Prodi, le tasse e il cavaliere

Un governo sempre in bilico, ma che potrebbe anche durare grazie alla divisione dell'opposizione e alla mancanza di alternative. Dovrebbe approfittarne per una manovra fiscale diretta all'equità e al rilancio dell'economia in affanno. Perché sono sbagliate alcune ipotesi di detassazione dei salari

Mentre componiamo questa cronaca tutte le circostanze sembrano riunite per la caduta del governo Prodi prima che finisca il mese di gennaio. Mastella chiede la solidarietà formale della maggioranza al suo scatenato attacco alla magistratura. Di Pietro si dichiara indisponibile. Pecoraro Scanio è chiamato sotto la scure di una  mozione di sfiducia a rispondere del disastro dei rifiuti in Campania. Dini, dal canto suo, si è ripetutamente chiamato fuori dalla maggioranza (pur senza mai darne ragioni di qualche consistenza). Tutto è pronto per la caduta del governo. Berlusconi assicura ormai da mesi che è questione di giorni. Ma il governo dura.

 

A questo punto le previsioni rischiano di essere un vaniloquio al quale il paese dimostra di non appassionarsi. Più che fare previsioni, possiamo perciò chiederci perché il governo non è già stato mandato a casa. E la risposta è probabilmente molto semplice. La sua debolezza non basta a segnarne il destino. Per mandar giù il governo non sono sufficienti i sondaggi più o meno manipolati del cavaliere. E’necessaria una mozione di sfiducia dell’opposizione che raccolga la maggioranza dei voti. Forse potrebbe anche raccoglierli, acquistando qualche voto in libera uscita o puntando sui dissensi anche espliciti ai margini della maggioranza. Ma l’opposizione, per fortuna di Prodi, è profondamente  divisa al suo interno.

 

Una volta caduto il governo bisognerebbe, infatti, andare alle elezioni con la vecchia legge elettorale: cosa che non dispiace affatto a Berlusconi, ma cancellerebbe la lunga manovra di presa si distanza e autonomizzazione di  Casini e, per alcuni versi, di Fini. Il cavaliere tornerebbe ad assumere il bastone di comando. D’altra parte, un “governo del Presidente” con il compito di rifare la legge elettorale avrebbe, a sua volta, bisogno di un consenso largo per elaborare e far passare una legge nel giro di poche settimane, senza la quale si va diritti al referendum. In questo caso, benché Berlusconi si dica contrario, la soluzione più plausibile sarebbe un accordo Veltroni-Berlusconi per far passare una legge elettorale ibrida, proporzionale nella forma e maggioritaria nella sostanza: uno scenario altrettanto indigesto per i partiti minori del centrodestra che vi leggono la minaccia di una “Grande coalizione” post-elettorale, del resto esplicitamente teorizzata da Tremonti, numero due di Forza Italia.

 

Come si vede, il governo può cadere per la sua irreparabile fragilità, ma potrebbe anche non cadere per le divisioni interne all’opposizione. Se rimane in piedi, si porrà con urgenza la questione della riforma elettorale. Ma questo è un tema che coinvolge direttamente il Parlamento. Il governo dovrebbe invece affrontare la vera questione che grava sul paese: la caduta della crescita e l’acuirsi del malessere sociale.

 

La minaccia incombente di una recessione americana tocca da vicino l’Europa che ha visto diminuire di mese in mese le previsioni di crescita. E le difficoltà europee si fanno sentire ancora più pesantemente in Italia che ha visto abbassare le previsioni di crescita da quasi il 2 a un misero 1 per cento. Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, la banca centrale degli stati Uniti,  ha spiegato alla commissione del bilancio del Congresso che intende ridurre ancora i tassi d’interesse, ma che la manovra monetaria non sarà sufficiente da sola, e ha chiesto misure fiscali di sostegno all’economia immediate, dichiarando che anche un ritardo di qualche mese potrebbe essere deleterio. E’ bene ricordarlo, perché la Banca centrale europea continua a fare un discorso rovesciato. Considera l’inflazione il maggior pericolo e minaccia di aumentare (anziché diminuire) il tasso di sconto. Si tratta di una posizione insensata, ma Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, si considera al di sopra di ogni osservazione o critica.

 

In effetti, l’inflazione è al 3,1 per cento nell’eurozona, ben al di sotto degli Stati Uniti dove ha superato il 4 per cento. In ogni caso, l’inflazione non dipende dall’aumento dei salari e dei consumi, ma - secondo l’indice dell’Economist  - dall’aumento del 25 per cento, nel corso del 2006, del prezzo delle materie prime e dell’80 per cento di quello del petrolio. La perdita del potere d’acquisto che ha già ridotto i consumi essenziali delle famiglie non può abbassare il tasso d’inflazione (che, del resto, la Bce prevede a medio termine all’1,9 per cento), ma solo aggravare la situazione alimentando un mix micidiale di inflazione e recessione.

 

Considerato, tuttavia, che la Bce intende andar per la sua strada e che in ogni caso la manovra monetaria non è da sola sufficiente a scongiurare il rischio di recessione, secondo l’ammonimento del presidente della Fed, altro non rimane che accelerare e rendere consistente la manovra fiscale che il governo Prodi ha annunciato. Da questo punto di vista, la caduta del governo e le elezioni in primavera – che si presentano come una eventualità concreta – rischiano di affondare definitivamente l’economia e aggravare intollerabilmente la situazione sociale del paese. Paradossalmente le possibilità che si aprono per il governo sembrano, da questo punto di vista, particolarmente favorevoli. Il governo si trova per la prima volta da molti anni in una situazione per molti versi eccezionale: disavanzo di bilancio ai minimi, progresso nella riduzione del debito col traguardo al di sotto del cento per cento del Pil, recupero consistente di quote di evasione: condizioni che consentono una significativa riduzione delle imposte col doppio obiettivo di una politica di equità e di sostegno alla crescita.

 

Le ipotesi in discussione sono diverse, pur avendo tutte un chiaro riferimento alla necessità di intervenire sui salari e rilanciare i consumi. Proviamo a esaminarle schematicamente. Una prima ipotesi si basa sulla detassazione degli aumenti salariali derivanti dalla contrattazione aziendale. A fianco al pregio di favorire questo secondo livello della contrattazione, ha il chiaro difetto di lasciar fuori la stragrande maggioranza dei lavoratori che non partecipano alla contrattazione aziendale.

 

Una seconda ipotesi  prevede la detassazione degli aumenti derivanti dalla contrattazione nazionale. Sarebbe superato il primo limite. Ma sia la prima che la seconda ipotesi pongono ulteriori interrogativi:  l’esenzione dalle imposte degli aumenti salariali riguarderebbe solo una tornata contrattuale? In questo caso saremmo a una soluzione una tantum ben lontana dall’intenzione di rafforzare il potere d’acquisto dei salari in termini strutturali. O, al contrario, si tratterebbe di una scelta strutturale?. In questo caso via via che gli aumenti si accumulano per il progredire della contrattazione ai diversi livelli, avremmo un doppio trattamento fiscale sui redditi di lavoro. Una parte del salario sarebbe tassata con aliquote elevate e progressive; un’altra parte sarebbe esentata indipendentemente dalla consistenza del reddito globale. Una situazione confusa e alla lunga distorcente e  insostenibile, tendente a dividere strutturalmente il mondo del lavoro e i lavoratori attivi dai pensionati.

 

Il metodo tradizionale per accrescere il potere d’acquisto dei salari rimane, in effetti, quello di aumentare le detrazioni  a vario titolo collegate al lavoro dipendente. Una soluzione chiara nell’impostazione e che entra nel sistema stabilmente.

 

Un’ulteriore ipotesi ventilata in sede di governo prevede un sostanziale abbassamento delle aliquote: in particolare, l’abbassamento della prima aliquota dal 23 al 20 per cento. L’obiezione principale del Tesoro è il suo costo, calcolato in circa otto miliardi di euro. Rimane il fatto che, se si vuole un effetto economico significativo per la ripresa della crescita, la riduzione delle imposte deve essere consistente. Inoltre, l’intervento sulle aliquote solleva riserva per il suo carattere di generalità ma ha il vantaggio politico di dimostrare che il governo mantiene l’impegno di una riduzione delle imposte per tutti come contropartita dei risultati della lotta all’evasione fiscale.

 

Negli Stati Uniti, Bush ha annunciato una manovra di 150 miliardi dollari che corrisponde all’1 per cento del reddito nazionale, e molti economisti considerano la misura insufficiente. Un intervento marginale rischia in Italia di rivelarsi, dal punto di vista economico, scarsamente efficace e, dal punto di vista sociale, deludente con effetti ancora una volta negativi in termini di consenso politico.

 

Concludendo, la caduta del governo sicuramente sarebbe destinata ad aggravare pesantemente la situazione. Ma anche la sua permanenza rischierebbe di essere ulteriormente frustrante se dovesse rimanere in una situazione di prolungata agonia. Potrebbe al contrario rivelarsi utile per il paese e - perché no? – per lo sfiduciato popolo del centrosinistra, se si mostrasse in grado di assumere scelte rapide e coraggiose. E sarebbe un modo di porre un freno alla deriva del paese  e – cosa non secondaria – di impedire che ricada nelle mani del cavaliere.

 

Sabato, 19. Gennaio 2008
 

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