e evita di argomentarla, come è nel suo stile. Ma i suoi interlocutori si guardano bene dall’affrontarla nel merito. Si tratta di questo: l’incarico di segretario sarà incompatibile con la candidatura a premier?

 

Non la pone perché ha preso un colpo di sole ma perché ci sono varie correnti (non tutte “di pensiero”) che hanno preso a sostenere questa tesi, con un ribaltamento radicale di impostazione rispetto a quella originaria su cui è stato fondato il Pd. Non c’è nulla di scandaloso. E’ però un bruttissimo segnale che non si confrontino argomenti seri attorno a questo tema ma ci si limiti a piantare bandierine o, peggio, a tirar fuori battute e baggianate. Come quelle di chi insinua che sarebbe il segno di un’ambizione sfrenata (paragonabile, per capirci meglio e senza offesa per nessuno, a quella di un Veltroni o di un Bersani). O di chi argomenta che il partito è così mal ridotto che serve qualcuno che ci si dedichi a tempo pieno (come se Veltroni, Franceschini e Bersani lo avessero fatto a tempo perso).

 

In effetti, se si tratta di questo, e di questi argomenti, basta e avanza il puro e semplice buon senso. Senza togliere a un iscritto al Pd, che avesse i numeri per farlo, la possibilità di candidarsi alla guida della coalizione anche se non è il segretario, apparirebbe perfino bizzarro fissare per statuto una norma che faccia divieto al segretario nazionale, unico tra tutti i tesserati, di candidarsi alle primarie di coalizione per la presidenza del consiglio. Insomma, una discussione attorno al niente, utile solo a evitare che si discuta in modo aperto della durata di questo governo e del come superarlo (visto che non è quello che il suo stesso premier vorrebbe …), dei tempi del congresso (in funzione del rilancio e della ricostruzione del partito o delle esigenze del governo) e, perché no, del dualismo Letta-Renzi.

 

Quella su cui si dovrebbe discutere è un’altra questione, di primaria importanza, che Fabrizio Barca ha il merito di aver sollevato con dovizia di argomenti nel suo documento sul “Partito nuovo” (per il buon governo). Una questione su cui si è preferito sorridere per il termine usato per definirla, un pochino desueto (“catoblepismo”). Che però riguarda un tema cruciale, il rapporto tra partito e istituzioni e la necessità di stabilire una chiara divisione di ruoli. E che richiama l’attenzione su una doppia degenerazione, quella dell’occupazione delle istituzioni, fin negli apparati amministrativi che ne dipendono, da parte dei partiti e quella della riduzione del ruolo dei partiti a pure “infrastrutture di servizio” delle istituzioni.

 

Non è questione che riguardi una persona specifica, o una singola carica, sia pure quella di vertice. Chi vuole farlo credere difende lo status quo e tende a perpetuarlo. Al contrario, solo affrontando il problema alla radice, partendo dai circoli e dal loro rapporto con il territorio e con le istituzioni locali, passando attraverso i livelli intermedi, regionali e provinciali (sulla cui abolizione si sta insistendo, governo Letta in primis, in una tattica del rinvio miope e arrogante) si può sperare di imprimere un cambio di direzione anche a livello statale.

 

Ne abbiamo sotto gli occhi una controprova che dovrebbe apparirci evidente e facciamo invece fatica a vedere. Da due anni le tornate amministrative premiano regolarmente il centrosinistra ma sempre grazie a candidati che non provengono da incarichi di partito. Le eccezioni si contano davvero sulle dita di una mano e hanno in genere spiegazioni particolari: in ogni caso nessun presidente di regione o sindaco di comuni capoluogo proviene dai ranghi di partito. La candidatura ai vertici istituzionali di livello intermedio del segretario del livello corrispondente non viene, di norma, neppure presa in considerazione e nei pochi casi in cui accade si rischiano sonore sconfitte.

Eppure il carrierismo nei livelli intermedi continua ad essere un fenomeno impressionante. Viene però alimentato attraverso meccanismi e percorsi tenuti rigorosamente al riparo dal giudizio degli elettori. Si va dalla nomina negli organismi esecutivi (le giunte) agli incarichi di nomina politica nella costellazione degli enti e delle società partecipate, fino alla poltrona premio che il Porcellum permette di concedere benignamente agli apparati locali.

 

Le primarie-parlamentarie, al di là delle intenzioni di alcuni di quelli che le hanno sostenute (ma quelli in buona fede supplicavano di adottare una ben diversa tempistica), sono state il veicolo e la foglia di fico al tempo stesso. Hanno sì portato ad emergere qualche personaggio locale apprezzato per meriti specifici pur senza avere l’appoggio dell’apparato, ma nel complesso sono state il trionfo delle burocrazie locali. Pagato a caro prezzo, se si va a vedere caso per caso, regione per regione, dove e in che misura si è verificato il travaso da “Italia Bene Comune” a M5S nelle settimane prima del voto, dopo la diffusione delle liste dei candidati. Per inciso, si tratta delle stesse burocrazie che hanno infoltito la schiera dei cospiratori che hanno tramato per rottamare, con Prodi, ogni residua speranza (o pericolo?) di governo di cambiamento.

 

Di questo non si parla. Ma di questo dovrà parlare il congresso. Cominciare o no dai circoli? Certo che sì, ma ha senso solo se si pensa di farne il motore del cambiamento e il terminale di un rinnovato rapporto tra partito e società (e dunque tra politica e cittadini). Altrimenti sono solo alchimie tattiche per allungare il brodo e eludere i temi cruciali del confronto congressuale.

 

A questo proposito, fa pensare l’accoglienza riservata al documento di Barca, che su questi temi offre un ragionamento di grande spessore, ricco di spunti felici. Oltre all’ironia sui termini adottati e sulla corposità e difficoltà di lettura del documento (come se uno studente di matematica si lamentasse di dover leggere pagine piene di numeri e formule), niente. O, meglio, l’uso spregiudicato per sostenere l’incompatibilità tra segretario e candidato premier.

 

A ben vedere, è una dimostrazione del rigore e della lucidità dell’analisi di Barca. Il suo documento si è dimostrato, in senso popperiano, falsificabile e ha retto alla prova (ahimé!). “L’esistenza della fratellanza siamese e del catoblepismo ci dice che ogni tentativo di cambiamento troverà – come ha trovato finora – una forte resistenza nelle elite, che vedranno messo in discussione il proprio potere.” Come volevasi dimostrare. Sul suo documento è scattata la congiura del silenzio, mentre circoli e federazioni tempestano Barca di richieste di presenze a dibattiti, sempre molto partecipati e appassionati: ma la sua agenda è quella che è …

 

Ma non finisce qui. E occorrerà trovare una soluzione a quella che rischia altrimenti di essere una contraddizione insanabile nella stessa analisi di Barca quando, dalla considerazione che ho riportato poco sopra, deduce la necessità per i cittadini di organizzarsi in “formazioni robuste” per esercitare una “forte spinta” contro le resistenze delle elite. Perché quelle formazioni le individua proprio nei partiti, che dovrebbero servire“a dare slancio e costanza a queste necessità”: per sconfiggere il catoblepismo … dei partiti stessi?

 

Di qui il dilemma, non nuovo per la verità: se non si tratta di dare vita ad una “formazione robusta” nuova e diversa (un altro partito) che cosa significa organizzarsi in una “formazione robusta” all'interno di un partito da cambiare? I cui vertici devono essere sconfitti? Con un congresso alle porte è una domanda che non si può eludere.

Martedì, 2. Luglio 2013
 

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