Tu chiamala, se vuoi, politica economica

Fanno acqua da tutte le parti i provvedimenti del governo: un cumulo di contraddizioni ed errori
I provvedimenti dei “cento giorni”, la finanziaria 2002, e soprattutto le due leggi delega su fisco e pensioni consentono una prima valutazione del programma economico del governo della destra. Nel valutare quale tipo di intervento pubblico – e di relativo finanziamento – venga delineato dalle misure effettuate o proposte, va tenuto presente il (non secondario) problema dei tempi (vaghi) della riforma previdenziale e, soprattutto, fiscale.

Dal punto di vista quantitativo la parte centrale del programma consiste in una riduzione della pressione fiscale che si può calcolare, tra Irpef ed Irap, in 50 miliardi di euro, in sostanza circa 4 punti percentuali di PIL. Considerando che un punto di riduzione deriva dalle finanziarie del governo dell’Ulivo, la riduzione netta consisterebbe in tre punti percentuali, portando la pressione fiscale al 38%. A questa percentuale occorre aggiungere 2,5 punti percentuali di entrate extratributarie, per un totale di 40,5%; a questa stessa quota del PIL deve attestarsi la spesa pubblica complessiva, per rispettare il vincolo del bilancio in pareggio.
 
Ciò comporta una riduzione di 5,4 punti di spesa totale, che non è pensabile possa avvenire con la sola riduzione della spesa per interessi, che certamente avverrà, ma non nella misura di oltre cinque punti (si può prevedere un punto e mezzo). Al momento non si vedono misure che incidano sulla spesa primaria (in conto corrente); non se ne vedono nella legge delega sulle pensioni (su cui tornerò tra breve), mentre se ne vede qualcuna nella scuola e nella sanità. La Moratti vuole eliminare il tempo pieno nelle elementari e medie, misura questa che, per quel mezzo milione (ed oltre) di famiglie interessate costituisce un aggravio ben maggiore delle detrazioni concesse da Tremonti; si può dubitare che una misura del genere sarà messa in atto, a parte il fatto che i risparmi di spesa scolastica che ne deriverebbero sarebbero certo limitati. In sanità è più probabile che i tagli di spesa saranno ugualmente limitati e che le misure si traducano in ticket e imposte regionali, come già sta avvenendo.
 
Rispetto all’Ulivo una crescita con più consuni e meno investimenti
Una differenza del tasso di crescita del PIL, rispetto alla spesa, per esempio di un punto, genererebbe, nell’arco dei cinque anni, oltre due punti di riduzione del rapporto spesa/PIL; questa differenza potrebbe provenire dalla maggiore crescita del PIL, indotta da forti effetti supply side? Per la verità non sembrano crederci neppure gli economisti del governo, visto che il DPEF del luglio 2001 prevedeva un tasso di crescita medio del PIL nel quinquennio esattamente pari a quello previsto dal DPEF del giugno 2000: 3,1%. La differenza consisteva nel fatto che nelle previsioni del governo dell’Ulivo i consumi crescono di meno e gli investimenti di più, il che, detto per inciso, dovrebbe dare un po’ da pensare alla Confindustria. Ovviamente al momento di elaborazione del DPEF 2002-2006 in Europa si tendeva a negare che la recessione americana avesse ripercussioni; nell’ottobre 2001 la cosa non era possibile e un aggiornamento del DPEF ha ridotto al 2,8% la crescita media, ed al 2,3% quella del 2002, percentuale che viene tenuta ferma anche se tutti gli istituti di previsione parlano di una crescita limitata al 1,3% o 1,5%.
 
I provvedimenti dei 100 giorni sono un flop quasi completo

Bisogna dire che Tremonti è stato particolarmente sfortunato sino ad ora (primi di aprile); i provvedimenti dei 100 giorni sono un flop quasi completo; si salva solo il condono fiscale sul rientro dei capitali dall’estero, il che fa sicuramente piacere alle banche italiane. Invece le misure sul sommerso, caldamente raccomandate dalla Confindustria, hanno dato (almeno sinora, ma non sembra che le cose possano cambiare) dei risultati semplicemente nulli; il 3% di quei 13.000 lavoratori (non agricoli) emersi coi contratti di riallineamento del 1998, che allora non erano stati considerati un gran successo. In questo caso si può avanzare una spiegazione, almeno parziale, del fallimento; infatti le misure dei crediti all’occupazione, prima per il sud, poi estesi con l’ultima finanziaria di Amato a tutto il territorio nazionale (anche se di importo maggiore nel sud), sono stati con tutta probabilità utilizzati in rilevante misura da datori di lavoro che volevano regolarizzare dei dipendenti in nero. Poiché i crediti all’occupazione hanno avuto un buon successo (e, per inciso contribuiscono a spiegare anche il buon andamento dell’occupazione nel 2001), una parte della platea potenziale non era più interessata. Inoltre al fiasco ha anche contribuito la poca chiarezza sugli aspetti previdenziali.
 
Sembra che il Ministro dell’Economia si attendesse poi grandi risultati dalla “Tremonti bis”; evidentemente non aveva studiato con la dovuta attenzione i risultati della prima “Tremonti”, riassumibili nei seguenti punti: l’incentivo di detassazione degli investimenti riesce a stimolare un 20% di maggiori investimenti, ma solo quando l’economia è in fase di ripresa; i maggiori investimenti incentivati determinano poi un corrispondente calo nell’anno successivo. Per l’80% del totale l’incentivo è inutile perché le imprese avrebbero comunque investito. Dunque la misura non ha avuto nessun effetto anticiclico nel 2001; se nella seconda metà del 2002 le imprese avranno aspettative di domanda positive sicuramente vi sarà una accelerazione degli investimenti, che però si sconterà poi nel 2003 con un rallentamento. In sostanza si tratta di misure particolarmente inefficaci rispetto al loro costo; c’è poi da scommettere che in autunno la Confindustria chiederà una proroga al 2003 della Tremonti bis.
 
Previdenza, l’errore strategico di eliminare il divieto di cumulo
Dalla riforma previdenziale la Confindustria si attendeva delle misure di riduzione di spesa, quindi dei contributi, ed ulteriori incentivi alla previdenza privata. Sul primo punto la legge delega compie una operazione di rara inefficienza: riprende una disposizione della finanziaria 2001 (l’ultima del governo Amato) e la annulla con una nuova disposizione. La norma ripresa delineava un incentivo alla prosecuzione del lavoro da parte di coloro che raggiungono i requisiti di pensionamento attraverso la decontribuzione pensionistica. Il lavoratore ed il datore di lavoro stipulano un nuovo contratto di lavoro biennale ripartendosi lo sgravio contributivo (ferma rimanendo la pensione maturata, che rimane indicizzata ai prezzi); questa norma è rimasta lettera morta in mancanza dei regolamenti attuativi. La legge delega riprende la proposta interamente, salvo indicare, in un empito dirigistico, una ripartizione a metà degli sgravi contributivi.
 
Questa proposta potrebbe determinare sia un aggravio di spesa che un risparmio; se coloro che usano lo sgravio sono solo quelli che comunque avrebbero continuato a lavorare, si ha una perdita di entrate, ma se una percentuale significativa di quelli che avrebbero smesso vengono incentivati a continuare, il risparmio di pensione può superare il costo.
 
Ma un’altra proposta della legge delega ottiene l’effetto di annullare la prima: si tratta della progressiva eliminazione del divieto di cumulo. E’ del tutto evidente che se un lavoratore può percepire la pensione e continuare a lavorare, la convenienza, sia per lui che per il datore di lavoro, sarà nettamente maggiore, rispetto all’ipotesi di decontribuzione; ma per l’INPS il discorso è del tutto diverso, nel senso che è plausibile che la spesa aumenti, in quanto anche quel 50% che continua a lavorare, pur avendo raggiunto i minimi per il pensionamento, opterebbe per la pensione più il reddito da lavoro (quest’ultimo anche ridotto).
 
L’eliminazione del divieto di cumulo è una misura di libertà? Allora coerenza vorrebbe che fosse affiancata da misure meno “liberali” come l’innalzamento obbligatorio dell’età pensionabile, per esempio a 65 anni, come spesso è stato proposto, dando così un altro colpo, oltre a quelli già assestati, al sistema contributivo introdotto dalla riforma del 1995.
 
I due colpi sono infatti quelli dell’elevamento delle pensioni ad un milione (di lire) è della decontribuzione, dal 3% al 5%, per i lavoratori entranti. La logica del sistema contributivo è infatti quella di garantire a tutti i lavoratori un uguale rendimento, in termini attuariali, (virtuale, visto che il sistema rimane a ripartizione) dei contributi versati. Il sistema contributivo quindi si occupa solo del problema previdenziale come assicurazione sociale verso un rischio specifico; non si occupa del problema redistributivo, cioè di coloro che si trovano ad avere una pensione troppo bassa; questo secondo problema deve essere affrontato nell’ambito del welfare, dalla spesa di assistenza. Si può ovviamente discutere la scelta fatta dalla riforma del 1995; esistono sistemi a ripartizione, segnatamente quelli anglosassoni, che attuano al loro interno un obiettivo redistributivo. Ma non risulta che il Polo abbia sollevato questo tipo di problemi.
 
I due gravi colpi alla riforma del ‘95
Ora è del tutto chiaro che l’aumento delle pensioni ad un milione, oltre ad essere ovviamente un obiettivo elettorale, è una misura chiaramente assistenziale, visto che è condizionato al reddito, e, almeno nella prima fase, all’età dell’interessato. Ancora peggio la proposta di decontribuzione per i neoassunti; nella delega è chiaro che il calo dell’aliquota riguarda solo quella contributiva e non quella di computo (dalla quale cioè dipenderà poi il montante complessivo del lavoratore). Questo vuol dire che a regime, e al di là di fluttuazioni demografiche, gli istituti previdenziali non saranno in equilibrio, con un eccesso di spesa esattamente proporzionale ai punti di scarto tra le due aliquote. Ovviamente questo accadrà tra trenta e più anni, e probabilmente Maroni potrebbe citare, se la conoscesse, la famosa battuta di Keynes.
 
Ma una misura del genere ha effetti negativi non solo sul piano della logica del sistema previdenziale, ma anche sul funzionamento del mercato del lavoro. Tra qualche anno, infatti, ad ogni colloquio di lavoro si dovrà aggiungere la domanda: “ma lei che aliquota previdenziale ha?” Non è necessario essere degli economisti per comprendere gli effetti distorsivi che un sistema del genere comporta, per almeno una ventina di anni. Tra l’altro un emendamento alla camera, sotto la preoccupazione della mancanza di copertura, ha stabilito che l’entità della riduzione dell’aliquota sarà decisa di volta in volta per ciascuna coorte di lavoratori che entrano nel mercato del lavoro; la domanda di cui sopra potrà così avere molte risposte: 28%, 29%, eccetera.
 
Pasticci di questo genere superano le previsioni più pessimistiche, rispetto ad un tema sul quale si è discusso molto e dove non mancano proposte adeguate. Bisogna dire che la Confindustria ha interpretato la legge delega nel senso che la riduzione riguardi sia l’aliquota contributiva che quella di computo. La salvaguardia delle prestazioni pensionistiche viene poi fantasiosamente interpretata nel senso che il passaggio del TFR ai Fondi pensione, consente al lavoratore di avere delle prestazioni previdenziali invariate. Ma questi sono i desiderata della Confindustria, non le scelte del governo. Il capo del quale peraltro ha dichiarato di voler lasciare l’opzione del trasferimento ai lavoratori, mentre il suo ministro del Lavoro lo vorrebbe obbligatorio.
 
Chi saranno i beneficiari della riforma dell’Irpef
La riforma fiscale che è stata delineata merita una trattazione a parte (vedi l’articolo). Qui ci limitiamo a ricordarne in breve alcune caratteristiche. Innanzitutto, chi beneficerà della riforma Irpef. In sostanza lo sgravio di 18 o 20 miliardi di euro va per circa quattro quinti ai redditi medio-alti, e per un quinto ai redditi medio bassi; tra questi però il beneficio si concentra su una fascia specifica di redditieri; la gran parte del redditi medi riceve solo delle briciole.
 
In secondo luogo, il meccanismo è tale da far assumere dimensioni più vaste al problema dell’incapienza, cioè di chi ha redditi troppo bassi per riuscire a sfruttare tutte le detrazioni che gli spetterebbero. Teoricamente costoro dovrebbero avere una compensazione (cioè ricevere i soldi invece che pagarli), ma nelle attuali condizioni dei conti pubblici è assai difficile che ciò possa avvenire.
 
I problemi derivano essenzialmente dalla struttura dell’imposta a due scaglioni. Che non è, per la verità, una pensata di Tremonti; vi è una letteratura economica che la indica come soluzione preferibile per contemperare efficienza ed equità. Ma a parte il fatto che non bisogna prendere per oro colato le indicazioni di quegli studi, va ricordato che secondo questa proposta nel secondo scaglione, con aliquota marginale più elevata, dovrebbe collocarsi una percentuale tra il 15% ed il 20% dei contribuenti, cioè una buona parte dei redditieri superiori alla media, non quindi lo 0,5%, come accadrà nel nostro caso.
 
Le tre strade possibili e l’epilogo (non entusiasmante) probabile
Tiriamo le fila da quanto detto: la politica economica del Polo lancia un messaggio di riduzione della pressione fiscale, mentre allo stesso tempo evita di prospettare significative riduzioni di spesa. Dato che, pur borbottando, accetta l’obiettivo del pareggio del bilancio, vi è una evidente contraddizione tra politica (annunziata) delle entrate e politica (perseguita) della spesa. La prima finanziaria del Polo ha, anzi, annullato un riduzione di aliquote prevista dalla finanziaria precedente per poter procedere all’aumento delle pensioni minime. Nel breve periodo il compromesso viene cercato con entrate temporanee derivanti da immobili, condoni, e simili. Alcune di queste poste di entrata sono sovrastimate (sommerso), mentre riduzioni di entrate come la Tremonti bis sono sottostimate; questo genera, anche a causa del rallentamento della crescita, problemi nei conti pubblici già da quest’anno. Ma problemi più rilevanti si porranno in futuro, come ha notato anche la Commissione Europea.
 
Prolungando la sguardo oltre l’anno in corso, il problema che si pone è quello della fattibilità di un programma che contemporaneamente riduca le entrate, eviti tagli di spesa consistenti, realizzi il pareggio del bilancio. I ricorsi alla finanza creativa, come la cartolarizzazione degli incassi dei musei, hanno un limite, e non sarebbero bevuti dall’Europa; i condoni hanno costi politici e possono risolvere il problema per un anno, spostandolo però all’anno dopo. Esiste un margine che tende ad ampliarsi, dovuto alla discesa del debito pubblico (spinta anche dalle privatizzazioni) e quindi della spesa per interessi (la quota italiana sul PIL era del 5,8% nel 2001, contro una media UE di 3,4), ma è insufficiente per quadrare i conti.
 
Le possibilità sulla carta sono tre: i) rinviare la diminuzione di pressione fiscale, ii) tagliare le spese, iii) mantenere un disavanzo di bilancio. In qualche misura Tremonti cercherà di barcamenarsi tra le tre possibilità, ma lo scrivente avanza l’ipotesi che la strada più battuta sarà la prima.
 
I costi della battaglia per le modifiche all’articolo 18
Si può infatti avanzare un’ipotesi: la scelta di insistere sull’art. 18 costituiva una compensazione data alla Confindustria per le mancate misure di tagli alla spesa previdenziale; vista la situazione che si è venuta a creare, all’interno del governo una possibile via di uscita consiste nella riforma degli ammortizzatori sociali, riforma che però implica un aumento di circa un mezzo punto di PIL . Vi è dunque una necessità di ampliare la spesa di sicurezza sociale, né in questa situazione è probabile che il governo se la senta di avanzare l’unica proposta equa di riduzione della spesa previdenziale, che è quella dell’applicazione del sistema pro rata a tutti i lavoratori. Se teniamo presente che la nostra spesa pubblica per beni e servizi è di circa (oltre) due punti inferiore rispetto alla media europea (il che vuol dire circa 4 punti rispetto a Francia e Germania) ci si rende conto che una soluzione “europea” dovrebbe comportare un aumento dell’intervento pubblico, attraverso lo spostamento dalla spesa d’interessi alla spesa per beni e servizi, per sicurezza sociale, per tax expenditure e, ultimo ma non minore, per investimenti.
 
In modo più specifico poi vale la pena di precisare che un aumento dell’intervento pubblico può tradursi, in parte, in maggiori detrazioni fiscali. In effetti la pressione fiscale e la quota di spesa pubblica sul PIL sono degli indicatori molto rozzi del ruolo dell’intervento pubblico. Un tipico esempio lo offrono la Svezia e la Germania; la differenza tra le quote di spesa pubblica tra i due paesi oscilla tra i 12 punti percentuali, ed altrettanto vale per le entrate; ma questa differenza è in sostanza dovuta al fatto che in Germania i trasferimenti monetari, come le pensioni e le indennità di disoccupazione, sono detassare, al contrario di quanto accade in Svezia, e analoghe differenze avvengono negli aiuti pubblici alle famiglie. Pertanto l’aumento delle detrazioni, la concessione di crediti d’imposta per occupazione ed investimenti sono forme di intervento pubblico che si traduce contabilmente in riduzioni di pressione fiscale.
Tuttavia la possibilità di realizzare obiettivi redistributivi tramite la via fiscale ha degli ovvi limiti, nei casi in cui il reddito dei soggetti non sia capiente. In tutti questi casi quindi sono necessari interventi tramite trasferimenti monetari, o spese in beni e servizi. Non è questa la strada su cui si sta muovendo il governo: la fortissima riduzione delle aliquote non lascia spazi per una politica di intervento sull’incapienza, sui giovani disoccupati, sulle famiglie bisognose; ed i nodi arriveranno al pettine.
Giovedì, 20. Giugno 2002
 

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