Per ridurre le tasse serve concorrenza

Quasi tutte le ipotesi di alleggerimento delle imposte su cui si è centrata la campagna elettorale non funzionerebbero, perché molti soggetti economici sono in grado di trasferire buona parte del carico fiscale su chi usufruisce dei loro beni o servizi. Il rimedio può essere uno solo: una massiccia dose di liberalizzazioni

Nella battaglia elettorale il tema fiscale è stato molto dibattuto. Al di là delle promesse miracolistiche questo approccio è sostanzialmente corretto perché tassazione e spesa pubblica rappresentano i legami che trasformano un aggregato di individui in una comunità organizzata. Oggetto dei dibattiti sono state la pressione fiscale, la sua sostenibilità, la tipologia dei tributi, le modalità di riscossione, la distribuzione del carico fiscale sulle varie categorie. Trapela un comune sentire nella direzione dell'alleggerimento dei tributi. Carenti sono le indicazioni sulle coperture finanziarie, in presenza di programmi di crescita che normalmente implicano aumenti di spesa.

 

La domanda che dovremmo porci e che non comporta risposte univoche è la seguente: chi paga davvero le tasse in un'economia dinamica dove gli impulsi sono trasmessi dagli scambi di mercato?

    

Negli anni '60 quando la pressione fiscale cominciò ad aumentare nel quadro di una politica economica che prevedeva un aumento dell'intervento pubblico (era l'epoca dell'IRI come motore di sviluppo, della costruzione delle grandi infrastrutture e della Cassa per il Mezzogiorno) si accese un vivace dibattito fra gli studiosi di finanza pubblica sui fenomeni che tendono a trasferire l'onere impositivo dal percosso (il contribuente formalmente tenuto al versamento del tributo) all'inciso (colui che ne sopporta l'onere effettivo tramite variazioni di costi e di prezzi). L'eco di questi dibattiti sembra essersi affievolita se non spenta. Può essere interessante riprendere l'argomento in connessione con le molteplici proposte elettorali.

 

Il criterio generale è il seguente: la possibilità del contribuente colpito di scaricare su altri l'onere del tributo dipende dalla sua forza di mercato e cioè dal suo potere contrattuale. Superfluo imbarcarci in un dibattito teorico. Procederemo per esempi significativi.

    

Partiamo dall'Imu. Sgombriamo il campo dalla poco credibile promessa di restituzione dell'importo pagato nel 2012. Secondo il Nens favorirebbe in modo smaccato i grandi contribuenti. Nessun vantaggio trarrebbero i proprietari con abitazioni modeste e figli, di fatto esenti (il 25% dei proprietari di prime case non ha pagato nulla). Meno che mai gli affittuari, ai quali il fitto è stato aumentato e non sarà diminuito. Il Pd propone di aumentare le detrazioni per le prime case accrescendo l'aliquota per la grande proprietà immobiliare. Trattandosi di un mercato tipicamente oligopolistico con ogni probabilità l'onere sarà trasferito sugli affittuari e sugli acquirenti di abitazioni. Non vale l'obiezione secondo la quale la crisi del mercato immobiliare renderebbe difficile la traslazione in avanti. Gli oligopolisti, non di rado legati fra loro anche da vincoli di parentela, sono in grado di governare la congiuntura calante restringendo l'offerta. I crolli dei prezzi verificatisi in Spagna e negli Usa da noi non sono avvenuti se non in misura ridotta. Le finalità perequative della manovra risulterebbero dunque vanificate.

    

Le preoccupazioni per le dinamiche elusive sono alla base della contrarietà del Pd nei confronti della patrimoniale sulle disponibilità finanziarie per il fondato timore di fughe di capitali. Traducendo in bersaniano, "la ricchezza se ne va, la povertà rimane". Considerazioni analoghe valgono per altri tipi di tributi o di provvedimenti annunciati. Ad esempio, la non pignorabilità delle prime case provocherebbe il crollo dei mutui immobiliari. Quale istituto di credito potrebbe erogare un finanziamento a lungo termine senza garanzie? Ancora una volta la norma finirebbe per favorire gli acquirenti più ricchi in grado di offrire garanzie collaterali o di pagare cash.

 

Quanto all'Iva e all'Irap, che nei calcoli della Cgia di Mestre sono incluse nella pressione fiscale sulle imprese, giungendo alla spettacolare cifra del 67%, in condizioni normali di mercato si incorporano nel prezzo dei prodotti e ricadono sul consumatore finale. Il fenomeno è così radicato da costituire un elemento fondante degli equilibri aziendali. Ciò spiega l'arretratezza gestionale di molti esercizi commerciali. Conseguentemente quando la domanda si riduce e diventa elastica rispetto al prezzo essi vengono falcidiati. Si fa acuta la competizione con supermarket e discount, che puntano più sulle economie di scala che sulla traslazione in avanti.

    

Un discorso analogo vale per gran parte delle nostre imprese industriali con l'eccezione rilevante dei campioni nazionali che sorreggono le nostre esportazioni nel mondo. La mitologia del "piccolo è bello" ha spinto a privilegiare dimensioni aziendali che per molti anni hanno trascurato le innovazioni tecnologiche e organizzative,  basando il proprio equilibrio sul trasferimento sul consumatore dell'onere tributario o magari addirittura sull'evasione. Questa fragile struttura soffre i venti della crisi e le sue capacità di reazione sono minori soprattutto quando la successione manageriale è di tipo ereditario.

 

Contrariamente a quanto si riteneva un tempo in dottrina, anche le imposte personali sul reddito quando colpiscono determinate categorie di contribuenti finiscono col trasferirsi in avanti. Tocchiamo qui il delicato problema delle professioni. E' un mondo arroccato nei suoi ordini che resiste a qualunque forma di competizione. Il mantenimento di tariffe minime adeguate ai costi e alle parcelle dei professionisti più affermati consente, soprattutto nei casi di alta specializzazione, un trasferimento pressoché totale dei tributi sui clienti. Conseguentemente un aumento della pressione fiscale su queste categorie tende a tradursi in un aumento dei prezzi dei servizi. Questo fenomeno ha valenza regressiva perché distorce gli obiettivi perequativi della politica e perché esso è maggiore nel caso di beni o servizi a domanda rigida (medicine, prestazioni ospedaliere, bisogni incomprimibili dei ceti più poveri).

 

Esiste un rimedio efficace nei confronti di questi meccanismi di mercato? Paradossalmente la soluzione si trova proprio nel miglior funzionamento dei meccanismi stessi e cioè nella concorrenza, se non perfetta almeno molto accentuata. La conclusione operativa è tanto semplice da enunciare quanto difficile da realizzare, come l'esperienza insegna: perché una manovra fiscale perequativa produca gli effetti voluti deve essere accompagnata o meglio ancora preceduta da massicce liberalizzazioni che investano tutti i protagonisti del gioco di mercato.

     

Una proposta abbastanza simile vale anche per la riduzione della spesa pubblica. La Corte dei Conti quantifica in 70 miliardi il costo della corruzione, cifra che equivale ad un corrispondente aumento della spesa pubblica. La corruzione si annida nella macchinosità delle procedure e nella carenza di competizione verificabile e verificata. Ancora una volta un mercato libero-concorrenziale con procedure semplici e trasparenti potrebbe consentire rilevanti risparmi di spesa senza intaccare il livello delle prestazioni ai cittadini. Risulterà colpito il sottobosco degli intermediari, restituendo equità alla struttura reddituale con l'eliminazione di ceti parassitari.

La vecchia alternativa Stato/mercato si modificherebbe dunque in un miglior funzionamento del mercato per un miglior funzionamento dello Stato. Verrebbe meno soprattutto quella rappresentazione da Commedia dell'Arte nella quale quelli che per le tasse protestano di più sono gli stessi che di fatto ne pagano di meno.

Giovedì, 28. Febbraio 2013
 

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