Sana e robusta Costituzione

La vittoria del No è andata oltre le aspettative e testimonia una passione civile e politica spesso sottovalutata. Tanto più è singolare assistere, ora, alle ripetute offerte del centro sinistra per un dialogo che sembra avere come primo scopo la sua stessa esistenza piuttosto che i contenuti
Si poteva certo prevedere la vittoria del No, ma non una così straordinaria partecipazione al voto. Non vanno a votare in tanti nemmeno quando si deve eleggere il presidente degli Stati Uniti. In una torrida giornata di inizio estate, oltre 25 milioni di italiani si sono recati alle urne semplicemente per difendere la Costituzione, quella che c’è, che garantisce un’identità storica e nazionale a un paese che soffre di divisioni  profonde.
 
Il risultato è tanto più importante se si considera che il tema del referendum era stato per molti versi svilito e mistificato fino a ridurlo alla questione del numero dei parlamentari, sperando così la destra di mobilitare un riflesso qualunquista e anti-politico. Mentre, in realtà, all’insegna della modernizzazione, si tentava un’operazione di ribaltamento degli equilibri istituzionali, consegnando tutto il potere a un uomo solo, più o meno inviato dalla provvidenza. Altro che “pasticcio” come spesso si è detto con atteggiamento riduzionista nel campo del centrosinistra! La riforma rifletteva un perverso intreccio fra le pulsioni secessioniste della lega, simbolicamente rappresentate dalla devolution e le tendenze nostalgicamente bonapartiste di Alleanza Nazionale, mediate dalla spregiudicatezza sovversiva dell’uomo di Arcore.
 
Ma, pur di fronte a un pronunciamento popolare così netto, segno di una passione civile e politica troppo spessa sottovalutata, ora assistiamo a una strana e francamente incomprensibile pantomima. L’insistente appello al dialogo, da parte della maggioranza di governo e di una grande parte della stampa, per cambiare la Costituzione sembra un’operazione nella quale la metodologia del dialogo prende il posto della sostanza politica.
 
Una cosa è affermare in linea di principio che la Costituzione non si modifica senza un vasto consenso, altra cosa è proclamare che  si attendono proposte sulle quali sperimentare il metodo del dialogo e un possibile compromesso tra chi la Costituzione ha difeso e chi ha tentato di stravolgerla. Il principio del cambiamento, come autonoma virtù della politica, prevale paradossalmente sul principio dell’integrità della Carta costituzionale, fin quando non emergano esigenze di modifiche tanto precise quanto stringenti e mature nella coscienza popolare.
 
Si sente spesso un improprio riferimento all’esperienza francese che vide il passaggio dalla IV alla V Repubblica nel breve giro di qualche mese. Ma si tratta di un esempio illuminante nel senso opposto. Dimostra che le Costituzioni si cambiano al cospetto di eventi eccezionali, incontrollabili e quasi rivoluzionari, come fu il caso francese, quando il generale De Gaulle fu chiamato dalla riserva di Colombey les-Deux-Eglises, dove viveva nel ricordo delle glorie passate, per salvare la Francia alle soglie di un colpo di stato militare nel mezzo della disastrosa guerra d’Algeria.
 
Quando si afferma che la governabilità esige il rafforzamento del potere esecutivo, si entra su un terreno scivoloso che apre la questione del bilanciamento dei poteri, in altri termini del contestuale rafforzamento dei poteri del Parlamento e delle funzioni di garanzia del presidente della Repubblica. Se si tratta solo di rafforzare il ruolo del premier, allora il problema più che la Costituzione riguarda il sistema elettorale che in Italia favorisce la proliferazione di una miriade di partiti e partitini, che con il loro potere marginale di interdizione, di vita e di morte del governo, condizionano (o apertamente ricattano) il capo e la compagine di governo.
 
Un sistema elettorale, con una soglia significativamente selettiva per accedere al Parlamento, secondo l’esperienza tedesca, è ormai adottato largamente anche dai paese di nuova democrazia. Quando il numero dei partiti della coalizione di governo è sufficientemente ristretto (in genere, due o tre) il premier ha un potere trasparente e sufficientemente forte per guidare il governo, nominare e revocare i ministri, rimanendo salvo il potere del Parlamento di sfiduciare il governo e sostituirlo, se ve ne sono le condizioni, e il potere del capo dello Stato di indire nuove elezioni, se la crisi permane. Una soluzione che, accrescendo l’efficacia dell’esecutivo, non mette a repentaglio l’equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione.
 
Una puntuale riforma sarebbe, invece, richiesta per muovere verso un Senato “federale”, simile se non identico al Bundesrat tedesco, dove sono rappresentati i Lander. La riforma in questa direzione avrebbe il doppio effetto di differenziare il ruolo delle due Camere e, al tempo stesso, di creare un ulteriore bilanciamento tra il potere centrale e quello delle Regioni, soprattutto se approfondisce il tema complesso e ambiguo del federalismo fiscale in un quadro di rafforzata solidarietà nazionale.
 
Insomma, prima che una generica offerta di dialogo e di compromesso dovrebbero essere posti sul tavolo in termini rigorosi i problemi che si intende affrontare, mantenendo fermo il principio non solo dell’efficienza, ma assumendo, come criterio inderogabile, una corretto bilanciamento dei poteri. E’ questa l’essenza della democrazia, secondo la semplice e geniale intuizione di Montesquieu. Senza una organizzata divisione dei poteri non c’è democrazia. Il potere (politico e non) è essenziale nel perseguimento di obiettivi collettivi. Ma il potere oltre ad avere questa imprescindibile virtù, ha in sé, congenita, la maledizione dell’abuso. Il potere non controllato, non funzionalmente diviso e  bilanciato ha un  un’implicita tendenza a straripare.
 
Solo la mistificante ingenuità dei neoconservatori americani può diffondere la convinzione che l’Iraq (e in Italia non è mancato nemmeno a sinistra il plauso in questa direzione) è diventato un paese democratico dal momento che attraverso le elezioni, sciiti, curdi e arabi sunniti hanno votato per eleggere ciascuno i propri rappresentanti, sancendo così (democraticamente) un’irreparabile divisione del paese e, definitivamente, innescando la guerra civile.
 
Tra le proposte del centrosinistra la più ragionevole e condivisibile, proprio alla luce della massiccia vittoria del No, è quella che prevede la riforma dell’art.138, che definisce le condizioni per la modifica del testo costituzionale. Una riforma tesa a ribadire implicitamente la tendenziale rigidità della Costituzione a presidio della democrazia. Proposta che è l’esatto contrario della disponibilità all’esaltazione del dialogo come testimonianza di buona volontà nella direzione di una confusa vocazione al cambiamento.
Mercoledì, 28. Giugno 2006
 

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