In questo senso, la discussione sarebbe (certamente) favorita dalla serena ed oggettiva valutazione di una serie di indici che concorrono a rendere più chiaro un tema intorno al quale i dubbi, le perplessità e le certezze di parte hanno fatto da costante eco alla pubblicazione del "padre di tutti i decreti". Un primo elemento di riflessione è rappresentato dalle rilevazioni Istat sulle forze di lavoro.
Trimestri di |
Occupati |
Tasso di |
Tasso di |
Tasso di |
4° trim. 2003 |
22.462.000 |
57,9 |
8,3 |
63,2 |
3° trim. 2006 |
23.001.000 |
58,4 |
6,1 |
62,3 |
differenze |
+ 539.000 |
+ 0,5 % |
- 2,2 % |
- 0,9 % |
Come si evince dalla tabella, il confronto tra i dati relativi al quarto trimestre 2003 (entrata in vigore del decreto legislativo 276/03) e gli ultimi disponibili (terzo trimestre 2006), concorre a dimostrare, senza ombra di dubbio, che l'atteso boom occupazionale (garantito dai sostenitori ad oltranza delle nuove norme) ha finito con il rivelarsi, in sostanza, di gran lunga inferiore alle attese.
Infatti, è interessante notare che il saldo tra gli occupati rilevati alla fine del 2003 - di cui 16.208.000 dipendenti - e quelli statisticamente censiti nel terzo trimestre 2006 (di cui 16.992.000 dipendenti) presenta un segno positivo di 539 mila unità, non irrilevante, ma ben lontani dal quel "secondo miracolo italiano" tanto evocato e pubblicizzato. Soprattutto, se si considera che nel frattempo - e con determinante peso, rispetto alle rilevazioni - erano state regolarizzate le posizioni di alcune centinaia di migliaia di lavoratori extracomunitari, ufficialmente non presenti nelle precedenti rilevazioni.
In questo contesto, agli stessi tassi di occupazione e disoccupazione, aumentati e calati, rispettivamente, dal 57,9% al 58,4% e dal 8,3% del 2003 al 6,1% del 2006, fa da (negativo e fondamentale) contraltare un'ulteriore contrazione del tasso di attività (dal 63,2 al 62,3 per cento): il che significa che un rilevante numero di inoccupati ha rinunciato a cercare un lavoro, evidentemente - soprattutto nel Mezzogiorno - non avendo fiducia nella possibilità di trovarlo.
Tra l'altro, in questo senso, risulta poco comprensibile - se non ricondotto ad una posizione precostituita e di parte - l'insistenza con la quale la Confindustria continua a sostenere l'assoluta necessità di non intervenire (in alcun modo) rispetto alla legge Maroni, mentre la quasi totalità delle controparti contrattuali ha preferito ignorare il "surplus di flessibilità" consentito dalle vigenti disposizioni di legge. Lo stesso segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni (in un'intervista a Repubblica), opera un sottile distinguo tra il "sostenere i cardini della legge Biagi" e "condividere la sua applicazione".
Naturalmente, questo non significa che la oggettiva pericolosità delle vigenti norme - nel senso della possibilità di "parcellizzazione delle imprese" (ad esempio, attraverso l'agevolata cessione di ramo d'azienda) e della deresponsabilizzazione del datore di lavoro nei confronti dei tanti lavoratori, a vario titolo, presenti in una singola unità produttiva - sia da considerare scongiurata; si tratta di prendere atto che alle dichiarazioni d'entusiasmo, che precedettero e seguirono la legge 30/03 prima ed il decreto legislativo 276/03 poi, ha fatto seguito una realtà ben diversa dalle aspettative.
Anche rispetto alla pretesa possibilità di intervenire, attraverso la legge Maroni, in modo efficace per frenare la piaga del lavoro nero, c'è da prendere atto che le aspettative sono state, nei fatti, platealmente disattese; ancora oggi, si tratta di un fenomeno che continua a falsare la concorrenza e traviare l'economia del nostro paese.
Un obiettivo è stato, però, certamente conseguito dalle norme annunciate dalla legge 30/03 ed introdotte dal 276/03; e si tratta di un risultato per nulla positivo!
In sostanza, nell'immaginario collettivo si va affermando l'idea secondo la quale, così come efficacemente la sintetizza Aris Accornero ("San Precario lavora per noi") la precarietà del lavoro rappresenta ormai un fenomeno ineludibile; nelle nuove, come nelle vecchie generazioni. Il problema è che, anche se fosse del tutto vero - come sostiene Accornero - che nel nostro paese la precarietà è più "percepita" che "rilevata", è indiscutibile che essa si avvia a rappresentare la caratteristica comune all'attuale e futura occupazione; in particolare quella giovanile. Il che, confermerebbe, evidentemente, la felice intuizione di Luciano Gallino (vedi "Il costo umano della flessibilità") quando si soffermava sulle molte facce ed i tanti oneri del lavoro flessibile.
Vanno letti in questo senso i dati relativi al costante aumento degli occupati a termine (+ 1% rispetto agli occupati dipendenti, ma + 11,2 per cento nell'ambito della stessa classe, dal 2003 al 2006); senza contare che in questi valori non rientrano né le collaborazioni coordinate continuative, né il lavoro a progetto.
Tra l'altro, c'è un'altra "leggenda metropolitana" che andrebbe sfatata; si tratta della (vituperata) rigidità del mercato del lavoro italiano. Infatti, i dati Istat ed Eurostat - disponibili relativamente agli anni dal 1996 e 2003 - evidenziano che il cosiddetto lavoro "standard" (dipendente a tempo pieno ed indeterminato) marca in Italia una notevole contrazione mentre nell'Europa a 15 continua ad aumentare (32,4% contro il 39%, nel 2003).
Certo, non bisogna sottovalutare gli importanti provvedimenti adottati con la Finanziaria 2007, che interviene, con particolare incisività, in merito alle norme sugli appalti, nonché rispetto all'obbligo della comunicazione preventiva di assunzione dei lavoratori ed al rinvio ai contratti collettivi nazionali quali riferimenti da adottare per identificare il compenso dovuto ai collaboratori. Ma ciò considerato, e preso anche atto delle attuali difficoltà, a partire da quelle interne alla stessa maggioranza di governo, ad intervenire rispetto alle norme dettate dal decreto 276/03 e rinviando a tempi migliori una sua profonda "rivisitazione", se non riscrittura, parrebbe saggio porre attenzione e dedicare maggiori energie nei confronti di altri due provvedimenti legislativi, ereditati dal precedente esecutivo. Intendo riferirmi alle norme in materia di lavoro a termine (D. Lgs. 368/01) ed in materia di part/time, come riformato dal decreto legislativo 276 del 2003. Si tratta, in effetti, di due questioni che rivestono un carattere emblematico in tema di flessibilità/precarietà.
Rispetto al primo tema, è certamente lodevole l'iniziativa del ministro del Lavoro che ha già invitato le parti sociali ad aprire un confronto teso alla rivisitazione della vigente disciplina. L'auspicio è che si renda possibile, prima di tutto, il ripristino di una corretta gerarchia tra il rapporto di lavoro a tempo indeterminato e quello a termine. In questo senso andrebbero ristabilite delle causali di tipo oggettivo, meno permissive di quanto non lo siano oggi ed in grado di ricondurre questo particolare rapporto di lavoro ad una sua specificità e ad un uso meno discrezionale rispetto all'attuale; di conseguenza, sulla scorta del primo punto, andrebbe rivista e corretta l'attuale indeterminatezza della durata del rapporto.
Naturalmente, senza per questo pretendere di costringere altri a convergere sulle nostre posizioni, andrebbero ricondotte ad accordi collettivi eventuali deroghe ed eccezioni; non ultimi - oltre alle percentuali di utilizzo - precisi vincoli rispetto ad un uso reiterato dello stesso strumento per esigenze che, sostanzialmente, non presentino limiti di temporaneità.
Per quanto attiene al part-time, in breve, si tratta di prendere atto che la vera e propria contro-riforma operata dal governo Berlusconi ha prodotto, nei confronti di tutti i lavoratori coinvolti (ed, eventualmente, interessati), un'ulteriore dose di incertezza e, soprattutto, ingiustificata precarietà. Ad esempio, non si può leggere altrimenti il combinato disposto tra le norme che regolano il ricorso alle clausole cosiddette "flessibili" ed "elastiche" - così come concepite dal legislatore ed ulteriormente aggravate dalla circolare dell'allora ministro del Lavoro - e quelle relative alla disciplina del lavoro supplementare, oltre che straordinario. Allo stato, si tratta, in effetti, di disposizioni che rendono il lavoratore part-time un vero e proprio "ostaggio" della volontà unilaterale del datore di lavoro.
Per concludere, già intervenire rispetto a queste due grandi questioni rappresenterebbe un concreto segnale di svolta; confermerebbe, inoltre, la reale volontà di produrre, oltre che annunciare, il cambiamento.