Salario minimo, più problemi che vantaggi

Nei due disegni di legge in Parlamento si ipotizzano 9 euro lordi (5S) o addirittura netti (Pd): si porterebbe così il salario minimo legale al livello più alto dell’Ocse rispetto al salario mediano, incoraggiando il sommerso che è già tra i più alti a rispetto ai paesi comparabili

La cronaca parlamentare c’informa che, almeno sino ad oggi, le due proposte di legge - sull’istituzione, anche nel nostro paese, di un salario minimo legale - hanno ufficialmente prodotto soltanto una serie di audizioni; mentre invece, sul piano pratico, già da tempo sull’argomento, tra gli “addetti ai lavori”, è in corso un proficuo confronto di merito.

In effetti, è opportuno rilevare che le due proposte, presentate da Mauro Laus del Pd nel maggio 2018 e da Nunzia Catalfo del M5S nel luglio dello stesso anno, rappresentano il frutto di una discussione che, già all’inizio degli anni 2000, aveva Marco Biagi (1)tra i suoi più noti interlocutori.

Tra gli addetti ai lavori che, con maggiore frequenza ed apportando interessanti elementi di discussione, si sono cimentati su questo tema, ricordo, in particolare, Tito Boeri (ex Presidente Inps) e Pietro Ichino (ex Senatore Pd). Anche Giuliano Cazzola (ex socialista convertitosi sulla via di Arcore) e Claudio Negro (2),della Fondazione “Anna Kuliscioff”, si sono più volte interessati all’argomento.

Personalmente, ho già avuto diverse occasioni per esprimere la mia contrarietà a un’ipotesi di tale genere. Credo però che, di fronte al susseguirsi di interventi quasi tutti a sostegno dell’istituzione del salario minimo legale, sia sempre opportuno contribuire ad alimentare il confronto; soprattutto da parte di chi dissente.

L’ultimo, interessante, articolo sul tema, prodotto da Claudio Negro, è stato pubblicato sul sito della Fondazione appena qualche giorno fa. Gli hanno fatto seguito alcune considerazioni di Giuliano Cazzola che, come Negro, meritano attenzione , soprattutto per essere eventualmente confutate nel merito.

Relativamente alle argomentazioni di Negro, è opportuno adottare il suo stesso sistema. Procedendo cioè, con il rispondere alle stesse domande che si pone lui. L’articolo inizia con una precisazione che, per la verità, appare per lo meno scontata, se non addirittura inutile e fuorviante, rispetto alla materia del contendere. E’ infatti indiscutibile che un conto sono i minimi tabellari, previsti dai contratti nazionali di categoria e/o di settore, che “incorporano una parte di redistribuzione della ricchezza creata” e non rappresentano un minimo “vitale”; tutt’altra cosa rappresenterebbe, invece, un salario minimo legale (Sml), stabilito per legge - indipendentemente dalla contrattazione collettiva - di carattere universale e capace di garantire a qualsiasi lavoratore un trattamento (minimo) “a prescindere dalle condizioni contingenti dell’impresa e/o del comparto”.

Ne consegue, quindi, che nessuno dei due strumenti - contratto collettivo o norma di legge - esclude l’altro. In effetti, tanto dal punto di vista teorico, quanto da quello pratico, le due soluzioni sono sicuramente compatibili. Si tratta di garantirne la reale coesistenza; senza che la contrattazione collettiva possa essere, di fatto, sostituita e/o annullata, da una disposizione di legge economicamente più conveniente per le aziende.

Al riguardo, è importante aggiungere che, di norma, in un paese nel quale i lavoratori godono di un’ampia e responsabile rappresentanza sindacale, con conseguente diffusa   contrattazione collettiva, si avverte molto meno l’esigenza di, eventualmente, ricorrere ad una legge per garantire a tutti un salario minimo.

Una soluzione, più o meno di questo tipo andrebbe, piuttosto, ricercata per quei milioni di lavoratori a (falsa) partita Iva, impegnati in “lavori a progetto” - che invece, nella stragrande maggioranza, andrebbero inquadrati tra quelli di tipo subordinato - e in tutti quei “lavoretti” che tali non sono e vengono così definiti solo perché espressioni di quella vera e propria giungla normativa consentita dalle sin troppe tipologie contrattuali oggi esistenti in Italia. Ma questa è un’altra questione; che troverà opportuni momenti di riflessione ed approfondimento.

Tornando alla prima domanda che si poneva Claudio Negro: “A chi serve un Sml in un paese quale l’Italia, in cui la copertura sindacale è piuttosto diffusa?”. Al riguardo c’è da precisare subito - pena il rischio di falsare, come cercherò di evidenziare, tutte le considerazioni che ne conseguono - che, a mio parere, Negro commette un errore nell’indicare, nella misura di 9,41 euro, la retribuzione oraria corrispondente alla media dei minimi contrattuali vigenti in Italia nel 2015. Ci sono infatti almeno tre dati che, sebbene indirettamente, concorrono a confermare che la retribuzione oraria minima prevista dai contratti nazionali possa essere indicata in un valore tra i 7 e, al massimo, i 7,50 euro: di certo, non superiore ai 9.

Il primo è rappresentato dal valore corrispondente, nello stesso anno, allo stipendio medio di un lavoratore italiano, indicato in euro 1.560 (3) che, ridotto alla retribuzione oraria, attraverso il comune denominatore, pari a 173, produce una retribuzione media oraria pari a euro 9,01.

Di conseguenza, con una retribuzione media di euro 9,01, tenuto presente il fortissimo divario esistente tra le retribuzioni medie percepite dai dirigenti, dai quadri e dagli impiegati che, nel 2015, rappresentavano complessivamente circa il 50 per cento degli occupati dipendenti - sul totale degli occupati - è da escludere che il valore minimo contrattuale possa essere pari a euro 9,41.

Il secondo è relativo al valore del cosiddetto “salario mediano” che, nel corrispondente anno, era pari a euro 11,20 e quindi, in quanto mediano – tenendo conto, anche in questo caso, delle notevoli differenze esistenti tra operai, impiegati, quadri e dirigenti - di certo espressione di valori “minimi” ben al di sotto dei 9,41 euro indicati da Negro.

Per concludere, con il terzo dato a nostra disposizione occorre rilevare che lo stesso Inps, in sede di audizione al Senato, ha evidenziato che, ancora nel 2018, ben l’86 per cento dei lavoratori subordinati guadagnava meno di 10 euro l’ora (il 46 per cento degli stessi, meno di 9 euro).

Credo quindi che il combinato disposto di questi tre importanti dati concorra a chiarire che la media dei minimi contrattuali, nel 2015, non potesse di certo essere pari a euro 9,41. Molto più attendibile un valore compreso tra i 7 e i 7,5 euro. Personalmente ritengo più vicino alla realtà un salario minimo contrattuale medio che, ancora oggi, corrisponde ai 7 euro orari, piuttosto che ai 7,5. Tale misura, tra l’altro, appare la più credibile anche alla luce di quanto indicato dal rapporto annuale dell’Istat, nel quale si afferma che, tanto nel 2015 quanto nel 2016, il salario mediano in Italia era pari a euro 11,20.

Ne consegue che oggi, nel nostro paese, il salario minimo, espressione dei contratti nazionali, è più o meno pari a poco più del 60 per cento del valore del salario mediano.

Ciò in effetti, produce un vero e proprio paradosso. Si rileva infatti che in Europa siamo, insieme a Francia, Portogallo e Slovenia, il paese nel quale esiste il più basso differenziale tra salario minimo (contrattuale o legislativo) e salario mediano; eppure, i salari dei lavoratori italiani sono i più bassi tra i paesi dell’Ue (esclusi, naturalmente, i paesi appartenenti all’ex Patto di Varsavia).

Cosa si evince da queste prime considerazioni? Se fosse vero che in Italia - cioè, nel paese che gode di un solo, famigerato, primato europeo: quello dell’ormai insostenibile livello di evasione fiscale e contributiva - il valore medio dei minimi contrattuali corrispondesse già a 9,41 euro, prevedere (come fanno il M5S e il Pd) un SmL di valore inferiore, pari ad appena 9 euro (lordi o netti che siano) comporterebbe, quasi inevitabilmente, due conseguenze; entrambe di segno negativo.

a)     una rapida disdetta, delle parti datoriali, dei contratti nazionali, al fine di corrispondere ai lavoratori, nel pieno rispetto della legge, salari inferiori ai precedenti (in questo senso, la vicenda Fiat/Marchionne, farebbe scuola);

b)    nessun beneficio - considerata la leggera differenza di valori - per quei lavoratori cui già non vengono riconosciuti i minimi contrattuali che, qualcuno lo crede, dovrebbero, invece, trarre beneficio dall’istituzione del SmL.

Credo, quindi, che, in realtà, si possa sostenere, senza tema di smentite, che:

1)     a fronte di minimi contrattuali che, in media, ancora oggi, equivalgono a un salario orario pari a 7,0 euro;

2)     considerato un valore del salario mediano pari a euro 11,20;

3)     rilevata la già alta percentuale esistente tra salario minimo orario e salario mediano, pari a circa il 62 per cento;

ipotizzare un SmL pari a 9 euro l’ora (lordi o addirittura netti), significherebbe prevedere un valore corrispondente all’80,4 per cento del salario mediano. Un rapporto percentuale che, a fronte di quelli esistenti in Ue, dal 40 per cento dell’Estonia, a circa il 62 per cento del Portogallo e della Slovenia, risulterebbe il primo in assoluto!

Un valore semplicemente assurdo; perché, in effetti, i 9 euro (lordi) - lasciamo perdere la boutade, targata Pd, dei 9 euro netti (pari a ben 13 euro lordi) - che, attualmente, rappresentano un livello retributivo cui ancora non riesce ad accedere quasi il 50 per cento dei lavoratori subordinati, sarebbero destinati a prendere il posto dell’attuale minimo, addirittura maggiorato di circa il 29 per cento!  Un chiaro invito ad allargare ulteriormente la già vasta area del sommerso.

La risposta alla seconda domanda risulta, invece, tanto ovvia da rasentare il superfluo.

Essa è relativa al motivo per il quale la contrattazione collettiva non possa, allo stato, stabilire livelli salariali validi per tutti i lavoratori e inderogabili da parte dei datori di lavoro. Si allude, evidentemente, alla mancata applicazione dell’art. 39 della Carta Costituzionale. Infatti, la mancata “registrazione” delle organizzazioni sindacali italiane impedisce loro che gli accordi, siglati con le Associazioni dei datori di lavoro, abbiano un’efficacia obbligatoria universale. Di conseguenza, gli accordi e i contratti nazionali finiscono con l’impegnare solo i firmatari e nulla vieta il proliferare di sindacati “di comodo”; firmatari di contratti che prevedono retribuzioni “al ribasso” che poi ciascun datore di lavoro, non aderente alle Associazioni sindacali datoriali ufficiali, è libero di applicare ai propri dipendenti. In questo senso, Marchionne docet!

La terza domanda che si pone Negro è relativa alla possibilità che la definizione di un Sml possa finire con l’invadere lo spazio oggi riservato alla contrattazione collettiva.

La sua risposta è che un SmL, fissato ad un livello prossimo ai minimi fissati dai Ccnl, potrebbe depotenziare la contrattazione, anche se, giustamente, rileva, gli elementi oggetto di contrattazione nazionale resterebbero comunque tantissimi, dagl’inquadramenti, agli orari, ai diritti sindacali, ecc.

Un Sml fissato, viceversa, ad un livello inferiore agli attuali minimi contrattuali, potrebbe, a suo parere - condivisibilissimo, come già anticipato - indurre i datori di lavoro a preferirlo, per risparmiare rispetto ai contratti nazionali.

Qual è, dunque, la soluzione suggerita da Negro? In estrema sintesi, essa consiste nella determinazione di un SmL fissato ad un valore orario “senza arrivare a ridosso dei minimi contrattuali”. Ciò consentirebbe, a suo parere, di adeguare in meglio la condizione di quel 10 per cento di lavoratori che, allo stato, “riceve un salario mediamente del 20 per cento in meno rispetto ai minimi settoriali.

Se ne deduce, quindi, che, per Negro, un SmL pari a 9 euro, a fronte dei 9,41 che, a suo parere, rappresentano la media dei livelli più bassi previsti dai Ccnl, rappresenterebbe il mezzo attraverso il quale aumentare il salario orario di circa 2.300.000 persone (suo dato relativo al 2018).

Pare, però, che la situazione sia un poco più complessa di quanto a prima vista possa apparire. Il punto è che, in sostanza, indicare in euro 9,41 il valore da assegnare alla media dei livelli minimi contrattuali, che, in realtà è più o meno pari a 7 euro l’ora, ha finito, a mio parere, con l’inficiare tutte le pur interessanti (successive) considerazioni di merito espresse dall’esperto della Fondazione. 

In effetti, considerata la condizione nella quale si ritrovano i lavoratori italiani - con una (realistica) media dei livelli contrattuali minimi uguale a 7,0 euro l’ora, corrispondenti, al 62,5 per cento del salario mediano, fissato a euro 11,20 - la istituzione di un SmL di 9 euro lordi (secondo la strumentale ipotesi del M5S e quella, oltremodo inverosimile, del Pd) produrrebbe lo straordinario effetto di portare le retribuzioni italiane al livello delle minime più elevate nell’area Ocse (4).

Non a caso, da quanto riportato dal recente rapporto JP Salary Outlook, realizzato dall’Osservatorio di Job Pricing, scaturisce che un eventuale SmL fissato a 9 euro l’ora, per effetto del moltiplicatore convenzionale delle ore medie mensili di lavoro (173) produrrebbe un salario minimo mensile pari a euro 1.557; molto al di là dei salari previsti, nei vari settori, per gli stessi impiegati nel livello retributivo più basso. Se ne deduce, a mio parere, che, in Italia, un SmL “credibile”, rispettoso cioè di parametri quali: a) minimi contrattuali, b) salario mediano e c) equo e verosimile rapporto percentuale tra i valori rappresentati rispettivamente da a e b, non potrebbe superare di molto il valore della già vigente media dei minimi contrattuali.

Quali benefici apporterebbe, quindi, ai lavoratori italiani?
Per qualcuno tra i tanti che, oggettivamente, non sempre dimostrano di sapere di cosa parlano, significherebbe aver finalmente, trovato “l’Araba Fenice”. Al riguardo c’è chi ritiene, al pari di Negro, che il SmL risolverebbe in via definitiva il problema di alcuni milioni di lavoratori ai quali, attualmente, vengono corrisposti salari inferiori ai minimi salariali di categoria. Qualche altro arriva addirittura a sostenere che un salario minimo stabilito non più tra le “parti sociali”, ma attraverso una norma di legge - quindi, erga omnes - contribuirebbe a meglio retribuire milioni di lavoratori sottopagati perché preda di tipologie contrattuali non riconducibili a rapporti di lavoro subordinato. Alludono, evidentemente a tanti tra coloro che operano con partita Iva e, in particolare, attraverso l’instaurazione di rapporti di lavoro “a progetto”.

In questo senso, perfino il presidente del Cnel, Tiziano Treu, sostenne che: “Il salario minimo non è certo l’unica misura che può contrastare il lavoro povero, ma potrebbe garantire - in virtù di una maggiore forza prescrittiva - una protezione più efficace nei confronti dei bassi salari, riducendo la discrezionalità e gli abusi nella determinazione dei livelli retributivi”.

In effetti, a mio parere, non succederebbe nulla di tutto questo. Innanzi tutto, va precisato che l’eventuale previsione di un salario minimo legale non necessariamente troverebbe automatica applicazione nei confronti di rapporti di lavoro ufficialmente non riconducibili a quello di tipo subordinato; nulla lo garantisce.

Detto questo, rilevo che è sin troppo evidente che un eventuale SmL avrebbe senso - e rappresenterebbe un argine naturale alla tentazione, da parte dei datori di lavoro, di non applicare più i Ccnl - solo se di importo superiore agli attuali minimi contrattuali. Però, anche un lieve aumento, attraverso l’applicazione generalizzata del SmL - in un contesto quale quello italiano, con evasioni ed elusioni contrattuali e contributive che non hanno uguali in Europa e con centinaia di migliaia di datori di lavoro che praticano il sommerso, attraverso lavoro “nero”, “grigio” e con le più svariate sfumature - comporterebbe, a mio avviso, il concreto rischio di produrre solo ulteriori fughe dalla legalità. In sostanza, credo che, di fronte a un pur lieve aumento degli attuali minimi, la “maggiore forza prescrittiva” della legge rispetto ai Ccnl - su cui fa affidamento l’ex Ministro del Lavoro del governo Prodi - non rappresenterebbe alcun motivo di dissuasione per quanti, già oggi, si sottraggono all’applicazione dei Ccnl.

La cronaca racconta che in Germania, a quattro anni dall’ introduzione del salario minimo legale, corrispondente a 8,5 euro l’ora - per cercare di recuperare il sostanziale fallimento della riforma Hartz, con milioni di lavoratori costretti ad accettare di lavorare alle miserevoli condizioni previste dai cosiddetti “mini jobs” - sono ancora in attesa che venga loro applicato ben un milione e 700 mila lavoratori.

Immaginiamo la nostra drammatica situazione, con circa 4 mila ispettori del lavoro e un milione e 800 mila aziende private da controllare. Tale da prevedere che, ciascun ispettore, dovrebbe “visitare” mediamente 456 aziende l’anno!

L’autore dell’articolo in oggetto, conclude con una “chicca” che non va assolutamente ignorata.

Il suo auspicio finale è, infatti, quello di pervenire all’individuazione di un “minimo orario medio, nazionale, per poi riparametrarlo per aree territoriali”. Ciò in virtù del fatto che, nella determinazione di un salario minimo, si pone un ulteriore problema: “Un livello ragionevole in Lombardia potrebbe essere fuori mercato in molte zone del Sud e, viceversa, un livello accettabile al Sud potrebbe essere irrisorio al nord!

E’ sin troppo evidente, al riguardo, come gli sfugga che, già oggi, anno di grazia 2019, la rilevazione relativa alle differenze retributive, tra un lavoratore del Nord e uno del Sud è (semplicemente) impressionante.

Al riguardo, la tabella che segue è sufficientemente eloquente.

Le differenze salariali nord-centro-sud

_________________________
Note
1)
“Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia” (ottobre 2001); pag. 13, quarto paragrafo, terzo rigo

2)“La questione del minimum wage – qualche osservazione di buon senso” (sito della Fondazione “AnnaKuliscioff”)

3)fonte JP Salary Outlook, realizzato dall’Osservatorio JobPricing

4)fonte Andrea Garnero, economista dell’Ocse

Domenica, 24. Marzo 2019
 

SOCIAL

 

CONTATTI