Troppe tasse? Colpa dei debiti del passato

La pressione fiscale italiana è più o meno nella media europea. Ma un importo pari a due punti di Pil serve a pagare gli interessi sul maggior debito, rispetto agli altri paesi, accumulato soprattutto negli anni '80. E influisce anche il recupero dell'evasione

“Pay the income tax,and break your heart upon it,Elisabeth Barrett Browning”... Circa centocinquanta anni fa, la poetessa inglese esortava se stessa ad adempiere ai suoi doveri di brava suddita britannica, anche se la cosa le spezzava il cuore. Il tema, a sentire televisioni e giornali, alla vigilia della finanziaria, è quanto mai di attualità. Sembra però opportuno qualche chiarimento.

 

Il primo è terminologico: quando si parla di “tasse” si  parla solo marginalmente di quelle che in senso proprio sono tasse; principalmente si parla di imposte e di contributi sociali. Questi ultimi sono in realtà i premi che paghiamo per il sistema di assicurazioni sociali che coprono i cittadini italiani. Le imposte poi sono ciò che paghiamo per i servizi pubblici, siano essi statali o comunali.

 

Paghiamo troppo? Paghiamo servizi di qualità scadente? Il tema è complesso. Abbiamo appreso poco tempo fa che la nostra sanità è stata valutata tra le migliori al mondo. Anche sulla scuola si esagera spesso e volentieri. E’ vero, ad esempio, che le indagini comparative ci vedono a livelli molto bassi, specie nel settore scientifico, ma non si dice quasi mai che ciò è frutto di una forte oscillazione dei risultati regionali, con il nord che si colloca in buona posizione (il Trentino-Alto Adige è al top), ed invece un sud che precipita agli ultimi posti.

 

Lo stesso discorso si potrebbe fare per i numerosi servizi comunali da cui dipende la nostra vita quotidiana, ma non mi tratterrò su questi temi. Vorrei invece soffermarmi su una spesa specifica, quella del servizio del debito, in gran parte statale, ma non solo (anche regioni e comuni hanno i  loro debiti). E’ noto che circa due punti di PIL di spesa pubblica servono a pagare l’eccesso di debito pubblico italiano (cioè quei quaranta punti percentuali che separano il nostro 106% dal 66% medio europeo). Ora, la grande parte degli italiani che è divenuto proprietario di casa, ha sperimentato il piacere di avere un mutuo ipotecario e di versare le rate degli interessi e della quota di capitale. Quando versavamo alla banca le somme dovute non eravamo particolarmente contenti, ma sapevamo che a fronte di quella spesa c’era la proprietà della casa da acquisire for ever. Una spesa necessaria ma anche voluta (a parte le delizie dei tassi indicizzati).

 

Nel caso della spesa per interessi sul debito, la percezione, da parte dei contribuenti italiani, del collegamento tra il servizio del debito e le dotazioni di infrastrutture pubbliche è molto flebile; la stragrande parte non “sente” i 70 miliardi di interessi come una spesa a fronte di ospedali, scuole, strade e così via. In parte ciò può dipendere da scarso senso civico, ma in (rilevante) parte dipende dal fatto che a fronte del più grande debito pubblico dell’Unione Europea non vi sono le più grandi infrastrutture; ci sono appunto quei 40 punti percentuali di aumento del debito che si sono verificati nel corso degli anni ottanta. In altre parole dover rientrare da un debito del 124% ha implicato, ed implica ancora, uno sforzo molto maggiore di quello che hanno affrontato gli altri paesi europei, il cui aggiustamento è avvenuto in buona misura proprio negli stessi anni ottanta.

 

E’ questo l’elemento strutturale alla base della percezione di una pressione fiscale insopportabile; in realtà il 42,8% previsto per il 2007 è leggermente più alto della media europea (a 15 paesi); un po’ più alto della Germania, un po’ più basso della Francia. Si tenga inoltre presente che il rapporto tra entrate fiscali e PIL è un indicatore molto rozzo; i paesi che usano più tax expenditures di altri (cioè che concedono più agevolazioni fiscali) risultano avere una pressione fiscale più bassa. Per fare un esempio, in Germania, le pensioni sono in larga misura esenti da imposte: ne conseguono minori entrate fiscali e una più bassa spesa sociale. Nei paesi scandinavi si verifica il contrario: nella maggior parte di essi l’imposta personale sul reddito non prevede quel tipo di esenzioni e detrazioni che ci sono in altri paesi e che abbiamo anche noi (l’insieme delle detrazioni in sede Irpef ammontano a circa quattro punti di PIL). A parità di altre condizioni, l’effetto netto sul sistema economico può essere esattamente lo stesso di quello dei paesi che separano più nettamente le spese e le entrate.

       

 Diminuire le “tasse”? Anche qui è bene qualche chiarimento. L’aumento della pressione fiscale nel 2006 e 2007 è avvenuta per una serie di motivi, tra cui anche le una tantum dell’ultima finanziaria del governo Berlusconi. E’ ormai chiaro che una delle ragioni è dovuta alle misure di contrasto dell’evasione e al comportamento degli autonomi che hanno aumentato il grado di adempimento spontaneo, di fronte alla percezione di una svolta del comportamento della macchina fiscale. Questo fatto porta come risultato una crescita della pressione fiscale. Se, come è plausibile, il processo continuerà, anche nel 2008 avremo questa tendenza all’aumento, che si sommerà all’effetto di fiscal drag proprio dell’Irpef. Insomma, come dicono gli economisti, l’elasticità delle entrate rispetto al PIL è aumentata.

 

Se si vuole quindi mantenere invariato il livello della pressione fiscale è necessario prevedere una diminuzione delle aliquote o un aumento delle detrazioni; se si lasciano invariate aliquote e detrazioni il livello della pressione fiscale tenderà ad aumentare, cosa che, in teoria, può essere usata per diminuire il debito o finanziare altre spese. Vedremo cosa deciderà il governo; al  momento il DPEF indica una lieve (0,2 punti) diminuzione della pressione fiscale.             

Martedì, 4. Settembre 2007
 

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