Ricchi e poveri nel paese del debito

Dove stiamo andando/4 - A partire dagli anni Ottanta la disuguaglianza è aumentata dappertutto, ma i dati Ocse e Fmi ci dicono che in Italia i redditi più bassi sono sotto la media generale e i più alti al di sopra e la ricchezza privata è maggiore che in Francia e Germania. Per abbattere l’enorme debito pubblico si dovrebbe attingere lì, ma il dolore dei privilegiati è sempre più considerato di quello dei disagiati

(Quarto articolo di una serie – il primo – il secondo – il terzo)

Probabilmente in modo del tutto indipendente dalla considerazione di Keynes, resta il fatto che a partire dalla politica roosveltiana e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, il processo di sviluppo si è basato su una progressiva riduzione delle diseguaglianze. Il che ha contribuito a stimolare in modo decisivo la domanda aggregata. Ma, purtroppo, dalla fine degli anni ’70 con l’aumento dei devoti nella fede della “deregulation” le diseguaglianze sono ritornate a crescere. Non stupisce quindi che nei paesi sviluppati la “maggior parte della torta” sia progressivamente servita ad alimentare la speculazione piuttosto che gli investimenti nell’economia reale. Col risultato di arricchire i pochi ed impoverire i molti.

L’aspetto singolare è che in parecchi abbiano volutamente scambiato questa restaurazione del “doppio inganno” (che con la crisi attuale sta mostrando tutti i suoi perversi effetti) con la via maestra alla modernizzazione. Senza dare particolare peso al fatto che la spesa per il consumo dipende dal reddito delle famiglie e che la conseguente insufficienza della domanda aggregata è il risultato della crescita delle diseguaglianze e, dunque, del mutamento nella distribuzione del reddito che ha caratterizzato la vita economica dei paesi sviluppati negli ultimi decenni.

In proposito l’Italia costituisce un esempio paradigmatico. Basta vedere come si è evoluta  la distribuzione del reddito negli ultimi 20 anni. Per farlo può essere utile il rapporto Ocse “Growing unequal?” (Crescente diseguaglianza?). Che consente di confrontare la situazione italiana con quella dei principali paesi sviluppati: Germania, Francia, Regno Unito e Usa. Ebbene, da questo raffronto emerge che l’Italia è il paese che riesce a cumulare le caratteristiche più negative, sia dei paesi anglosassoni che di quelli del continente europeo. E poiché questi dati fanno riferimento alla distribuzione del reddito precedente allo scoppio della crisi finanziaria, sfociata nell’attuale drammatica crisi dell’economia reale, aiutano anche ad individuare una delle sue cause fondamentali. Il dato più significativo è che l’aumento della diseguaglianza, a partire dalla fine degli anni ottanta, è stata ovunque determinato dalla diminuzione della quota delle retribuzioni sul reddito nazionale. Ma, mentre questa quota è diminuita significativamente in tutti i paesi Ocse, in Italia è addirittura crollata. La conseguenza è che la quota del reddito nazionale ottenuta attraverso il lavoro in Italia è tra le più basse dei paesi Ocse.

Ovviamente la diminuzione della quota di reddito da lavoro dipendente dipende in larga misura dall’evoluzione del salario reale. A questo riguardo (secondo le stime del rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro) emerge che a parità di potere d’acquisto, tra il 1988 ed il 2006, gli stipendi reali sono diminuiti in Italia di circa il 16 per cento. Gioca in proposito anche la mancata funzione redistributiva della tassazione. Attiva invece altrove. Al punto che da noi l’imposta sul reddito delle persone fisiche, nel tempo, ha finito per trasformarsi in imposta specifica sui salari e sulle pensioni. Comunque, per valutare gli effetti delle politiche redistributive bastano pochi riferimenti. sufficiente infatti confrontare i redditi mediani con quelli del decile più povero e quelli del decile più ricco della popolazione. Se si fa questa verifica ci si rende subito conto dell’anomalia e della gravità della situazione italiana. Infatti, mentre sia per il reddito mediano che per il reddito del 10 per cento più povero l’Italia è in fondo alla classifica dei paesi Ocse, il reddito del 10 per cento più ricco della popolazione risulta invece più alto della media Ocse.

Se questa difformità non fosse ritenuta probante può essere aggiunta anche la considerazione relativa alla elasticità dei redditi intergenerazionali. Elasticità che indica la possibilità che i figli possano mantenere lo stesso reddito dei padri. O addirittura migliorarlo. Più basso è il valore dell’indice e più alta è la probabilità che i redditi possano migliorare di generazione in generazione. Purtroppo l’Italia ha un valore particolarmente alto di questo parametro. I dati della maggior parte dei paesi europei, a cominciare dalla Francia e dalla Germania, mostrano invece che la mobilità sociale ed intergenerazionale è favorita tanto da una distribuzione meno diseguale del reddito che dalla maggiore efficacia delle istituzioni del Welfare.  Non a caso, guardando alle classifiche europee, l’Italia si situa agli ultimi posti nell’efficacia distributiva dell’intervento pubblico.

Certo occorre capire quanto la scarsa efficacia dell’intervento dello Stato sia dovuta all’alta evasione fiscale e agli sprechi nella spesa pubblica e quanto dipenda invece dalla struttura stessa della tassazione e dei trasferimenti. Il fatto però rimane incontrovertibile. In ogni caso, l’Ocse ci informa che la progressività dei trasferimenti e di conseguenza il loro impatto redistributivo è molto minore in Italia rispetto alla media di tutti gli altri paesi aderenti. Tanto per quanto riguarda le persone in età da lavoro, che per gli anziani. Se ne dovrebbe trarre la conclusione che, sia con il proposito di contrastare la recessione stimolando la domanda aggregata, che per avviare una correzione vera delle cause strutturali della crisi, ci si dovrebbe misurare con il problema della congruità e dell’efficacia dell’intervento redistributivo dello Stato. E quindi con un vero programma di riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali.

Disgraziatamente però questo tema finora non sembra far parte delle priorità della politica. E ciò è tanto più preoccupante perché, insieme ai problemi derivanti dalla crisi globale, l’Italia è alle prese con un debito pubblico enorme. Debito che ci siamo impegnati a ridurre in venti anni (con il “fiscal  compact”) dall’attuale 120 per cento al 60 per cento del Pil. Il che equivale al 3 per cento del Pil ogni anno. Più o meno 50 miliardi di euro. E se il Pil non dovesse crescere di altrettanto (cosa più che probabile nei prossimi anni) ciò comporterà nuove manovre correttive di  bilancio ed inevitabili nuovi dolorosi tagli.

Potremmo liberarci di (o quanto meno ridurre) questa ipoteca, altrimenti mortale, affrontando i termini reali della questione. Il punto che occorre avere chiaro è che, indipendentemente dal fatto che sia giusto o no, politicamente accettabile o meno, la ragione vera della crisi di alcuni paesi europei è la loro posizione sull’estero fortemente negativa. In sostanza, l’esistenza di un elevato stock di debiti (pubblici e/o privati) accumulato nel tempo verso creditori stranieri. Sappiamo bene che sono vari i fattori che possono concorrere al peggioramento di questo indicatore. Tra i quali il perdurare di una situazione di bilancia delle partite correnti strutturalmente passiva, o una quota crescente di debito pubblico sottoscritta da investitori esteri. E’ evidente che una posizione netta negativa è tanto più preoccupante, oltre che gravosa in rapporto al Pil, qualora un paese disponga di un patrimonio finanziario risicato. Perché allora nessuna possibilità di abbattere il debito stesso può essere effettivamente praticata da uno Stato in difficoltà finanziaria. E’ il caso della Grecia. Infatti, la posizione netta sull’estero di Atene è negativa per un ammontare pari al 99 per cento del Pil, ma la ricchezza netta delle famiglie greche (secondo i dati del Fmi) è ormai precipitata al 56 per cento del Pil. Per cui la posizione internazionale “in rosso” della Grecia equivale addirittura al 177 per cento dello stock attuale della ricchezza privata. Una situazione analoga, anche se un poco migliore, è presente in Irlanda, Spagna e Portogallo.

Alla luce degli ultimi dati del Fmi, gli unici due grandi paesi avanzati che non hanno problemi al riguardo sono oggi la Germania ed il Giappone. Entrambi hanno infatti una posizione netta sull’estero fortemente attiva. In più il Giappone vede finanziato il 93 per cento del suo debito pubblico (che, come ricordato, è enorme) dai giapponesi stessi. Questo spiega perché il Giappone, pur avendo un grandissimo debito statale, non è considerato a rischio. La buona posizione netta sull’estero rispetto alla ricchezza privata spiega anche perché gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, nonostante abbiano deficit statali primari oggi imponenti, siano percepiti come paesi “poco a rischio”. Per quanto riguarda l’Italia, se consideriamo il debito pubblico sottoscritto da stranieri, non dovrebbe essere neanche essa considerata un “paese a rischio”. Infatti (utilizzando sempre gli indicatori del Fmi) nel 2010 il debito pubblico italiano collocato all’estero era pari al 47 per cento del totale. Vale a dire il 56,4 per cento del Pil (cioè il 47 per cento del 120 per cento). Si può aggiungere che se rapportiamo il debito pubblico estero non al Pil, ma alla ricchezza privata, otteniamo i seguenti valori: Germania 32,6 per cento; Francia 43 per cento; Italia 31,6 per cento. Dunque in Italia la ricchezza finanziaria privata (senza considerare quella immobiliare che è enorme e sommata alla prima è superiore di oltre 7 volte l’intero ammontare del debito pubblico) può controbilanciare persino meglio, di quanto non siano in grado di fare Germania e Francia, il debito pubblico estero.

Teoricamente quindi i “fondamentali” (come si usa dire) sono buoni. C’è però un piccolo dettaglio. Se la ricchezza finanziaria ed immobiliare resta immobilizzata nelle mani dei privati e lo Stato deve cercare di “rifinanziare” il suo debito rivolgendosi ai “mercati”, il problema resta ed i costi del “servizio sul debito” diventano esorbitanti. Il che induce le agenzie di rating (non solo per intenti complottistici, o malvagità) a ritenere che possa sussistere un rischio di insolvenza. Per scongiurare le conseguenze indesiderabili di questa situazione non c’è che un modo: fare una operazione straordinaria che permetta una consistente riduzione dello stock di debito accumulato. Cosa che può essere fatta, sia alienando una parte del patrimonio pubblico inutilizzato, che con un equivalente prelievo sulla ricchezza privata. Prelievo che può assumere tanto le forme del “prestito forzoso”, che di una patrimoniale.

A questo punto la domanda è inevitabile. Cos’è che impedisce di intervenire in questo senso e cercare di allontanare l’Italia da un gorgo che può rivelarsi estremamente pericoloso? Da quel che è dato capire, non ragioni di carattere economico, ma essenzialmente considerazioni politiche. Come ha più volte sottolineato Galbraith, non bisogna mai dimenticare che la causa della pace sociale si è sempre nutrita dalle grida di angoscia dei privilegiati. Nessun paese fa eccezione. Ma in questo l’Italia è in prima fila. Da noi infatti i ricchi sentono più profondamente dei poveri le ingiustizie di cui si credono vittime e la loro capacità di indignazione e reazione non conosce limiti. Quando i poveri ascoltano i loro lamenti, molti di essi finiscono per convincersi che i ricchi ed i benestanti soffrano davvero. Finiscono così per accettare la propria sorte con più rassegnazione. Al punto che non pochi politici, rendendosi conto che è impossibile confortare i tormentati senza tormentare i confortati, utilizzano questa dinamica anche come un calmante sociale ad effetto immediato. Queste furbizie però non risolvono nulla. Perché con l’illusione di potersi affidare all’astuzia politica aumentano solo i rischi dell’avventura.

Sappiamo che l’analisi di sostenibilità del debito pubblico non è una scienza precisa. E’ quasi una forma d’arte. In ogni caso è sempre un motivo sufficiente per prendere alla gola i paesi più esposti. E sciaguratamente l’Italia è tra questi. Quindi un intervento robusto e convincente per la riduzione dello stock di debito pubblico darebbe all’Italia il respiro necessario per provare a rimettere in piedi la sua economia. Tuttavia, per uscire dalle secche e sperare davvero di rimettere in moto la crescita, questa azione indispensabile deve essere accompagnata anche dall’urgente avvio di un diverso modello di sviluppo economico. Il quale non può che trovare in una seria correzione delle diseguaglianze il suo effettivo punto di credibilità e di forza. Senza di che la crisi continuerà inesorabilmente a produrre soltanto costi economici, sociali ed umani, sempre più esorbitanti. Del resto, se si hanno chiare le vere cause della crisi non c’è alcun dubbio che la prima “riforma strutturale” debba consistere proprio nella riduzione significativa delle diseguaglianze. Sia per correggere l’eccentricità dell’Italia rispetto alla condizione dei principali paesi industrializzati, che per aiutare il capitalismo a salvarsi da sé stesso. Cioè dalla sua avidità e dalla sua miopia.

                                                                                                                                  (segue)

Mercoledì, 18. Aprile 2012
 

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