Ti piace licenziare facile?

Nel disastrato e per la maggior parte sregolato mercato del lavoro italiano il governo, in cerca di parole d’ordine mobilitanti per il suo elettorato che si va disperdendo, torna ad agitare la bandiera della guerra all’articolo 18. L’ennesima mistificazione che stavolta si avvale di un vocabolo degno della neolingua orwelliana: efficientamento

Non c'è niente di meglio di una parola d'ordine come “licenziamenti facili” per dare un segnale di mobilitazione al corpo più fedele e più motivato dell'elettorato di centro-destra.

Andava di pari passo con il “meno tasse per tutti”, che perfino i più sprovveduti sapevano leggere come “meno tasse per i più ricchi”. In questo campo però il repertorio si è esaurito una volta aboliti gli unici simulacri di tassazione sulle ricchezze (successione e Ici) rimasti ancora in vigore. La bandiera dei licenziamenti è così rimasta a sventolare in solitudine, ma riesce ancora a chiamare a raccolta le truppe.

 

Si sente dire che continua a rappresentare il simbolo di una rivoluzione liberale, nel cui sogno gli italiani hanno vissuto l'idillio con il berlusconismo. E' un falso enorme. Tra tutte le falsità che hanno inquinato il dibattito politico nel nostro paese dall'avvento della cosiddetta seconda repubblica, è forse questa la più clamorosa. La parola d'ordine dei licenziamenti facili, o meglio ancora dell'abolizione dell'articolo 18, diventato un simbolo agli occhi del popolo, è l'esatto contrario. Significa invece: “giuro che non lascerò nulla di intentato, fino alla mossa estrema, all'arma assoluta, pur di impedire che questo paese possa anche solo sognare di liberarsi dal vostro / nostro giogo. Finché sarò qui, pagheranno tutto loro e soltanto loro, gli altri.”

 

La beffa sta nel nuovo vocabolo adottato, degno della neolingua orwelliana: efficientamento! Chiunque abbia un minimo di cognizione del modo in cui funziona il nostro mercato del lavoro sa perfettamente che non esiste mercato meno regolato, più squilibrato, più discriminatorio e più segregante di quello italiano. Il fortino in cui resiste, per quel ridotto numero di casi per i quali riesce a fare da argine, la norma sulla “tutela reale” (o reintegro in luogo di risarcimento) è isolato entro una landa sconfinata in cui domina l'arbitrio, l'ad nutum. Siamo il Paese con il più basso tasso di attività, con il più alto divario tra attività (e occupazione) maschile e femminile, con la più bassa integrazione delle leve giovanili (e il più alto numero di giovani NEET, non in Occupazione né in Istruzione né in Formazione) e con il più macroscopico gap territoriale. Siamo l'unico paese che non offre alcun sussidio ai giovani disoccupati (che per essere riconosciuti tali devono risultare alla ricerca attiva di un posto di lavoro) e non li accompagna nella loro attività di ricerca se non con adempimenti formali e burocratici del tutto inefficaci. L'unico paese che - a fronte di quella tutela (sotto accusa) in vigore per le aziende maggiori in caso di licenziamento individuale - non prevede che poche formalità e nessun onere effettivo a carico delle imprese in caso di licenziamenti collettivi per motivi economici.

 

La favola si è perfino arricchita del corollario (genere “lupo e agnello”) secondo cui abbattendo quel fortino isolato la landa circostante diventerebbe spontaneamente ricca di diritti e tutele che l'esistenza di quel fortino invece impedirebbe. Tutto, pur di giustificare l'inerzia e l'indifferenza di fronte alla totale assenza di tutele efficaci per la generalità dei lavoratori.

 

Ma tutto questo non conta. La bandiera sventola: rimettiamo mano all'articolo 18.

Racconterò, a proposito della bandiera delle liberalizzazioni, un aneddoto che risale alla metà del 2001. Era da poco in sella Berlusconi, era già in stampa il Libro Bianco (in cui, a onor del vero, il suo autore, il prof. Marco Biagi, aveva suggerito di non inserire la questione dell'articolo 18, venendo sopraffatto tuttavia dalla furia ideologica di quel governo, dell'allora sottosegretario Sacconi, del Presidente di Confindustria D'Amato e di Cisl e Uil che pretesero di inserirvelo). Fui “comandato” ad assistere, per dovere d'ufficio, in un Teatro Brancaccio di Roma colmo fino all'inverosimile, alla cerimonia di celebrazione trionfale della vittoria del  centro destra da parte della Federazione degli ordini professionali e dal Coordinamento delle professioni regolamentate. Nella relazione introduttiva, farcita di tributi osannanti a Gianfranco Fini e a Giulio Tremonti, oltre che al neo-eletto premier, il clou era tutto in questo proclama, urlato a pieni polmoni: “Abbiamo sconfitto la strategia di distruzione delle nostre professioni portata avanti dalla sinistra e da Confindustria (si deve ritenere si riferisse alla gestione precedente quella di D'Amato) con la complicità della Cgil.” Visto dal loggione il teatro sembrò crollare, travolto dall'uragano di applausi. Sappiamo dove finì quella bandiera, dopo la reazione, composta ma imponente, centrata sulla manifestazione del Circo Massimo.

 

Leggendo la lettera di Silvio al “caro Hermann” non si sfugge all'impressione di un deja vu. Ma questi dieci anni hanno lasciato un segno profondo, hanno messo in ginocchio le forze vive del paese. Di un miracolo si deve però dare atto a Berlusconi, anche per rimettere in asse qualunque proposta di governo alternativa. E' riuscito per dieci lunghi anni (anche in quanto è corso ai ripari cancellando rapidamente gli effetti dell'interludio Prodi 2006-2008) a realizzare - e da ultimo a preservare a dispetto di una crisi feroce - una redistribuzione di ricchezze senza pari nel mondo e senza precedenti nel nostro paese.

 

Si è trattato di una redistribuzione a favore non semplicemente dei più ricchi ma di quella parte di loro che ha accumulato ricchezze fuori dal rispetto delle leggi (anche di quelle del mercato “perfetto”) e perfino delle regole più elementari di convivenza civile.

 

C'è una falsità clamorosa che fa il paio con quella sul valore “liberale” dei licenziamenti facili. E' quella sull'”ipocrisia” di cui darebbe prova chi si rifiuta di avallare il realismo coraggioso di quegli esponenti della maggioranza che, conoscendo cifre e modi dell'evasione fiscale accumulata, protendono la mano per raccattare almeno qualche miliardo (vi pare ci si possa sputare sopra?) con condoni o concordati (“adesioni in via transattiva”).

 

Questa è l'altra faccia dell'”utopia” liberale di Berlusconi. Talmente sfacciata e talmente scoperta che Draghi e Trichet non hanno neppure provato a rivendicare un cambio di indirizzo. La loro lettera non contiene neppure un lontano accenno alla questione dell'evasione fiscale. La spiegazione ufficiosa sarebbe quella che gli impegni in questo campo di questo governo non avrebbero la benché minima credibilità e sarebbero anzi giudicati come veri e propri imbrogli contabili – da Grecia di centrodestra.

 

Da notare che il nostro premier non se lo è fatto ripetere due volte. Ha pensato che fosse più “elegante” non insistere e la sua ultima lettera tace: all'evasione fiscale è riservato un silenzio tombale. I licenziamenti possono diventare facili, ma scovare le grandi ricchezze nascoste al fisco deve rimanere difficile.

 

Non penso di indulgere alla spavalderia se chiudo queste note con la previsione che della riforma dell'articolo 18 non si vedrà traccia (potrei al più temere la messa in calendario del progetto Ichino, tanto per gettare una manciata di sabbia negli occhi dell'opposizione e dei sindacati). Arricchirà, a beneficio dei posteri, l'elenco delle “riforme” abortite insieme con quella sulle intercettazioni, o sul processo lungo (chissà che fine farà la modifica del diritto ereditario con il taglio della legittima...).

 

Sono tuttavia propenso a ritenere che se ne parlerà molto. Che se si entra in campagna elettorale se ne parlerà oltre i limiti della decenza. Tanto più se qualche giovane ambizioso, con conoscenze alquanto approssimative della materia, riterrà di dover fare da sponda dal versante dell'opposizione.  Formulo tuttavia un auspicio: che il vessillo dell'articolo 18 che ha segnato la chiamata a raccolta per l'inizio dell'avventura di governo dieci anni fa, segni ora il suo definitivo epilogo. Incrocerò le dita.  

Mercoledì, 2. Novembre 2011
 

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