Salvare l'auto è importante ma non basta

E' un settore strategico perché fornirà la domanda per lo sviluppo di produttori di tecnologie. Che però, per crescere in Italia, hanno bisogno di una politica industriale

A qualche settimana dall’esplosione annunciata del caso Fiat le riflessioni possibili non sembrano essere molto diverse da quelle iniziali.
Le cause sono note e ampiamente ricordate negli interventi riportati su EL:

- alla prima prova di incontro/scontro con una competizione di mercato reale la Fiat non ha retto sul piano finanziario, tecnologico, strategico e delle alleanze.

- in un paese dove da molti anni, indifferentemente con governi di centrosinistra e di centrodestra, la politica industriale è una questione “proibita” e delegata al presunto libero mercato e alle assurdità in materia di costo del lavoro, articolo 18 e simili, anche le crisi annunciate servono per varare delle rottamazioni ma non per correggere gli errori.

Al di là delle diagnosi e a parole – perché nella sostanza la situazione è molto meno chiara - sulla questione ora centrale e cioè se questo paese debba o meno rinunciare a progettare e produrre automobili, tra le due posizioni antitetiche – pur molto variegate al loro interno – sembra al momento prevalere quella che considera una iattura l’uscita dell’Italia anche da questo comparto. Non convincono, in definitiva, le argomentazioni di chi vorrebbe assumere come leggi naturali le regole del mercato che porterebbero alla chiusura della Fiat auto e di chi ritiene che si potrebbe produrre altro al posto di un prodotto “maturo” come l’automobile.

Contro quelle leggi naturali ci sono il caso Renault e il caso VW; contro la natura obsoleta del prodotto auto c'è il fatto che si confonde l’auto attuale con quella che ci sarà tra 5 o 10 anni; un prodotto che sarà, invece, un concentrato di innovazioni tecnologiche, mentre il produrre un generico “altro”, naturalmente tecnologicamente più avanzato, quando abbiamo perso da tempo e su un piano generale la competitività tecnologica, è un puro flatus vocis.

E’ proprio quest’ultima considerazione che rende molto più complesso affrontare positivamente il caso Fiat - ammesso che si voglia – rispetto ai casi citati francese e tedesco della Renault e della VW.

Dai sistemi di guida satellitari ai motori elettrici a celle combustibili, da nuovi materiali per alleggerire l’auto aumentandone la sicurezza, sino ad una serie di gadget utili o meno ma che comunque incideranno sul rapporto prezzo/prestazioni, l’auto, anche nella sua versione riconsiderata ma comunque necessaria di trasporto pubblico e privato, assemblerà una serie notevole di innovazioni tecnologiche. La differenza rispetto al passato, tuttavia non starà solo e principalmente in queste nuove tecnologie ma nel percorso innovativo: mentre sino a ieri le innovazioni nella catena di montaggio dell’auto alimentavano e trainavano l’innovazione di altri settori – dall’automazione industriale alla robotica - con l’affermarsi di nuovi e continui paradigmi tecnologici, il bandolo della matassa tecnologica è passato ad altri settori. L’industria dell’auto dovrà ancora fare ricerca e sviluppo in proprio ma dovrà sempre più assemblare nuove tecnologie nate e cresciute altrove. Il settore dell’auto fornirà la domanda per quella economia di scala che consentirà a molte di queste nuove tecnologie di affermarsi.

E’ in questo scenario che nasce la differenza tra il caso Fiat e quanto successo in Francia e Germania. Si potranno trovare le risorse finanziarie per correggere un piano finanziario che decretava in termini espliciti la fine della casa torinese; si potrà, forse, stendere anche un piano di diverso spessore, ferma restando la fondata probabilità che quella operazione condotta in termini di provocazione politico-sociale con indubbie relazioni tra Fiat e l’attuale governo, possa anche essere mascherata all’interno di una analoga soluzione condotta in termini più morbidi. Quello che certamente resta irrisolto – contrariamente alla Francia e alla Germania - è il declino industriale e tecnologico del paese che rende, anche da un punto di vista del semplice buon senso, improbabile immaginare la soluzione alta del caso Fiat. Se la Fiat per stare al passo dovesse rivolgersi in modo crescente all’estero per ottenere le tecnologie da assemblare, la Fiat stessa avrebbe non poche difficoltà per essere competitiva e, inoltre, il paese nel suo complesso pagherebbe i prezzi del crescente vincolo estero.

Per questi problemi c’è per ora solo una iniziale coscienza ma nessuna terapia. Per questo ulteriore passo, cioè per una concreta politica industriale, non ci sono ancora nemmeno i presupposti e più il tempo passa più dure e difficili saranno le terapie. Se l’eccezionalità del caso Fiat consente di immaginare, almeno sulla carta, delle soluzioni ad hoc, la parte sommersa dell’iceberg resta abbandonata a se stessa ma prima o poi potrebbe travolgere anche quelle soluzioni.

Se per spiegare la crescita dell’ inflazione molti economisti, anche a sinistra, hanno invocato una insufficiente liberalizzazione quando l’aumento dei prezzi è stato più sensibile per i beni di consumo quotidiano – che notoriamente con i cartelli o con l’economia pubblica hanno poco o nulla a che fare - vuol dire che nel nostro paese il mito del liberismo ideologico è ancora imperante. Ma per fare una politica industriale utile per questo paese – e non per un altro – occorre invece inventare nuovi strumenti di intervento pubblico.

Peraltro, come diceva uno storico, il fatto che si abbia coscienza di una crisi non vuol affatto dire che allora si hanno anche le capacità per fermarla. Anche la crisi dell’impero romano era nota ai contemporanei... E, su una diversa scala, anche la crisi della Fiat era nota.

Martedì, 11. Febbraio 2003
 

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