Che il Pd debba trovare un’identità lo dicono tutti. Lo ha ripetuto anche Stefano Bonaccini, il presidente dell’Emilia Romagna che si è candidato alla segreteria, evocando un “partito dei territori”, formula che però non significa niente in termini di linea politica. E di identità definita hanno parlato anche vari altri esponenti di quel partito, che però non hanno poi dato seguito al discorso con qualche indicazione concreta, che permetta di capire in quale direzione questa identità la si stia cercando.
Un’uscita pubblica sui contenuti è venuta invece da un gruppo che si definisce “I laburisti”, che ha pubblicato su Il Foglio (e il mezzo è già un messaggio) due intere paginate per esporre il loro programma. Basterebbe leggere le firme per intuire quale sia. Oltre a Marco Bentivogli, l’ex segretario della Fim-Cisl che firma l’intervento, tra i firmatari ci sono Enrico Morando, che da sempre incarna l’anima più liberista del Pd; Pietro Ichino, da anni portabandiera delle proposte più liberiste in tema di mercato del lavoro; Marco Leonardi e Tommaso Nannicini, i due economisti di punta del periodo renziano ed estensori tra l’altro del Jobs Act; Stefano Ceccanti, il costituzionalista tra i protagonisti della riforma istituzionale di Renzi che fu bocciata dal referendum; e altri nomi di quella che fu la corrente renziana. L’ex segretario non c’è più, ma le idee di cui si fece portavoce sono ancora molto forti nel partito.
Nel capitolo sul lavoro, indicato come “il tema fondamentale”, si dice che “è l’indicatore dello stato di salute della condizione umana” e si invoca “un lavoro di qualità per tutti e non solo per una élite”, ma le proposte restano vaghe. Si appoggia per esempio il salario minimo, e va bene: ma si sa che ci sono vari modi diversi per realizzarlo, e altrettanto diversi sono gli effetti che ne possono derivare. Un po’ più chiare sono le proposte di riforma istituzionale, che ipotizzano anche soluzioni alternative. Comunque, le storie personali parlano più delle pagine scritte, e il progetto appare quello di un “renzismo senza Renzi”, ossia la formula che ha portato il Pd lontano dall’area della sinistra storica.
Al momento le candidature alla segreteria del Pd sono tre. La parlamentare Paola De Micheli, la prima a scendere in campo; Il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini; e Elli Schlein, già sostenitrice di Pippo Civati alle primarie del Pd che furono vinte da Renzi, poi europarlamentare, vice di Bonaccini e ora a Montecitorio. A loro abbiamo pensato di proporre alcune domande, in forma di alternativa fra due possibilità, che possano aiutare a capire un po’ meglio quale società abbiano in mente i vari candidati. Se volessero rispondere, permetterebbero agli elettori a farsi un’idea meno vaga della direzione in cui vorrebbero far muovere il Pd.
Con il Jobs Act o con il Decreto dignità?
Il Jobs Act (battezzato in inglese forse per far capire subito a quale modello si ispirava, da un presidente del Consiglio che ha dato pubblica dimostrazione della sua dimestichezza con quella lingua) è stato l’atto finale (ma, vista l’aria, forse non conclusivo) di una lunga serie di provvedimenti che hanno precarizzato il mercato del lavoro, portando indietro l’orologio alla prima metà degli anni ’60 del secolo scorso. Il Pd vi ha contribuito pesantemente non solo con quell’ultimo atto, ma anche con il primo, il “pacchetto Treu” del 1997. Il Decreto dignità, del primo governo giallo-verde (elaborato e sostenuto dai 5S), non ha certo attuato una rivoluzione. Ma è stata la prima legge, dopo trent’anni, a proporsi di ridurre gli eccessi della precarizzazione, ponendo un limite – seppure timido – ai rinnovi dei contratti a tempo determinato. Quella disposizione, giova ricordarlo, è stata poi sospesa. Il Jobs Act ha abbattuto un simbolo come l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, contro i licenziamenti illegittimi, il Decreto dignità ha simbolicamente limitato la precarietà: due direzioni opposte.
Con Brodolini o con Treu?
Giacomo Brodolini fu il ministro del Lavoro che volle e realizzò, insieme al giurista Gino Giugni, lo Statuto dei lavoratori. Purtroppo non visse abbastanza per vederne l’approvazione, per la quale fu determinante il suo successore Carlo Donat Cattin, che riuscì a convincere quella parte non indifferente della Dc che era recalcitrante. Pierre Carniti ha raccontato a chi scrive che nel corso di una dura trattativa l’allora presidente di Confindustria, Angelo Costa, lamentò con Donat Cattin che la mediazione del governo era sbilanciata a favore dei sindacati. Donat Cattin replicò seccamente: “Io sono il ministro del Lavoro, non degli industriali”.
Tiziano Treu, ministro nei governi Dini e Prodi, ha legato il suo nome al pacchetto di riforme del mercato del lavoro che hanno dato impulso alla precarizzazione oggi dilagante. Treu è una degnissima persona, ma è un esempio di quella involuzione della sinistra che, sulle orme del New Labour di Tony Blair, ha sposato le teorie economiche neoliberiste. Il Pd si era proposto di fondere le esperienza della sinistra e del cattolicesimo sociale: Brodolini era socialista e Donat Cattin democristiano, e cattolico era anche Pierre Carniti. Quale filone vuole seguire il Pd, quello di questi ultimi o quello applicato da Treu?
Per la piena occupazione o per il Nairu?
Nairu sta per non accelerating inflation rate of unemployment, ossia tasso di disoccupazione che non fa accelerare l’inflazione. E’ uno degli strumenti dell’armamentario neoliberista: ci deve essere una certa disoccupazione, altrimenti i lavoratori chiedono aumenti salariali e alimentano la spirale dei prezzi, cosa che non avviene se possono essere licenziati e facilmente sostituiti. Ha avuto un ruolo rilevante – e naturalmente deleterio – nei conteggi che si facevano in base alle regole europee che ora si sta trattando per cambiare, ma soprattutto è piuttosto ripugnante dal punto di vista etico. La piena occupazione era invece un obiettivo dichiarato da tutti i governi fino al prevalere del neoliberismo, ed è un obiettivo che sta anche nella nostra Costituzione. Anche in questo caso, l’alternativa è netta.
Sanità pubblica o privata?
Nessuno ovviamente pensa di abolire la sanità privata o di ostacolarla. Ma i poteri pubblici – Stato e Regioni – dovrebbero occuparsi del Servizio sanitario nazionale. Che funziona sempre peggio, ma non per una fatalità: a causa delle scelte politiche che sono state fatte da molti anni a questa parte. Un servizio pubblico sottofinanziato inevitabilmente si degrada, e questa è la scusa per affermare che il privato è più efficiente, e via con le convenzioni. E’ il “modello Lombardia”, miseramente franato di fronte all’emergenza Covid. Inoltre si va sempre più potenziando, a suon di detassazioni, il welfare aziendale, che qualcuno ha definito un acido corrosivo per il sistema universalistico. Tutti i confronti internazionali sono a favore della sanità pubblica, non solo più efficace, ma anche meno costosa. Problemi analoghi ci sono per la scuola, tralasciando altri argomenti al riguardo che sarebbe troppo lungo affrontare in questo contesto.
Acqua (e altri servizi pubblici locali e non solo) a gestione pubblica o privata?
Sulla gestione pubblica dell’acqua è stato fatto un referendum, vinto da chi non vuole che un servizio così fondamentale sia affidato ai privati. Il rispetto della volontà popolare sarebbe doveroso, ma finora si è andati in tutt’altra direzione. Nell’ultimo disegno di legge sulla concorrenza proposto dal governo Draghi si era addirittura tentato di rendere quasi impossibile – e comunque residuale – la gestione diretta dei servizi da parte degli enti locali, obbligandoli ad affidarli in appalto ai privati. Dopo diffuse proteste la misura è stata cancellata, ma questo non è il primo tentativo in tal senso e molto probabilmente non sarà l’ultimo. Ma per una serie di servizi essenziali – in particolare quelli forniti attraverso monopoli naturali – questa strada è sbagliata, e molte esperienze lo hanno dimostrato (basti ricordare il caso di Autostrade, con lo scandalo del crollo del ponte Morandi). Il Pd da tempo si è mostrato favorevole alle privatizzazioni. Quale sarà la linea del nuovo segretario?
Politica industriale o solo incentivi e sussidi?
Di fronte a crisi come quella climatica, la pandemia, l’invasione dell’Ucraina, la “mano invisibile” si è mostrata per quello che è: una mano, ma non un cervello. Il perseguimento del bene comune, ma anche uno sviluppo equilibrato, hanno bisogno di strategie a lungo termine, che è compito della politica individuare e della mano pubblica orientare. Mariana Mazzucato ha spiegato bene come avviare processi virtuosi: non un’economia pianificata, ma una interazione tra pubblico e privato dove però deve essere lo Stato a porre obiettivi ambiziosi e a stimolarne e controllarne l’evoluzione. Il futuro segretario del Pd ritiene o no che la “mano invisibile” abbia bisogno di una guida?
Questi sono solo alcuni degli argomenti con i quali un vero dibattito si potrebbe misurare, ma ovviamente non è questa la sede per disegnare un intero programma. Ci sembra però che queste poche domande possano avere il valore di un segnale sull’orientamento culturale di chi si propone alla guida di un partito che ancora si definisce di sinistra. E ci sembrerebbe sensato che un partito che dichiara di voler meglio definire la sua identità dibattesse su problemi di questo genere piuttosto che di schieramenti e di correnti.