Sanità: che brutta idea quelle mutue

Le ricerche mostrano che il modello del sistema sanitario nazionale è il meno caro e più efficace

Il Documento di programmazione economica e finanziaria inviato dal governo al Parlamento prevede la reintroduzione delle mutue, seppure – almeno per il momento – per scopi limitati (assistenza a persone affette da gravi malattie e anziani non autosufficienti). Il progetto, ancora del tutto indefinito nelle modalità di attuazione, è stato subito pesantemente attaccato dall’opposizione che vi ha visto un primo passo verso lo smantellamento del sistema sanitario nazionale pubblico e un provvedimento del tutto sbagliato anche se dovesse rimanere limitato alle aree di cui oggi si parla.

Conoscendo gli orientamenti generali dell’attuale governo, i sospetti dell’opposizione non si possono liquidare come un tendenzioso processo alle intenzioni. Il problema, comunque, si presta a diverse osservazioni da vari punti di vista.


1) Lo scopo esplicitamente dichiarato è di far pagare altri soldi ai cittadini per prestazioni sanitarie in modo diretto piuttosto che attraverso il prelievo fiscale. I fondi attualmente stanziati per la sanità non bastano – e del resto è noto che la domanda di prestazioni sanitarie tende a una crescita continua, specie in una popolazione “anziana” come quella italiana – e allora se ne tirano fuori delle parti a cui i cittadini sono chiamati a provvedere in altro modo.

Niente di diverso da ciò che si è fatto per le pensioni, tagliando le prestazioni pubbliche e istituendo i Fondi collettivi e cui si devono versare contributi aggiuntivi. La differenza è che per le pensioni si è trattato di un taglio vero, mentre in questo caso si parla di servizi che oggi sono largamente insufficienti e insoddisfacenti. Chiunque abbia la sorte di dover provvedere a un disabile sa bene che l’assistenza pubblica offre oggi un aiuto assolutamente impari alle necessità. Rende comunque assai perplessi la dichiarazione che l’adesione a queste mutue sarebbe “volontaria”.

Ci sono intere biblioteche sulla scarsa propensione ad assicurarsi volontariamente nei confronti di eventi futuri e incerti (come per esempio la non autosufficienza da anziani), e comunque questa propensione è direttamente proporzionale al reddito. Con i vecchi poveri che non si erano assicurati, poi che ci facciamo? Li lasciamo morire per le strade? Inoltre, se spetterà alle Regioni integrare con loro stanziamenti i bilanci delle mutue, la disparità di possibilità finanziarie, destinata ad accentuarsi progressivamente con il federalismo fiscale, potrà portare a differenze geografiche nell’assistenza sanitaria che potrebbero assumere dimensioni intollerabili.

2) Se davvero questo fosse il primo passo verso una riduzione del ruolo del Sistema sanitario nazionale, è bene ricordare che finora tutte le ricerche in materia, anche di organismi internazionali (OMS, OCSE), hanno dato risultati univoci. In termini di efficacia ed efficienza i paesi con sistemi sanitari nazionali ottengono le performance migliori, seguiti da quelli in cui la sanità è gestita con sistemi mutualistici e infine da quelli dove è affidata ai privati. Gli Stati Uniti insegnano.

Per la sanità si spende più del doppio che da noi (circa il 14% in rapporto al Pil, contro il nostro 8%) con risultati disastrosi: basti pensare ai livelli di mortalità infantile da Terzo mondo e ai circa 40 milioni di persone prive di ogni forma di copertura. In Germania, invece, dove il sistema è basato prevalentemente sulle mutue, per la sanità si spende assai più che da noi ma con risultati inferiori in termini di efficacia.

3) Il fatto è che la gestione privata (o privatistica) della sanità ricade in un problema cui oggi molto si parla: quello del conflitto di interessi. L’ospedale privato, fra una cura che costa 100 e fa guarire nell’80% dei casi e una che costa 200 ma fa guarire nel 90, certamente praticherebbe la prima. In un recente convegno si è fatto notare che una delle analisi che vengono praticate di routine ai neonati costa da sola 400 miliardi; se non si facesse, si stima che la mortalità perinatale aumenterebbe del’1 per mille (che in assoluto può essere considerato un rischio “sopportabile”, ma in rapporto a questo specifico problema è un aumento elevato).

In un sistema privato, con quel rapporto costo- rischio, quale assicurazione si sobbarcherebbe quella spesa? Possiamo anche pensare, nel migliore dei casi, che il medico spiegherebbe il problema ai genitori del nascituro e poi chiederebbe: “Se vuole, dunque, c’è un costo aggiuntivo di tot: allora, la facciamo o no?”. E possiamo anche ipotizzare la correlazione fra risposte positive e reddito della coppia.

Ciò detto, è però anche vero che la sanità non è un tutto unico, può essere scomposta in vari segmenti, e non è detto che alcuni di questi non possano effettivamente essere gestiti con più efficienza dai privati. Per capire quali basta verificare se in quel caso c’è o no il conflitto di interessi.

In conclusione, il progetto del governo, per quel poco che se ne sa finora, appare molto poco convincente e per giunta “sospetto” di essere solo il primo passo su una strada che pensa di bloccare la spesa della sanità pubblica privatizzandone via via alcune parti. Sarebbe più utile applicarsi a una razionalizzazione di ciò che esiste, dato che i margini di recupero degli sprechi sono senz’altro ampi.

Articoli correlati:
Il passo felpato del governo, di Antonio Lettieri

Venerdì, 26. Luglio 2002
 

SOCIAL

 

CONTATTI