Schroeder, bella vittoria. Ma ora vengono i problemi

La convivenza fra il 'modello sociale' tedesco e la politica monetaria restrittiva mostra la corda
La vittoria socialdemocratica in Germania che, dopo quella svedese, ha interrotto, in un punto decisivo, la deriva politica europea a destra non poteva piacere ai commentatori che guardano alla socialdemocrazia con malcelato sussiego intellettuale, prima ancora che politico. Ma nel caso della riconferma di Schroeder, il fastidio è stato raddoppiato dalla posizione assunta nei confronti della guerra che gli Stati uniti preparano contro l’Iraq.

Che la Francia critichi gli Stati Uniti è considerata una posizione appartenente alla tradizione gollista, tutto sommato velleitaria e inoffensiva. Ma un cambio di atteggiamento del governo tedesco investe la posizione stessa dell’Europa. Più che discutere di questo e dei cambiamenti radicali che l’unilateralismo americano introduce nei rapporti internazionali, sostituendo alla prevenzione della guerra la guerra di prevenzione, la scelta tedesca è stata ridotta a una mossa elettorale, demagogica e opportunistica (si veda, fra gli altri, il commento di Sergio Romano sul Corriere, all’indomani delle elezioni).
 
Ora, non c’è dubbio che prendendo le distanze dall’amministrazione americana Schroeder abbia introdotto una dimensione nuova e imprevista nella battaglia elettorale. E, tuttavia, non si è trattato di una scelta improvvisa, di un’invenzione demagogica. La presa di distanza del governo tedesco aveva avuto un’elaborazione politica ben precedente all’ultima fase elettorale.
 
A maggio Joschka Fischer, non in un comizio elettorale, ma nella sua qualità di ministro degli Esteri, aveva apertamente criticato il discorso di Bush sul nuovo asse del male. Con un linguaggio non ambiguo e insolito nelle diplomazie europee, quando ci si rivolge agli Stati Uniti, aveva dichiarato: “Per quanto vi siano differenze di peso, un’alleanza tra partner che rappresentano libere democrazie non può essere ridotta all’obbedienza; i partner di un’alleanza non sono satelliti”.
 
Dopo 50anni di un’alleanza vissuta in un quadro gerarchico chiaramente delineato, il governo tedesco diceva al presidente americano di non essere disposto a seguire senza discutere. Più o meno nello stesso periodo, l’autorevole settimanale "Der Spiegel" annunciava i risultati di un sondaggio nel quale alla domanda se i tedeschi si sentivano partner su una base di parità nell’alleanza con gli Stati Uniti, solo il 26 per cento degli intervistati rispondeva positivamente.
 
E’ in questo contesto, che Schroeder, invece di fare il pesce in barile, appellandosi alle decisioni delle Nazioni Unite, dichiara di considerare la scelta della guerra “un’avventura militare” che minaccia di introdurre un fattore di ulteriore destabilizzazione del Medio oriente, col rischio di dissolvere definitivamente la coalizione realizzata dopo l’11 settembre contro il terrorismo. Si tratta di critiche di merito che, scriveva "The Economist" a metà settembre, “sarebbe sbagliato liquidare come una pura posizione elettorale”.
 
Se vogliamo parlare di una componente elettorale, questa sta nella radicalità con la quale Schroeder ha utilizzato l’argomento della guerra in una chiara e netta contrapposizione al conservatore bavarese Stoiber. Insomma, se questo tema ha contribuito, o è stato addirittura decisivo nell’evitare la sconfitta del partito socialdemocratico, è perché Schroeder ha scelto una linea di radicalizzazione delle differenze, piuttosto che collocarsi in una posizione di ambigua centralità, che solitamente non convince i moderati, mentre aliena quegli elettori di sinistra (e non) che affidano alla politica un compito di chiarificazione e di coerenza. La rottura fra la morale e la politica (di cui scrive Michele Magno nella sezione "Idee" di EL) è di per sé discutibile, ma certamente non ha mai giovato alla sinistra.
 
Se dalla vittoria rosso-verde tedesca viene, dunque, una lezione per la sinistra, è che la corsa al centro, lo sbiadimento delle posizioni, la notte della politica nella quale tutte le vacche sono nere, non paga. La destra è più forte, se i contendenti di sinistra o di centro-sinistra non hanno da proporre ragioni forti, e al tempo stesso chiare e impegnative, ragioni in grado di rendere evidente la differenza.
 
Ma se intuizione, spregiudicatezza e pragmatismo hanno garantito alla coalizione rosso-verde la vittoria elettorale, la sua gestione politica sarà tutt’altro che facile. Schroeder consegna a se stesso una Germania in difficoltà. All’inizio del passato decennio era un’indiscussa potenza economica a livello mondiale. Oggi è il paese che cresce meno in Europa, con un tasso di disoccupazione fra i più alti.
 
La Germania vive da un decennio in un limbo di scelte contraddittorie che ne frenano il dinamismo, la crescita, la fiducia. Nei quattro anni del suo primo mandato, Schroeder ha fatto scelte in un senso e nel senso opposto. Ha difeso l’industria tedesca, nella convinzione che la politica industriale è troppo importante per abbandonarla alla volubilità dei mercati (l’intervento per salvare la MobilCom, dopo il ritiro di France Telecom, è solo l’esempio più recente). Ha difeso contro la Commissione europea il ruolo di sostegno all’economia delle banche regionali. Ha continuato a investire colossali risorse pubbliche nei lander dell’est, a una media di 75 miliardi di euro l’anno (circa il 4% del Pil: come se l’Italia, in proporzione, investisse ogni anno 100.000 miliardi di vecchie lire nel Mezzogiorno). Ma, al tempo stesso, ha avallato la politica restrittiva prima della Bundesbank, poi della Banca centrale europea. Si è lasciato tentare dalla “terza via” di Tony Blair, in un’impossibile conciliazione fra il modello tedesco, basato sulla cooperazione sociale, con quello neo-liberale di stampo anglosassone.
 
La Germania ha continuato a vivere in un dilemma non sciolto. Da un lato, l’esigenza di una forte crescita per sostenere il finanziamento delle spese nei nuovi lander e uno dei più elevati standard di protezione sociale del mondo. Dall’altra, la pratica di tipo “deflazionista” mirata a ridurre il potere sindacale, contenere i salari, restringere la spesa sociale, liberalizzare il mercato del lavoro, puntando tutto sulle esportazioni. E rendendo la terza economia mondiale subalterna al ciclo economico americano, con le conseguenze che vediamo per la crescita non solo tedesca, ma europea.
 
Ora, nel definire il suo programma elettorale, Schroeder ha costituito una commissione, presieduta da Peter Hartz, manager di primo piano della Volkswagen, per elaborare una nuova politica per l’occupazione. E la commissione, dopo alcuni mesi di lavoro ha avanzato un ventaglio di proposte profondamente innovative. Come l’assunzione dei lavoratori disoccupati da più di sei mesi dagli uffici del lavoro, trasformati in agenzie per il lavoro temporaneo, con i livelli salariali fissati dai contratti; o come il finanziamento di dieci miliardi di euro per offrire un periodo di apprendistato a tutti i giovani al di sotto di 25 anni in cerca di lavoro. L’idea è di risparmiare i sussidi, in Germania molto generosi, pagati ai disoccupati, ridurre il lavoro nero, accrescere le entrate derivanti dai contributi sociali e, in definitiva, rilanciare la domanda interna, creando un circolo virtuoso fra crescita dell’occupazione e un più alto tasso di crescita economica.
 
Si ripropone, in sostanza, a Gerhard Schroeder la scelta fra la modernizzazione del modello “renano” e il richiamo del modello neoliberista. La scelta avrà un grande peso non solo per le sorti della Germania, ma per l’Unione europea, alle soglie dell’allargamento a Est e delle riforme istituzionali. La Germania, per il suo peso demografico e industriale, è la chiave della crescita europea. I dilemmi che stanno di fronte al riconfermato cancelliere tedesco sono anche i dilemmi dell’Europa. Una Germania in mezzo al guado sarebbe destinata ad accentuare il declino dell’Europa. Gli affari tedeschi ci riguardano da vicino. Sarà bene occuparsene con più attenzione che nel passato.
Lunedì, 30. Settembre 2002
 

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