Referendum, i pretestuosi motivi del SI

Un editoriale di Marco Travaglio a sostegno del taglio del numero dei parlamentari offre l’occasione di controbattere punto per punto alle argomentazioni di chi è favorevole alla riforma

Dell’attuale (mediocre) panorama giornalistico italiano ho, talvolta, condiviso qualche editoriale “al vetriolo” di Marco Travaglio; direttore de “Il Fatto Quotidiano”.

L’ho sempre fatto, però, con grande cautela e molte perplessità perché, a prescindere      dall’abisso ideologico e politico che mi separava da colui che lo stesso continua a indicare quale suo “maestro” di giornalismo (cioè Indro Montanelli), mi risultava difficile riuscire a comprendere fino in fondo la sua autentica “vocazione” politica.

Probabilmente la diffidenza nei suoi confronti era dettata, in particolare, dalla notevole supponenza intellettuale e dall’incrollabile dose di certezze che hanno sempre accompagnato le sue quotidiane elucubrazioni.

Assolutamente coerente, quindi, al suddetto stile, la sua replica a una lettera attraverso la quale Alfiero Grandi1 - ex Segretario confederale della Cgil nazionale ed ex Responsabile nazionale dei problemi del lavoro degli ex DS - gli illustrava i motivi che, a suo parere, avrebbero dovuto indurre gli elettori a esprimere un convinto NO al referendum confermativo sul “taglio” dei parlamentari.

L’incipit della replica non concedeva alcun margine di dubbio.

A Grandi veniva subito contestato il massiccio ricorso a un disordinato mucchio di stereotipi; contraddittori e, in parte, anche falsi. Fino al punto di mettere in dubbio la paternità della missiva.

Ciò che però, credo, interessi in modo particolare, non è il discutibilissimo stile del direttore quanto il merito delle sue considerazioni a favore della riduzione del numero dei parlamentari; da 945 (630 deputati e 315 senatori) a 600 (400 più 200).

In questo senso, nel negare il carattere “populista” della riforma, Travaglio, a sostegno della proposta del M5S e del (presunto) carattere “di sinistra” della stessa, richiamava le proposte della Commissione Bozzi (1983), della bicamerale De Mita-Iotti (1993) e il programma di governo dell’Ulivo (1996).

In effetti, questo dei “precedenti” più o meno illustri non è una novità introdotta da Travaglio; si tratta di un punto che è stato richiamato spesso dai sostenitori del SI.  

È un riferimento, però, molto forzato e fuorviante rispetto all’attuale materia del contendere.

Infatti, in ossequio alla storia del nostro Paese e per onestà intellettuale, andrebbe precisato che (in particolare) alla Commissione bilaterale presieduta dal deputato Aldo Bozzi, erano stati assegnati compiti di ben altro livello; tutt’altro che un semplice taglio dei parlamentari.

Non a caso, la relazione conclusiva di quella “bicamerale” prevedeva sì (anche) una riduzione del numero dei parlamentari, ma ciò avveniva in un contesto di ben più ampio respiro: le relazioni conclusive (una di maggioranza e ben sei di minoranza) spaziavano, infatti, su temi quali: il Parlamento, il governo, le fonti normative, la Presidenza della Repubblica, i partiti e il sistema elettorale.

Il nuovo testo dell’art. 69 della Costituzione prevedeva, ad esempio, di stabilire un limite alle spese che i candidati avrebbero potuto affrontare per la competizione elettorale e fissava norme adeguate a prevenire e reprimere eventuali violazioni.

Si trattava, in definitiva, di intervenire su 44 diversi articoli della Costituzione.

Un confronto, quindi, semplicemente irriverente e assolutamente improponibile quello tra le riforme “organiche” perseguite dalle bicamerali (Bozzi, De Mita/Iotti e Ulivo) e il progetto espresso dal M5S; un obiettivo minimale, dettato esclusivamente da uno spirito di rivalsa nei confronti dell’odiata “casta”.

Altrettanto discutibile è la posizione di Travaglio quando sostiene che la decisione di autoridurre il proprio numero rappresenti, per i parlamentari, un atto lodevole e opposto all’opportunismo.  

È vero, invece, l’esatto contrario. Stante l’attuale sistema elettorale, ridurre drasticamente il numero dei parlamentari (circa il 37 per cento) significa solo rafforzare il potere delle segreterie dei partiti nell’individuazione dei soggetti da far eleggere ed aumentare il potere dei singoli eletti; rendere, in sostanza, la casta ancora più casta!

Sovrastimato (quindi falso) appare l’ammontare del risparmio economico che il taglio produrrebbe a favore delle spese dello Stato. Il direttore, così come Di Maio e Pietro Ichino, parla di circa 500 Mln per ciascuna legislatura; ma, in effetti, un calcolo molto vicino alla realtà - a cura del senatore Malan (Forza Italia) - quantifica il risparmio2 in circa 60 Mln annui.

Inoltre Travaglio, preda della sua foga moralizzatrice e animato solo da incrollabili certezze, disconosce anche che il numero dei parlamentari rappresenti un “lascito” dei nostri padri costituenti. Ciò in virtù del fatto che, a suo parere, l’attuale numero degli stessi fu deciso non nel 1948 ma solo successivamente; nel 1963.  

Ciò è vero, ma lo è solo in parte.

Infatti, se è vero che, modificando quanto previsto dalla Costituzione, la legge costituzionale 9 febbraio 1963, numero 2, fissò il numero dei parlamentari in 630 più 315, è altrettanto vero che i padri costituenti avevano previsto che il numero degli stessi variasse - nel corso degli anni - in base a un rapporto fisso con la popolazione: un deputato ogni 80 mila abitanti e un senatore ogni 200 mila.

Allo stato, considerati i 630 deputati e i 315 senatori, in sostanza il rapporto è più o meno pari a i deputato ogni 96.00 abitanti e 1 senatore ogni 190 mila abitanti; in eccesso alla Camera e in difetto al Senato, rispetto a quanto previsto dalla Costituzione.

Un’eventuale vittoria dei SI produrrebbe: 1 deputato ogni 150 mila abitanti e 1 senatore ogni 300 mila.

Un rapporto esorbitante rispetto alle previsioni di Terracini; ma in linea con il piano della P2 di Licio Gelli.

Anche il successivo, tra i 7 punti che Travaglio indica a sostegno del SI, mostra di essere abbastanza aleatorio; se non palesemente infondato.

Ciò perché, consapevole che la realizzazione dell’eventuale taglio richiederebbe la stesura di una nuova legge elettorale, Travaglio si affida alla speranza che i futuri 600, a differenza di quanto avviene oggi, possano non più rappresentare dei semplici “nominati” da parte delle segreterie di partito, ma “eletti” “meno indistinti, più forti, autonomi e autorevoli”.

Si rifà, in effetti, a una classica ma sconveniente metodologia politica, adottata fin troppo spesso nel nostro Paese: prima si cambia la norma e poi l’attuazione dei provvedimenti legislativi, che dovrebbero garantirne il buon funzionamento, resta affidata alla speranza. 

In questo senso, un esempio eclatante è abbastanza recente.

Si è intervenuti - attraverso disposizioni legislative con effetti immediati - sull’art. 18 dello Statuto, rendendo più “agevole” il licenziamento dei lavoratori, ma siamo ancora in attesa dei provvedimenti che avrebbero dovuto aiutare i lavoratori licenziati nella ricerca di una nuova collocazione lavorativa.

Inoltre, non è condivisibile, anzi, direi, assolutamente ingannevole, è il confronto che Travaglio fa tra il numero dei parlamentari italiani (sommando deputati e senatori) e quello degli altri paesi europei limitato, però, solo ai componenti delle “Camere basse”; equivalenti alla nostra Camera dei deputati.  

La motivazione è dettata, a suo parere, dal fatto che non tutte le “Camere alte” europee (equivalenti al nostro Senato) sono elette direttamente dai cittadini, così come avviene in Italia.

Appare ovvio, invece, che la motivazione ha un sapore esclusivamente funzionale alla sua posizione.

Infatti, se la richiesta del taglio dei parlamentari italiani risponde a un’esigenza di contenimento dei costi della politica - così come sempre rivendicato dal M5S - un confronto omogeneo con le altre democrazie occidentali va fatto comprendendo i costi complessivi; tanto quelli delle Camere basse (elette direttamente), quanto quelli delle alte (“nominate” nel Regno Unito o elette dai “grandi elettori”, negli altri paesi dell’Ue).

Dulcis in fundo, un’altra “speranza” espressa da Marco Travaglio è che, una volta ridotto il numero dei parlamentari, allo scopo di evitare che molte Regioni non siano più rappresentate al Senato, la maggioranza tenga fede all’impegno di riformare la struttura dei collegi elettorali.

Esattamente il contrario di ciò che andrebbe fatto quando ci si appresta, in modo serio e responsabile, a una seria riforma costituzionale, piuttosto che a un’operazione propagandistica.

In definitiva, così come l’incipit, la conclusione di Travaglio, a sostegno del suo inossidabile SI, rappresenta (ancora) una granitica certezza:” Dire che il taglio renderà difficile il funzionamento e il ruolo delle Camere è un nonsense: l’efficienza di un’assemblea è inversamente proporzionale al numero dei suoi membri”. Non la pensava così il Presidente dell’Assemblea Costituente, Umberto Terracini, secondo il quale: “Quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti”.

Tra l’altro, giusto per concludere con un’amenità, se, nel giudizio finale, anche il numero delle motivazioni addotte a favore del SI o del NO dovesse assumere una qualche valenza, Travaglio risulterebbe sonoramente sconfitto (5 a 0) da Paolo Becchi (docente di Filosofia del diritto) e Giuseppe Palma (Avvocato) che, in una recente pubblicazione3, hanno indicato ben 12 motivi a sostegno del NO.

 

NOTE

1)      Fonte: “Il Fatto Quotidiano”, del 20 agosto 2020

2)      “Una riforma sbagliata. Dodici motivi per dire No al taglio dei parlamentari”; Editore GDS

3)      Fonte: “Fanpage.it”; articolo a cura di Adriano Biondi, del 12 luglio 2019

Giovedì, 17. Settembre 2020
 

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