Televisione pubblica modello Bbc

A sinistra davanti all'anomalia italiana nel mondo della tv spesso si risponde puntando su una privatizzazione della Rai. E se la ricetta invece fosse quella inglese, quella cioè di un ente indipendente come la Banca d'Italia?

La lezione della BBC

L’aspro conflitto fra la BBC, la televisione pubblica inglese, e il governo di Tony Blair, che ha dominato la scena politica inglese nelle ultime settimane a noi, alle prese col lodo Gasparri, potrebbe apparire una storia marziana o comunque romanzata. Si tratta invece di una vicenda reale, ricca d’insegnamenti.

Bisogna fare una premessa. Il governo laburista è in grande difficoltà per la piega presa dal dopo-guerra in Iraq. Le armi di distruzione di massa che dovevano giustificarla non sono state trovate. Le forze d’occupazione sono alle prese con una guerriglia strisciante che sta provocando un numero crescente di vittime. I sondaggi danno Blair per la prima volta perdente nel confronto con i conservatori.

E’ in questo scenario che la BBC, a fine maggio, ha accusato Alastair Campbell, potente portavoce di Blair, di aver manipolato i dossier sull’Iraq. Le informazioni dei servizi di intelligence sarebbero state forzate per convincere parlamento e opinione pubblica dell’ineluttabilità e dell’urgenza della guerra. Il corrispondente per gli affari militari della BBC sostiene, in particolare, che la famosa affermazione secondo la quale il regime di Saddam sarebbe stato in grado di scatenare un attacco con le armi proibite nel giro di 45 minuti, era stata inserita nel dossier contro l’opinione dei servizi.

Lo scontro senza precedenti che ne è seguito è stato raccontato da tutta la stampa internazionale. Ricapitoliamolo brevemente. Il governo fa quadrato contro la BBC; esige una ritrattazione e pubbliche scuse. Tony Blair drammatizza lo scontro, arrivando ad affermare in un’intervista all’Observer che la BBC ha messo in discussione la sua integrità personale. Siamo vicini a una crisi di governo. La BBC non arretra di un millimetro. Non ritratta nulla e denuncia la reazione del governo come un tentativo di intimidazione. Andrew Gilling, autore del servizio, minaccia azioni legali contro i ministri che osano mettere in dubbio la sua correttezza professionale.

La disputa finisce di fronte alla Commissione parlamentare per gli affari esteri. Dopo due settimane di udienze, la Commissione stila un documento, col quale scagiona Campbell (col voto irritualmente determinate del presidente della Commissione, divisa a metà), ma censura duramente il governo per aver presentato, nel settembre del 2002, alla Camera dei Comuni il dossier incriminato dalla BBC che forzava le informazioni dei servizi. In sostanza, il capo del governo è accusato di aver ingannato, sia pure inavvertitamente, il Parlamento.

La stessa cosa, ricorda impietosamente la Commissione, si è ripetuta a febbraio del 2003 quando alla vigilia della guerra, Blair illustrò al Parlamento, come decisivo, un documento dei servizi di intelligence che poi risultò, in buona misura, tratto da una tesi di dottorato di una studentessa californiana, rintracciabile su internet. La Commissione conclude senza alcun biasimo per la BBC, e chiedendo, per colmo

d’ ironia, al governo se ritiene ancora valide, alla luce dei fatti, la tesi di un pericolo grave e imminente col quale ha giustificato la guerra, a partire dal dossier incriminato di settembre.

Ma questa è solo una parte della storia. L’aspetto che più c’interessa è il ruolo giocato nella vicenda dalla BBC che, pur accusata dai conservatori, di essere amica del governo laburista, non esita a dare un’informazione che getta aceto nella piaga irachena del governo. Poi di fronte all’attacco portato in prima persona dal Premier non solo difende la sua posizione, ma riafferma un principio etico fondamentale. Scrivono i governatori della BBC: una volta in possesso di un’informazione proveniente da una fonte attendibile sarebbe stato contrario alla propria missione di servizio pubblico non rivelarla.

C’è in tutto questo una lezione? La vicenda conferma tre cose: 1) può esservi una televisione pubblica indipendente dai governi, come dai partiti di maggioranza e

d’ opposizione; 2) per la sua stessa natura pubblica non può sottrarsi al vaglio costante e alle critiche anche le più aspre (motivate o meno) delle forze politiche come dell’opinione pubblica, quando il suo comportamento appare discutibile, non professionale, o di parte; 3) può resistere agli attacchi e difendere il proprio operato senza rischi per la propria indipendenza.

Queste tre circostanze, nel loro intreccio, non esistono in una televisione privata. Paul Krugman ha scritto sul New York Times che il popolo americano è stato manifestamente ingannato dalle televisioni americane (per il 90 per cento private), sulle ragioni che hanno giustificato la guerra e sul suo svolgimento. La Fox , appartenente all’impero mediatico globale di Rupert Murdoch, ha attivamente contribuito a convincere gli americani che i terroristi dell’11 settembre erano iracheni, quando non ce n’era nemmeno uno, e che Saddam Hussein eraa mente degli attentati. Molti americani hanno scelto la BBC per un’informazione attendibile sulla guerra. Così, nel cuore dell’impero dove trionfa il privato, una televisione pubblica è considerata una fonte privilegiata d’informazione non manipolata.

In Italia, la televisione pubblica è lontana mille miglia dal fornire un servizio pubblico decente. Fa una concorrenza di cui non si avverte il bisogno, per di più perdente a Mediaset e sperpera le risorse provenienti dal canone pagato da tutti gli italiani. Che fare? Una parte della sinistra è sembrata in passato (e, in parte, ancora ora) inclinare verso una scelta radicale: la privatizzazione. In un paese nel quale tre televisioni appartengono già a un unico tycoon, e il nuovo monopolio della pay TV al suo amico Murdoch, la privatizzazione della Rai rappresenta una soluzione o il salto dalla padella nella brace?

Facciamo un’ipotesi rovesciata. Mettiamo che, fallito il tentativo di risolvere il conflitto d’interessi, la sinistra ponga in testa al suo programma una nuova tv pubblica e indipendente: un ente dotato della stessa autonomia della Banca d’Italia, o una Fondazione, come per la BBC. Un impegno della sinistra in questa direzione, come uno dei punti prioritari del suo programma, potrebbe essere una novità confortante non solo per la sinistra, ma certamente anche apprezzata da una parte dell’elettorato conservatore, che aborrisce l’attuale servizio pubblico, ma altrettanto, se non di più, le televisioni di Berlusconi.

Albert Hirschman, scienziato politico di Princeton, scrive in un famoso saggio del 1990 Retoriche dell’intransigenza che i servizi pubblici quasi sempre comportano effetti collaterali perversi. Sono, infatti, facilmente soggetti a malfunzionamento a causa delle burocrazie, delle clientele e delle interferenze politiche. Ma non è detto che la soluzione sia loro liquidazione e la privatizzazione. L’obiettivo dovrebbe essere impegnarsi per eliminare o ridurre le cause della disfunzione. Scrive ancora Hirschman: “Ciò di cui c’è realmente bisogno per compiere progressi riguardo ai problemi nuovi che una società incontra sul suo cammino è la capacità d’iniziativa politica, l’immaginazione, qui la pazienza, là l’impazienza…” (Autosovversione – Il Mulino, pag.305).
Questo ammonimento del politologo di Princeton meriterebbe di essere adottato come criterio generale dell’orientamento politico e programmatico della sinistra. A cominciare dall’impegno per una televisione pubblica degna di questo nome. Senza pretendere di avere una nuova BBC, indifferente alle grida dei governi. Ma anche senza rinunciare, sotto l’attacco della destra, a perseguire la realizzazione, decisiva per la democrazia, di un servizio pubblico degno di questo nome.

Mercoledì, 16. Luglio 2003
 

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