Quota 1.500 per l'euro? Silvio sulle orme di Benito

La sparata di Berlusconi sulla "lira svenduta" ricorda la "quota 90" di Mussolini. Allora per l'economia fu un disastro, e oggi sarebbe stato peggio. Infatti gli imprenditori premevano per ottenere una parità ancora più bassa

L'uscita del nostro (si spera ancora per poco) Presidente del consiglio, ovviamente in televisione, sul fatto che si sarebbe dovuti entrare nell'euro a 1.500 lire, non può non far venire in mente la "quota 90" di Mussolini. La lira si era svalutata di un 20%, e il neo duce decideva per una violenta rivalutazione, tale da riportare prestigio alla lira e al suo condottiero. Fu attuata una dura politica deflativa, con una pressione sui salari nominali; insomma come curare con salassi una persona affetta da tisi. Seguirà dopo poco la grande crisi degli anni trenta, con un'economia che vi arriva già debilitata. Un'entrata nell'euro con una rivalutazione di quasi il 30% avrebbe avuto, sull'economia italiana, degli effetti, a dir poco, disastrosi. Invece della stagnazione degli anni duemila avremmo avuto una drammatica recessione.
 
Per fortuna quindi che Berlusconi era, in quel momento, impossibilitato a fare danni. Ma in realtà avrebbe potuto? La risposta è no, per due motivi: il primo è che sicuramente tedeschi e francesi avrebbero impedito un simile suicidio. Un cambio lira-marco a 760 lire non si sognavano neppure di chiederlo; la proposta era molto più modestamente un cambio a 950. In effetti poi i cambi avvennero sulla base dell'andamento degli ultimi due anni. Ma l'altro motivo è che gli industriali avrebbero fatto fuoco e fiamme visto che chiedevano un cambio col marco sulle 1050 lire; va ricordato che un esponente di primo piano del mondo confindustriale, Cesare Romiti, esprimeva la sua contrarietà all'adesione all'euro, per il motivo diametralmente opposto che l'economia italiana non poteva privarsi dell'arma della svalutazione, alla quale aveva fatto ricorso così tante volte negli anni precedenti. 

Per la verità Berlusconi, in altre occasioni, ha riecheggiato il tema dell'euro come gabbia entro la quale non si sarebbe dovuti entrare. In quei casi l'occhiolino veniva strizzato nella direzione degli industriali. Peccato che la conseguenza di una simile scelta sarebbe stata, con ogni probabilità, un default all'Argentina. Ricordiamoci che il debito pubblico era sul 120%, i tassi d'interesse avevano 500 punti base di spread sul marco (e non i 25 attuali); l'entrata nell'euro ha consentito di risparmiare un paio di punti di PIL di spesa per interesse.

Questa volta, a Porta a Porta, invece l'occhiolino era diretto verso i consumatori, e verso l'effetto inflazionistico dell'euro. Ora, che questo effetto ci sia stato, è fuor di dubbio. Qualche lettore più anziano si ricorderà che qualcosa di simile era successo al momento del passaggio dall'IGE all'IVA. In teoria il passaggio sarebbe dovuto avvenire a parità di prezzi, ma così non fu. Tutti i settori non esposti alla concorrenza internazionale, quindi in particolare il settore dei servizi, decisero di fare tutti un passo avanti, aumentando i prezzi.

Lo stesso è successo con l'euro. Un esempio può essere utile: a Roma molti bar praticavano un prezzo di 1200 lire per una tazzina di caffè. Quando iniziò la circolazione in euro e in lire, la tazzina fu fissata a 62 centesimi, che corrisponde quasi perfettamente alle 1200 lire. Appena cessò la circolazione in lire, tutti i  bar passarono istantaneamente a 65 centesimi. Sembra una sciocchezza, ma vuol dire un aumento del 4,8%. Un politica di controllo ed interventi da parte del governo avrebbe potuto evitare questi istantanei aggiustamenti; ma Berlusconi aveva cose più importanti cui pensare.     

Martedì, 17. Gennaio 2006
 

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