Sindacati e salario, è ora di attuare la Costituzione

L’articolo 39 è stato accantonato per un timore di invadenza dello Stato che non ha più ragione di esistere. Le prerogative della libera contrattazione collettiva sarebbero salvaguardate in origine prevedendo, per legge, che il salario minimo sia fissato da una contrattazione di livello confederale tra le associazioni maggiormente rappresentative. E oggi potrebbe emergere una maggioranza parlamentare che realizzi quello che la Carta prevede

 

Il dibattito sul tema del salario minimo risale alla nascita della Repubblica. Torna alla ribalta a fasi alterne ma non si può dire sia mai stato di stringente attualità, benché alcuni passaggi della Costituzione portassero necessariamente a sollevare la questione. Vale ancora oggi la pena di richiamarli alla memoria.

Per l’articolo 36 “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione … in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.” Sorgeva perciò il problema di come far sì che la retribuzione rispondesse in ogni caso a questa condizione: come, se non in virtù di una legge?

Non soltanto, ma occorreva un raccordo tra l’attuazione di questo principio ed altri intimamente collegati ad esso. In primo luogo quello secondo cui “i lavoratori hanno diritto che siano provveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso … di disoccupazione involontaria” (articolo 38): a chi spetta l’onere di garantire questo diritto? in che misura, in relazione alla retribuzione minima di cui all’articolo 36?

A queste domande si è data risposta mediante soluzioni di tipo mutualistico-assicurativo che hanno riguardato esclusivamente i lavoratori che avevano goduto in precedenza di una copertura contributiva, quindi solo chi aveva perso un lavoro (anche solo temporaneamente per motivi contingenti, attraverso il sistema della Cassa Integrazione) e non chi lo cercava non avendo ancora mai lavorato. Quanto alla misura, è stata stabilita in proporzione rispetto alla retribuzione percepita e con un minimo fissato dalla legge. Ora che si sta ovviando a questa lacuna con l’introduzione di un reddito garantito a chiunque sia disponibile a lavorare (all’interno di una misura di contrasto della povertà impropriamente chiamata “di cittadinanza”) diventa dunque impellente la necessità di una coerenza tra l’entità delle due misure volte entrambe a garantire mezzi di sostentamento adeguati.

E qui si pone l’ulteriore problema del raccordo con quanto stabilito in materia di compensi nell’articolo (il n. 39) dedicato ai sindacati e alla contrattazione, a cui spetta di fissarli: con efficacia “obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”, purché però i sindacati stipulanti siano “rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti”. Una condizione che (come rileva Carlo Clericetti nel suo ultimo intervento su questo tema) ancora ad oggi non è data, con la conseguenza di un proliferare di contratti-dumping stipulati da organizzazioni prive di rappresentanza e di una scappatoia per evadere, con i contratti, molte altre norme oltre a quelle sui compensi: solo in materia contributiva si è posto un argine fissando un minimale per legge, ma senza che possa essere rivendicato il diritto alla retribuzione corrispondente.

Se nei settant’anni, ed oltre, passati dal varo della Costituzione non si è dato seguito ai principi costituzionali richiamati (ad uno dei quali, l’articolo 38, si sta provvedendo solo in questi mesi) lo si deve al fatto che, per un accordo politico largamente condiviso, il tema è stato accantonato. In questo senso, non è mai stato giudicato di attualità, per non dire che la Costituzione, su questa materia di così grande importanza, non la si è voluta applicare. Con buona pace di quei padri costituenti che le attribuivano il valore, non di una norma statica, ma di un “programma di rinnovamento sociale” (di cui, già dai primi anni successivi, avvertivano il pericolo di uno svilimento).

Su quali argomenti ha poggiato, in questi lunghi anni, la scelta di accantonare il tema del salario minimo? È presto detto, sono essenzialmente due: che fissare la retribuzione per legge limita e svilisce la libera contrattazione tra le parti sociali; e che nello specifico contesto italiano la sua applicazione incontrerebbe grandi difficoltà (ciò che motiverebbe, oltre tutto, il mancato adeguamento a quella che è la prassi prevalente nei paesi sviluppati). Non a caso, sono gli stessi addotti come motivo per non dare seguito alla norma sulla registrazione formale della rappresentanza dei sindacati.

Può forse sembrare che il ragionamento che sto sviluppando si muova essenzialmente sul piano giuridico. Ebbene, ho maturato nel tempo la profonda convinzione che la mancata attuazione dei tre capisaldi della nostra Costituzione in materia di rapporti economici che ho qui richiamato, per le ragioni che l’hanno motivata, sia uno dei principali motivi di arretratezza del nostro paese, all’origine del persistente gap di crescita economica (e di benessere collettivo) rispetto ai paesi nostri omologhi. Ed è per questo che, nonostante la ricchissima letteratura sul tema, che ha alimentato un dibattito utile a lasciare le cose come stanno, nella difficoltà di giungere a sintesi, più che esercitarsi in una dialettica invero piuttosto povera, ritengo sia preferibile riaffermare le ragioni di una scelta politica che la Costituzione democratica aveva ben inquadrato.

Pur con questo, non intendo sottrarmi all’esame, con poche battute, degli argomenti citati.

Le prerogative della libera contrattazione collettiva, che è sacrosanto difendere, sarebbero salvaguardate in origine prevedendo, per legge, che il salario minimo sia fissato da una contrattazione, di livello confederale, tra le associazioni maggiormente rappresentative delle parti sociali, datoriali e sindacali, e recepito mediante atto avente forza di legge. Ciò che rinvierebbe al tema dell’attuazione dell’articolo 39.

Su questo mi limito a osservare che le resistenze che, verso la metà del secolo scorso, si giustificavano con il pericolo di un’invadenza dello Stato (di matrice bolscevica) oggi appaiono alquanto anacronistiche. E che negli ultimi anni abbiamo assistito, come mai prima nell’Italia repubblicana, a una persistente offensiva del legislatore (promossa assai più spesso dal potere esecutivo che dalle assemblee legislative) per invadere il campo di azione delle autonomie collettive. Non solo per sostituirsi nell’emanazione di norme di competenza contrattuale ma perfino per inibire l’intervento delle parti sociali (e della magistratura) su quelle materie. Direi semmai che ciò su cui occorrerebbe riflettere sono i motivi che hanno portato le parti sociali a tacere e a non rivendicare (salvo poche, inascoltate, voci fuori dal coro) le loro prerogative, lese in modo così eclatante: ma questo discorso porterebbe troppo lontano.

Quanto invece alle difficoltà attuative di una legge sul salario minimo, sarebbe disonesto nascondersele. Non mi riferisco tanto a quella relativa all’applicabilità nella vasta area di rapporti formalmente rientranti nel lavoro autonomo ma caratterizzati, nella sostanza, da subordinazione, che appare tutt’altro che insormontabile: sarebbe sufficiente che per legge fosse assunto il salario minimo come valore di riferimento per la fissazione, a fini legali nei contratti di natura privata, della misura minima dell’equo compenso.

Del tutto diverso è invece il discorso riguardante l’enorme diffusione di violazioni contrattuali e ancor più di comportamenti delittuosi, nel senso di violazioni delle leggi in materia sia fiscale che contributiva, da parte dei datori di lavoro. A meno di non voler avvalorare l’idea di una sorta di innatismo per la specie italica (che avrebbe una connotazione razzista piuttosto che filosofica) le ragioni non possono che trovarsi in una consolidata dottrina politica che ha avuto il sopravvento in modo trasversale. ”Evasione di necessità” e “sommerso di sopravvivenza”, a cui hanno fatto seguito in tempi più recenti la “globalizzazione che incalza”, il “dumping sociale” gli “idraulici polacchi”, sono argomenti squisitamente politici di costruzione, prima ancora che di conquista, del consenso. Delle conseguenze economiche di questi dogmi politici sarebbe bene parlare, specie i depositari del sapere (e chi detiene il potere chiave della comunicazione e dell’informazione).

Per una particolare contingenza c’è in questo momento un Parlamento in cui potrebbe emergere una maggioranza favorevole sia al salario minimo che all’attuazione del dettato costituzionale in materia di rappresentanza sindacale e di efficacia erga omnes dei contratti collettivi. Una mobilitazione civile a sostegno di una iniziativa di legge per colmare questo vuoto nell’attuazione della nostra Carta Costituzionale, la “più bella del mondo”, sarebbe davvero un bel segnale.

Domenica, 31. Marzo 2019
 

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