Sui costi della politica silenzio a sinistra

Dal Parlamento agli enti locali un fiume di denaro dei contribuenti mantiene – spesso lussuosamente – almeno un milione di persone. I confronti internazionali mostrano spese sideralmente più alte di qualsiasi altro paese comparabile e l’esame dei casi specifici rivela situazioni scandalose. Ma nei programmi della sinistra il problema viene ignorato

La recente discussione sul Documento Economia e Finanza (Def) ha evidenziato ancora una volta i due problemi dell’economia italiana: una crescita limitata e la necessità di risanamento dei conti pubblici. Si tratta di due temi strettamente intrecciati e a prima vista antitetici. Sono necessarie risorse per spingere lo sviluppo, ma l’equilibrio dei conti pubblici non consente che queste risorse provengano dalla spesa pubblica.

 

E’ questa la linea del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, riaffermata nel Def, ed evidenziata nel decreto sviluppo, caratterizzato da interventi tutti a costo zero. La stabilità e il miglioramento dei conti pubblici sono un obiettivo prioritario e, comunque, è quanto, secondo Tremonti, ci chiedono i mercati e ci impongono gli accordi europei.

L’indebitamento netto nel 2010 è stato pari al 4,6% del Pil (71 miliardi di euro) e dovrà scendere nel 2014, per rispettare gli impegni europei, allo 0,2% (4 miliardi di euro in base alle previsioni del governo sulla crescita del Pil). L’andamento tendenziale porterebbe l’indebitamento netto nel 2014 al 2,6% (circa 46 miliardi di euro). La moderata crescita economica ridurrebbe pertanto di circa 25 miliardi di euro l’indebitamento netto, i restanti 40 miliardi dovrebbero essere ottenuti da una manovra correttiva nel biennio 2013/14.

 

Il quadro potrebbe essere anche più drammatico per il nostro paese. E’, infatti, in via di definitiva approvazione il nuovo Patto di stabilità in ambito Ue che dovrebbe dare più importanza al vincolo (60%) del debito pubblico. Automatico o no che sia l’obbligo di un rientro programmato entro questo limite, è chiaro che per il nostro paese questo comporterà la necessità di ulteriori e ripetute manovre correttive da aggiungere a quelle necessarie per l’azzeramento del disavanzo annuo.

 

L’unico rimedio per attenuare la portata di queste manovre è aumentare il tasso di crescita del Pil, ma per fare questo occorre trovare risorse da investire e, data la situazione dei conti pubblici, sono quindi necessarie decisioni coraggiose in ambito fiscale e di spesa pubblica. E’ necessario ridurre il peso del fisco sul lavoro spostandolo su altri cespiti, come le rendite e il patrimonio, ed è necessario ridurre con decisione l’evasione fiscale. Una diversa redistribuzione del carico fiscale favorirebbe la crescita attraverso un aumento della domanda interna e una riduzione del costo del lavoro. Ma è necessario intervenire con coraggio anche sulla spesa pubblica, abbandonando la politica dei tagli lineari, combattendo contro la corruzione e riducendo fortemente i costi della politica.

 

Questi due ultimi punti suscitano spesso, quando ricordati, accuse di qualunquismo. Eppure riaffermare la necessità di una lotta alla corruzione e l’esigenza di ridurre i costi di un ceto politico sempre più numeroso e autoreferente non credo sia qualunquismo, ma la base indispensabile per un corretto governo del paese, anche considerando che i due fenomeni sono strettamente collegati tra di loro.

 

Se non sorprende che l’attuale governo non intraprenda azioni su questi versanti è invece sorprendente, per non dire deludente, che altrettanto faccia il Partito Democratico. Nel pur ponderoso documento “Europa. Italia. Un progetto alternativo per la crescita” non vi è nessun cenno a questi problemi.

 

Le relazioni della Corte dei Conti mostrano quanto diffuse siano nella Pubblica amministrazione le tangenti e la corruzione. Secondo la Corte “fattispecie di reati moto diffusi, che proliferano nella mancanza di adeguati ed efficaci controlli, sono gli illeciti compensi negli appalti pubblici, l’appropriazione indebita di somme a seguito dell'emissione di falsi o duplicati mandati di pagamento a fronte di prestazioni contrattuali inesistenti o già pagate”. Nel settore delle opere pubbliche spesso il politico si incontra con l'imprenditore ed entra in affari con lui. Situazione simile nella sanità. Del resto i deficit sanitari di molte regioni del centro-sud, non certo caratterizzate da prestazioni di eccellenza sanitaria, stanno a dimostrare la cattiva gestione, gli sprechi e le ruberie in atto.

Vi è certo un problema di efficienza e capacità della pubblica amministrazione, ma, in ogni caso, decisiva è la responsabilità politica che è pervasiva nella gestione con la nomina diretta degli amministratori. Vi è certo un problema di repressione e di controllo (il tanto atteso provvedimento anticorruzione si è smarrito per strada), ma vi è anche un problema di un abnorme numero di persone che “vive” di politica e che produce corruzione e inefficienza.

 

Il tentativo di contenere e ridurre i costi della politica ha riguardato negli ultimi anni tutti i governi ma ha prodotto risultati limitati con un modesto taglio degli emolumenti ai politici e dei rimborsi elettorali ai partiti. Un recente studio della Uil stima che siano oltre un milione le persone che nel nostro paese vivono direttamente, o indirettamente, grazie alla politica. Parlamentari, ministri, amministratori locali, amministratori di società e consorzi istituiti dalle amministrazioni pubbliche, costituiscono un esercito di circa 150.000 persone cui si aggiungono circa 300.000 soggetti che beneficiano di incarichi e consulenze da parte della Pubblica amministrazione. A questi possiamo aggiungere tutto lo svariato mondo di persone che fanno parte degli uffici di gabinetto di ministri, sottosegretari, presidenti di Regione, presidenti di Provincia, sindaci, assessori regionali, provinciali e comunali. I direttori generali, amministrativi e sanitari delle Asl; la moltitudine dei componenti dei consigli di amministrazione degli Ater, degli enti pubblici ecc. Tutto questo spiega perché i costi della politica sono cresciuti in modo così abnorme negli ultimi anni.

 

I parlamentari italiani, nel Parlamento nazionale e dell’Ue, sono di gran lunga i più pagati d’Europa. Il 44% in più degli austriaci, il 67% in più dei tedeschi, l’81% in più degli inglesi, il 105% in più dei francesi, il 287% in più degli spagnoli.  Lo stipendio da parlamentare è 5,4 volte il Pil pro capite italiano, un rapporto che non ha riscontro tra gli altri Paesi europei (1,5 in Spagna, 2,3 in Francia e Regno Unito, 2,9 in Germania). E non calcoliamo in queste percentuali i 4.000 euro mensili che spettano ai nostri parlamentari per pagare i loro portaborse a prescindere dal fatto che li abbiano e che trasferiscano loro questa somma, cosa, come noto, che non accade pressoché mai.

 

Come non confrontare poi i trattamenti di fine lavoro dei lavoratori, o la mancanza di questi per i precari, con le somme erogate dalle Camere per il “reinserimento nella vita sociale” dei parlamentari non eletti? Per quelli di lungo corso si tratta di alcune centinaia di migliaia di euro, cui si aggiungono diverse migliaia di euro di pensione mensile. Il costo complessivo dei due rami del Parlamento (bilanci preventivi 2010) ammonta a 1,5 miliardi di euro comprensivi dei costi del personale dipendente, indennità parlamentari, acquisto di beni e servizi, affitti, manutenzione, utenze. Tra questi costi risaltano, tra gli altri, quelli affrontati dalla Camera dei deputati che ha versato per affitti e servizi collegati (pulizia e manutenzione) alla società Milano 90 srl, dal 1997 a oggi, più di mezzo miliardo di euro. Si tratta di immobili situati nel centro di Roma che ospitano gli uffici dei deputati. Con le somme sborsate per gli affitti (circa 350 milioni di euro) si sarebbero potuti acquistare gli immobili. Oggi la Camera dei Deputati spende annualmente 54 milioni di euro per gli affitti di palazzi e uffici. Questo vuol dire che ogni deputato costa 8 mila euro al mese, considerando solo gli affitti.

 

Secondo una ricerca effettuata nel 2005 le Camere di Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, avevano un costo complessivo di 2,3 miliardi di euro, per il 41% dovuto all’Italia, per il 23% e 22% a Germania e Francia, per il 10% al Regno Unito e per il 4% alla Spagna. Il costo per cittadino per l’Italia era di 16,3 euro, per la Spagna di 2,1 euro.

 

Il finanziamento ai partiti è stato sostituito, per disinnescare il referendum del 1993, dal rimborso delle spese elettorali che, fissato inizialmente a 800 lire per elettore, è stato portato a 1 euro con il passaggio lira/euro, nello stile di quanto fatto da tutti i settori economici non soggetti alla concorrenza internazionale. I partiti italiani percepiscono, ogni anno, attraverso i rimborsi elettorali, oltre 200 milioni di euro (per un totale di 1 miliardo in cinque anni), a fronte di 60 della Spagna, 73 della Francia, 132 della Germania. Dal 2006 il rimborso è dovuto anche in caso di scioglimento anticipato, per cui i partiti presenti in Parlamento in questa legislatura e nella precedente godranno fino al 2011 di rimborsi doppi. Solo con la prossima legislatura questa norma verrà meno.

 

Anche a livello regionale le situazioni sconcertanti non mancano. Poco comprensibile è che il presidente della provincia autonoma di Bolzano percepisca un compenso più alto del Presidente degli Stati Uniti e che molti tra i governatori e i consiglieri regionali percepiscano di più del governatore della California e degli altri Stati americani. Difficile anche accettare che il costo del consiglio regionale siciliano sia superiore a quelli di Abruzzo, Basilicata, Emilia-Romagna, Liguria e Puglia messi insieme.

 

Se scorriamo le indennità dei consiglieri regionali troviamo differenze profonde, difficilmente spiegabili. Si tratta in genere di indennità elevate, spesso agganciate a quelle dei deputati nazionali e in genere aumentate da indennità aggiuntive derivanti da presidenze di commissioni varie. Nella regione Campania, ad esempio, nella scorsa legislatura esistevano ben 18 commissioni temporanee che assicuravano circa 1.700 euro al mese ai loro presidenti. In 13 Regioni i Consigli prevedono una norma che riconosce la costituzione di gruppi singoli con un solo consigliere “capogruppo di se stesso”, con molti privilegi aggiuntivi, come un’indennità ulteriore, uno staff riservato, uffici attrezzati, auto a disposizione, budget annuale per spese varie.

 

Non mancano anche per i consiglieri regionali le indennità per il reinserimento sociale. Provvidenza magari accettabile per coloro che cessano l’attività politica, ma che è invece erogata anche a coloro che sono eletti al parlamento nazionale o europeo. Vi sono poi le Commissioni consiliari con presidenti e vicepresidenti. Essere presidente di una Commissione consiliare comporta un’indennità aggiuntiva, segreteria, auto blu. Il record di Commissioni è detenuto dalla Regione Lazio con 16 fino allo scorso anno. Non contento del suo primato il Consiglio regionale del Lazio ha recentemente approvato con voto unanime del Consiglio, salvo i consiglieri radicali, la costituzione di 4 nuove Commissioni la cui presidenza è stata equamente ripartita tra Pdl, Pd e Sel. Tra presidenti, vice presidenti, presidenti di Gruppo tutti i consiglieri laziali, salvo 3, hanno un incarico.

 

I componenti delle Giunte regionali sono 246, tra presidenti, vice presidenti, assessori, che significa, mediamente, 12 componenti di Giunta in ogni Regione. Spiccano per numero di assessori la Lombardia (16 assessorati, più il presidente), il Lazio e la Puglia (14 assessorati oltre il presidente).  Le competenze attribuite alle Regioni sono riconducibili a 8 settori. Numero di assessori e Commissioni consiliari dovrebbero ricondursi a queste deleghe. Si ridurrebbero tutti gli apparati politici e burocratici che si affiancano ad assessori e commissioni.

 

Tra i costi della politica a livello regionale va anche inclusa l’ipertrofia del personale dipendente e dirigente. Secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato vi è un dirigente ogni 25 dipendenti regionali scarsi nelle Marche, uno ogni 22 in Emilia Romagna, uno ogni 17 circa in Lombardia e nel Veneto, uno ogni 18 in Liguria, uno ogni 16 in Piemonte, per arrivare a uno ogni 8,3 in Molise e ancora uno ogni 7,7 nel Lazio.

Nel 2008 la Corte dei Conti rilevava che in Sicilia i dipendenti a carico del bilancio regionale raggiungevano la notevole cifra di 21.104 unità (erano 20.781 nel 2006), di cui 2.320 dirigenti (erano 2.150 nel 2005), con un rapporto di un dirigente ogni 8,4 dipendenti. In Sicilia vi è un dipendente ogni 239 abitanti, in Lombardia uno ogni 2.500. E non vale dire che la Sicilia è una regione a statuto speciale dato che nel Friuli Venezia Giulia, regione anch’essa a statuto speciale vi è un dirigente ogni 28 dipendenti. La Sicilia ha tanti dipendenti regionali quanto Piemonte, Lombardia, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Friuli e Liguria messe insieme e oltre alle figure di dirigenti di prima e di seconda fascia, ha inventato quelli di terza fascia. Oggi la regione, dati Rgs, conta 2.346 dirigenti, uno ogni 7,8 dipendenti se si contano i 4.571 precari. Tolti quelli, il rapporto appare ancora più assurdo: un dirigente ogni 5,9 dipendenti.

 

Anche nel caso delle Province vi è un numero pletorico di assessori e Commissioni, con relative indennità, gettoni di presenza e costi diretti e indiretti (segreteria, personale interno ed esterno, consulenze). Di cancellazione delle Province si parla da decenni. Ma le resistenze “politiche” alla loro abolizione appaiono insuperabili. Eppure una semplice razionalizzazione di alcune funzioni non essenziali delle Province, in quanto istituzioni, lasciando dunque inalterate tutte le altre funzioni e tutto il personale, comporterebbe un risparmio strutturale. Le province, ma non il loro numero, sono previste dalla Costituzione, ma non è la Costituzione a prevedere che in ogni Provincia vi sia la prefettura, la questura, la sede del Tribunale e così via. La Banca d’Italia ha ridotto autonomamente di più di 1/3 le sue sedi esistenti prima in ogni Provincia. Basterebbe imitarla.

 

L’accorpamento dei piccoli Comuni, almeno fino a raggiungere il numero di 5.000 abitanti, la riduzione drastica delle Comunità montane sono obiettivi che dovrebbero incontrare un consenso diffuso, ma che non appaiono all’orizzonte. Oggi i Comuni sotto i 5.000 abitanti sono ben 5.835. Un esempio clamoroso è quello delle isole Eolie in cui sono presenti 4 comuni: quello di Lipari con più di 11.000 residenti con un territorio che si estende oltre che sull’isola di Lipari anche su quelle di Vulcano, Panarea, Stromboli, Filicudi, Alicudi, mentre gli altri 3, tutti con residenti inferiori a 1.000, sono collocati nella sola isola di Salina.

 

La pletora di consiglieri e di amministratori non si traduce in un vantaggio per i cittadini in termini di servizi pubblici efficienti. Secondo un dossier della Confartigianato nei cinque anni compresi fra il luglio del 2004 e il luglio del 2009 le tariffe dei servizi pubblici locali, calcolate escludendo quelle di gas e luce esposte alla volatilità dei prezzi, sono aumentate in Italia del 28%, rispetto a un’inflazione cumulata del 10,4%, e ad un aumento del 16,8%, cioè oltre 11 punti in meno, registrato per le stesse tariffe nell’area dell’euro. La tassa sui rifiuti è cresciuta del 29,6%, i biglietti di autobus e metropolitane del 24,6%. I profitti delle utilities, quando ci sono, in gran parte provengono dall’aumento delle tariffe e non da più efficienza.

 

Enormi sono le differenze fra Nord e Sud. Le imprese di utilities settentrionali hanno chiuso il bilancio 2007 con un utile medio di 369 mila euro. Quelle meridionali con una perdita media di 251 mila euro. Nello stesso periodo le imprese settentrionali hanno ridotto il costo del lavoro del 5,8%, quelle meridionali l’hanno aumentato del 14,6%.

 

Gli esempi potrebbero continuare. Chi segue Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera legge continuamente notizie che appaiono incredibili e che testimoniano di un fortissimo degrado del senso dello Stato nell’uso delle risorse pubbliche. Ma oltre a questo degrado morale vi è il costo che il ceto politico con i suoi annessi oggi rappresenta. Diverso è l’ammontare di questo costo secondo i parametri che si usano e dell’inclusione o meno di settori della Pubblica amministrazione. Si tratta di un costo comunque non inferiore agli 11/12 miliardi di euro stimati dalla Uil e che sale ad alcune decine di miliardi di euro secondo quanto affermato da Valerio Selan in un recente articolo (Dov’è la polpa per i tagli al bilancio) pubblicato su E&L.

 

La riduzione di questi costi, quindi, potrebbe fornire una parte non piccola delle risorse necessarie a risanare il debito pubblico e contribuirebbe fortemente a risanare anche la nostra politica. Che cosa aspettano i partiti di sinistra a battere un colpo su questo punto?

Lunedì, 16. Maggio 2011
 

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