Se l’Europa decide di non crescere

Finora le strategie sono state guidate da un’idea già implicita nel Trattato: è il settore pubblico che può far danni all’economia, quindi è lì che bisogna intervenire con tagli e riduzione dei deficit. Ingabbiate le politiche di bilancio degli Stati, solo l’Unione potrebbe rilanciare lo sviluppo. Le idee ci sono, ma non vengono prese in considerazione

Negli Stati Uniti come nell’Unione europea è sempre più acceso il dibattito sul rapporto fra deficit pubblico e crescita. L’amministrazione Obama, con l’intransigente opposizione dei repubblicani, è favorevole a privilegiare l’impegno per una crescita più sostenuta e la lotta alla disoccupazione sul contenimento del disavanzo. In Europa, al contrario, l’accento è decisamente  posto sull’abbattimento del disavanzo. Per affrontare il problema dei deficit pubblici, esploso con la Grecia ma in generale con i pigs (e al momento è chiaro che la “i” deve essere affibbiata all’Irlanda), si sta discutendo nell’Ue di nuove regole di controllo e di possibili sanzioni. La linea guida è la convinzione che deficit bassi siano la premessa per ridurre l’impatto della crisi, quando questa si verifichi, e la condizione per il rilancio dell’economia nel dopo-crisi. Ma un’analisi ravvicinata dei dati non sembra confortare questa convinzione.

 

Nella Tabella 1 vengono riportati gli incrementi del debito pubblico nel biennio 2007-2009 (1) ed il deficit a fine 2009 (dati Eurostat). Esaminando il rapporto tra i deficit e le diminuzioni dei Pil, si può notare che la relazione è negativa, anche se non molto forte ( il coefficiente di correlazione è pari a -0,15): ad esempio l’Irlanda ha una forte caduta del Pil ed un alto deficit, ma questo non è vero per Grecia e Spagna; l’Italia e la Germania hanno un deficit basso ma una forte diminuzione del Pil. Vi sono sia meccanismi automatici che diminuiscono il prelievo fiscale ed aumentano le spese, sia interventi discrezionali che operano nella stessa direzione; se due paesi subiscono una caduta della domanda di pari intensità, quello con ammortizzatori sociali più ampi e maggiore flessibilità del prelievo avrà maggior deficit e minore contrazione del Pil; ma se la caduta della domanda è più forte in un paese rispetto ad un altro, mentre gli effetti automatici sono minori e non vengono messi in  atto interventi discrezionali (caso italiano), il paese avrà un minor deficit ma una maggior caduta del Pil.
 

Nella Tabella 2 vengono riportati il debito privato complessivo ed il debito pubblico per gli stessi paesi per il 2009, nonché la loro somma. Come si vede, se i debiti pubblici (in rapporto al Pil) variano da un 44% della Finlandia ad un 115,8% dell’Italia,  il debito privato varia da un 130,9% della Grecia ad un impressionante 888,1% dell’Irlanda (il che spiega la “i”).

 

 

Tornando al tema delle politiche di bilancio, è noto che la Germania, appoggiata da paesi come Finlandia ed Olanda, sia per una linea rigida di tagli del deficit e di sanzioni automatiche per i paesi inadempienti. Il criterio guida dovrebbe essere il seguente: il debito pubblico che supera il 60% dovrebbe essere tagliato di un ventesimo (il 5%) ogni anno; ora è chiaro che i debiti pubblici saranno in crescita per quest’anno e quasi sicuramente per il prossimo, e che in Italia il rapporto sfiorerà il 120%. Dunque il taglio del debito dovrebbe essere di cinque punti. Guardando la Tabella 2 si capisce subito il consenso della Finlandia e dell’Olanda alla linea tedesca; d’altra parte guardando la Tabella 1 si capisce che la posizione dell’Irlanda è critica non per il livello del debito 2009, ma per la prospettiva di crescita del medesimo; si tenga presente che il salvataggio della Anglo–Irish bank porterà il debito sul livello del 100% tra quest’anno ed il prossimo.

 

L’Italia, come la Francia, la Spagna ed altri paesi, si dichiarano d’accordo con la linea dei rientro dai deficit, ma  chiedono

a)     che nello stabilire l’entità dei tagli si tenga in considerazione anche il debito privato, il tasso di risparmio e altre variabili;

b)     che le sanzioni non siano automatiche ma decise politicamente.

 

Si tratta di posizioni ragionevoli ma chiaramente sulla difensiva. L’idea sottostante, implicita sia nel Trattato di Maastricht che nel Patto di solidarietà (e “crescita”), è che i problemi dell’Ue possano derivare solo da un comportamento sregolato del settore pubblico, e che messo quest’ultimo in condizioni di non nuocere, l’economia non avrà problemi (per i paesi dell’euro la Bce si occuperà di evitare fiammate inflazionistiche). Ovviamente nascerebbe spontanea l’osservazione che la crisi economica non è nata nel settore pubblico ma nelle banche e che sul quel versante si sta agendo troppo poco e troppo a rilento; ma prescindendo da questo aspetto, la domanda dovrebbe essere: ma da dove può venire la crescita per l’Europa?   

 

Nella prima metà del 2010 la Germania ha avuto una buona crescita, trainata dalle esportazioni; è stata aiutata dal calo dell’euro (crisi greca). Anche le aziende italiane che producono per quelle tedesche ne hanno beneficiato, sicché la previsione di crescita del nostro Pil è migliorata del 50%. Detto così sembra entusiasmante, ma si tratta sempre di un passaggio da uno 0,8% ad un 1,2%, dopo un calo cumulativo 2008-2009 di ben sei punti. Ma è soprattutto la prospettiva ad essere oscura: vi è un rallentamento in atto dagli Usa all’Europa, ed infatti la stima di crescita per il prossimo anno è stata abbassata da un già basso 1,5% all’1,2%.

 

Ben difficilmente l’Europa nel suo insieme, e probabilmente neppure la Germania, potrà contare su una crescita export-led. Già l’euro ha recuperato buona parte del terreno perduto, ed è probabile che ulteriori rialzi possano avvenire, dato che negli Usa la politica monetaria è volta alla svalutazione del dollaro, sulla base dell’idea che se non è possibile avere una rivalutazione dello yuan, si può ottenere qualche risultato col dollaro (nei confronti di Europa e Giappone). D’altra parte una politica fiscale restrittiva praticata da tutti i paesi (chi con entusiasmo e chi obtorto collo) imprime una spinta deflattiva; di conseguenza consumi ed investimenti segnano il passo.

 

Il problema è che la risposta dovrebbe venire dall’Unione Europea stessa, la quale dovrebbe farsi carico di programmi di spesa di investimenti che le misure di bilancio vietano ai singoli paesi. In fondo, anche come risposta alla recessione (certamente più lieve) del 1993, l’allora Presidente della Commissione europea, Jacques Delors, aveva presentato un Libro Bianco (2) che formulava un piano volto ad accrescere gli investimenti e quindi la competitività dell’Europa. Il piano prevedeva un ruolo dell’UE come finanziatore o co-finanziatore di grandi progetti d’investimento, per un ammontare complessivo di 574 miliardi di Ecu, equivalenti a circa 480 miliardi di euro, una cifra del tutto rimarchevole, che avrebbe dato alla Commissione un ruolo di primo piano; e proprio questo è stato lo scoglio contro il quale il piano Delors si è scontrato.

 

Anche adesso proposte più modeste (utilizzo del fondo europeo per i salvataggi, proposto tra gli altri da Tommaso Padoa Schioppa, attribuzione ad un fondo ad hoc dell’incremento di debito pubblico causato dalla recessione, proposto da Vincenzo Visco) non vengono neppure messe in discussione dalla Commissione ed Ecofin.  

 
Note
----------------------------------------------
1) Nel caso di Cipro la variazione riguarda il solo 2009; infatti nel 2008 il rapporto debito-Pil era sceso di dieci punti; la discesa (dal 70,2 del 2004) era iniziata nel 2005.
2) Crescita, Competitività, Occupazione: le sfide e le vie per entrare nel XXI secolo, Bruxelles 1993.

Domenica, 17. Ottobre 2010
 

SOCIAL

 

CONTATTI