Senza Isae e Isfol la politica è cieca

Il primo, un istituto di analisi economiche, è stato abolito da Tremonti, che mal sopportava l’indipendenza delle sue analisi. Il secondo, unico e prezioso strumento per lo studio delle dinamiche e delle politiche occupazionali, è stato di fatto paralizzato. Il governo dei tecnici dovrebbe rimediare

C’è una storia, minore, che merita di essere raccontata in questa Italia immersa nel buio della crisi. Narra di come governanti poco responsabili e poco lungimiranti abbiano deciso, pur di non permettere alla pubblica opinione di vedere la crisi nella sua gravità, di privarsi essi stessi di qualunque strumento di osservazione. A occhi chiusi nel tunnel della crisi.

Sono in realtà due storie parallele. La prima riguarda lo strumento di cui lo Stato si era dotato per osservare la realtà economica. Le dinamiche economiche e sociali, con i processi politici (le riforme) che producevano effetti su quelle dinamiche. Con la nascita dell’ISAE (Istituto di Studi e Analisi Economiche), dall’unione dell’ISPE, che produceva le indagini preliminari per il bilancio, e dell’ISCO, che studiava la congiuntura, aveva preso corpo un ente di ricerca snello (150 dipendenti, di cui un po’ meno della metà ricercatori), agile nel cogliere le emergenze, i temi caldi, ma anche affidabile nella routine della produzione periodica di inchieste “di clima” e di rapporti. Era un punto di riferimento per la comunità scientifica, che liberamente approfondiva temi e analisi e si confrontava con quelle dell’ISAE, così come per i centri studi (di banche, grandi imprese, associazioni di categoria). Era inoltre il terminale di collegamento con le istituzioni internazionali (OCSE, FMI) e con la Commissione Europea.

A un certo punto è stato considerato scomodo. In particolare da Tremonti, che non gradiva previsioni troppo realistiche: lasciavano pochi margini per largheggiare nelle scelte di bilancio.

Oggi, dati alla mano, sappiamo che negli anni della finanza creativa e della campagna elettorale permanente del duo Berlusconi-Tremonti si è registrata una crescita cumulata del debito pubblico in misura molto superiore a quella dei famigerati anni Ottanta del pentapartito e del CAF. Sappiamo quanto ci è costata. E’ costata anche cara all’ISAE che, come il Grillo Parlante, è stato messo a tacere con una martellata nel 2010. Chiuso. Risparmi? Zero. Anzi, qualche spesa in più. Ma la vendetta era stata consumata, troppe volte le pressioni ministeriali erano rimaste inascoltate.

Lavorava contro il governo? So che lavorava per il Paese, completate voi l’equazione.
Ma poi, le scienze sociali non sono scienze esatte. Ci si confronta. Le previsioni non sono oracoli (anche se, ad esempio, succede che si colgano segnali di tensione, nel 2007, quando tutti sembravano abbagliati da una finanza senza freni e col vento in poppa). Il governo non trovava convincenti le previsioni ISAE? Non contava nulla che facessero testo per gli osservatori internazionali e per gli istituti “fratelli” di Francia e Germania con cui l’ISAE lavorava fianco a fianco? Era anzi un’aggravante? Bene, bastava confrontare, alla luce del sole, dati, estrapolazioni e interpolazioni, in un dibattito trasparente, per insinuare dubbi sulla validità del lavoro di quell’Istituto. Invece no. Chiuso.

Oggi le previsioni le fanno i privati. In ambito pubblico le fa la Banca d’Italia, che ha un Ufficio Studi di grande prestigio. Svolge tuttavia un’altra funzione e risponde a altri scopi. Gli organismi internazionali interloquiscono direttamente con gli uffici del ministro. Che non sono tenuti al rigore scientifico. Non è il loro mestiere. Signor oste, come si annuncia la vendemmia quest’anno? L’agronomo e l’enologo, intanto, hanno cambiato mestiere o committente.

La seconda storia riguarda le politiche per l’occupazione: formazione, incontro domanda-offerta, orientamento, contrasto del disagio sociale connesso a un mercato del lavoro che non funziona.

Dopo la riforma del Titolo V si è creata una situazione complessa per una articolazione di poteri, non sempre razionale, che richiede comunque una forte capacità di indirizzo unitario da parte dello Stato centrale, in convergenza con il sistema delle Regioni e delle Autonomie. Soprattutto dove le competenze sono “concorrenti” o fortemente intrecciate tra i diversi livelli. Serve dunque un lavoro di indagine e analisi dei fenomeni, ricorrente, basato su metodi di osservazione scientifici (nel senso che la parola ha in campo sociale). Serve un lavoro rigoroso di valutazione degli effetti delle politiche messe in atto. Serve infine un sostegno unitario al sistema, in tutta la sua complessità, anche perché i cittadini possano godere dei diritti di cui sono titolari in modo omogeneo, universale, sul territorio nazionale.

Queste funzioni non necessariamente devono essere affidate ad un unico soggetto. I nostri partner europei, per dire, offrono esempi di soluzioni e modelli diversi per rispondere a queste esigenze.

Nel nostro paese c’è un Istituto che era nato per sostenere il sistema della formazione professionale, nel suo assetto improntato alla “sussidiarietà” - come oggi va di moda definire il privato associativo che svolge funzioni di pubblico interesse - e che, dopo un’evoluzione storica durata due decenni, ha di fatto allargato il suo ambito di interesse all’intero campo delle politiche per l’occupazione. Si tratta dell’ISFOL, che al culmine della sua crescita, vedendosi assegnare l’esecuzione dei Programmi operativi nazionali del Fondo sociale europeo in materia di lavoro e formazione, è arrivato ad avere oltre 600 dipendenti (di cui circa un terzo ricercatori): poco meno di 400 stabili (gli altri, temporanei, per il periodo della Programmazione FSE, che termina tra circa due anni).

Era dunque in condizione di assolvere ai compiti che ho richiamato. Occorreva, questo sì, mettere ordine nel suo assetto che era stato frutto di una evoluzione poco pensata e poco guidata, molto all’insegna dello spontaneismo, senza nulla togliere ai meriti (generosità e dedizione) del personale che ne era stato protagonista. E occorreva una forte condivisione con le Regioni, prendendo esempio dal metodo aperto di coordinamento adottato dall’Europa per accomunare ben ventisette Stati membri nella Strategia per l’occupazione.

Invece il governo Berlusconi 2, con un ministro del Lavoro leghista (Maroni) ha scelto di mettersi sotto i piedi il federalismo e di costringere in un angolo le Regioni, per non correre il rischio che la sua linea di deregolazione e di scontro sociale fosse ammorbidita da governi regionali dialoganti e concertanti, ed ha riformato l’Isfol nella direzione opposta a quella che sarebbe stata auspicabile. Poi, dopo la parentesi del Prodi 2, che pure aveva avviato un processo di riassetto e di rilancio, lo ha messo definitivamente in condizione di non nuocere. Taglio dei fondi (sia nazionali che comunitari), embargo sui prodotti, direttive contraddittorie, da “istigazione al suicidio”.

L’Istituto è così entrato in uno stato di coma assistito (male). I ricercatori più validi e più tenaci hanno tentato di portare avanti caparbiamente il loro lavoro, emarginati e mal sopportati. Tanto per dare un’idea, è stata anche accantonata la produzione del Rapporto Annuale (l’ultimo è del 2009), le indagini ricorrenti più significative (e più scomode) sono insabbiate per carenza di fondi.

Oggi le analisi sulle dinamiche del mercato del lavoro, la valutazione sull’efficacia delle politiche per l’occupazione, a partire dalla formazione, il supporto ai processi di convergenza tra i sistemi locali, sono attività che in Italia non fa nessuno.

C’è una lunga lista di emergenze e il governo tecnico fa fatica, probabilmente, a stabilire le priorità. L’Italia intanto non ha un organo tecnico indipendente di analisi delle dinamiche e di monitoraggio e valutazione delle politiche né in materia di economia né in materia di occupazione. Non dico che debba stare in cima alla lista. Ma è anche vero che forse non ci vuole molto, se c’è l’intenzione.

Sabato, 19. Maggio 2012
 

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