Una maggioranza esile ed esposta agli umori di un qualsiasi Turigliatto. Ma il punto è che il governo Prodi non piace più a una parte importante delle classi dirigenti, che vorrebbero sostituirlo con uno centrista che attui finalmente una svolta "riformista", ovvero moderata
Il governo Prodi ha ottenuto la fiducia al Senato, ma sembra condannato a vivere una vita stenta e breve. I grandi giornali parlano di sopravvivenza e l'opposizione di una protratta agonia. Apertamente si discute di un altro governo che dovrebbe essere di larghe intese, pur non chiarendo quanto "larghe". Si tratta di includervi il partito di Casini, o di andare verso una Grosse Koalition che includa anche Berlusconi? Magari per votare una nuova legge elettorale e andare alle elezioni? A questi interrogativi per il momento con c'è risposta.
Ma possiamo fare un passo indietro, e chiederci in che senso il governo Prodi sarebbe condannato a una fine rapida e ingloriosa. La prima risposta è: non ha i numeri. Ma si tratta di una risposta che, a un esame ravvicinato, rivela più di un paradosso. La ratifica della fiducia è avvenuta al Senato con uno scarto di cinque voti, che in qualsiasi parlamento sarebbe considerato più che rassicurante. Ma, si sostiene, che questa è una maggioranza "numerica", mentre la maggioranza "politica" rivela uno scarto di un solo voto. Questa conclamata differenza fra le "due" maggioranze è stata talmente ripetuta, da apparire ormai ovvia. Ma ovvia non è affatto.
Facciamo l'ipotesi che al Senato il governo avesse ricevuto la fiducia degli stessi 158 senatori eletti, ma con uno schieramento rovesciato dei senatori a vita: due che non votano, uno che vota a favore e quattro che votano contro. Il governo avrebbe ottenuto la fatidica maggioranza politica (158 voti), ma non quella numerica (159 su 320). Che cosa sarebbe successo? Semplicemente il ritiro del governo per il voto contrario della maggioranza dei senatori. Il paradosso è servito. I voti dei senatori di diritto o di nomina del presidente della Repubblica si contano se sono contro la fiducia al governo, mentre non si contano se sono espressi a favore. Per dirla in altri termini, se alla prossima occasione i voti di due Nobel della politica come Turigliatto e Pallaro dovessero mancare e fossero sostituiti da quelli di Ciampi e Scalfaro, il governo dovrebbe dimettersi. Non credo che il presidente della Repubblica, con il suo ammonimento intorno alla necessità di dare stabilità al governo, volesse dire questo. E, come ha osservato Scalfaro, i voti sono tutti uguali, se poi il governo ritenesse di considerare chiusa la sua esperienza, questa è una libera scelta non un suo obbligo, né politico, né costituzionale.
Rimane il fatto che il governo Prodi è nato con una maggioranza risicata, frutto avvelenato di una legge elettorale che, con rara unanimità, è considerata un obbrobrio. Ma chiediamoci, per un momento, cosa sarebbe successo se la stessa risicata maggioranza fosse andata al centrodestra. Semplice. Berlusconi si sarebbe trovato nell'imbarazzante necessità di scegliere fra Palazzo Chigi e il Quirinale. Ed è del tutto probabile che oggi al posto di Napolitano avremmo Berlusconi. Lo stesso striminzito risultato elettorale - cambiato di segno - avrebbe riservato al paese un'autentica iattura, eventualità che abbiamo rimosso ma pericolosamente sfiorato.
La maggioranza non ha solo il "difetto" di essere esile, ma di dipendere dagli umori di Turigliatto. Il quale, dopo essersi fatto nominare dal partito (non eleggere da un adeguato numero di elettori, come succede nelle democrazie normali negli ultimi due secoli) afferma di essere assalito da "questioni di coscienza". Il cui esito è votare contro la coalizione di governo per la quale hanno votato anche i suoi elettori (si deve supporre consapevolmente) e, in ogni caso, 19 milioni di italiani. Con il non spregevole obiettivo di liberarsi di Berlusconi e della sua coalizione, anche se non ne sarebbero automaticamente derivati la palingenesi della Repubblica, il trionfo della pace nel mondo e della giustizia sociale in Italia.
Facciamo l'ipotesi che al Senato il governo avesse ricevuto la fiducia degli stessi 158 senatori eletti, ma con uno schieramento rovesciato dei senatori a vita: due che non votano, uno che vota a favore e quattro che votano contro. Il governo avrebbe ottenuto la fatidica maggioranza politica (158 voti), ma non quella numerica (159 su 320). Che cosa sarebbe successo? Semplicemente il ritiro del governo per il voto contrario della maggioranza dei senatori. Il paradosso è servito. I voti dei senatori di diritto o di nomina del presidente della Repubblica si contano se sono contro la fiducia al governo, mentre non si contano se sono espressi a favore. Per dirla in altri termini, se alla prossima occasione i voti di due Nobel della politica come Turigliatto e Pallaro dovessero mancare e fossero sostituiti da quelli di Ciampi e Scalfaro, il governo dovrebbe dimettersi. Non credo che il presidente della Repubblica, con il suo ammonimento intorno alla necessità di dare stabilità al governo, volesse dire questo. E, come ha osservato Scalfaro, i voti sono tutti uguali, se poi il governo ritenesse di considerare chiusa la sua esperienza, questa è una libera scelta non un suo obbligo, né politico, né costituzionale.
Rimane il fatto che il governo Prodi è nato con una maggioranza risicata, frutto avvelenato di una legge elettorale che, con rara unanimità, è considerata un obbrobrio. Ma chiediamoci, per un momento, cosa sarebbe successo se la stessa risicata maggioranza fosse andata al centrodestra. Semplice. Berlusconi si sarebbe trovato nell'imbarazzante necessità di scegliere fra Palazzo Chigi e il Quirinale. Ed è del tutto probabile che oggi al posto di Napolitano avremmo Berlusconi. Lo stesso striminzito risultato elettorale - cambiato di segno - avrebbe riservato al paese un'autentica iattura, eventualità che abbiamo rimosso ma pericolosamente sfiorato.
La maggioranza non ha solo il "difetto" di essere esile, ma di dipendere dagli umori di Turigliatto. Il quale, dopo essersi fatto nominare dal partito (non eleggere da un adeguato numero di elettori, come succede nelle democrazie normali negli ultimi due secoli) afferma di essere assalito da "questioni di coscienza". Il cui esito è votare contro la coalizione di governo per la quale hanno votato anche i suoi elettori (si deve supporre consapevolmente) e, in ogni caso, 19 milioni di italiani. Con il non spregevole obiettivo di liberarsi di Berlusconi e della sua coalizione, anche se non ne sarebbero automaticamente derivati la palingenesi della Repubblica, il trionfo della pace nel mondo e della giustizia sociale in Italia.
Ma ciò detto, sarebbe un errore ritenere che uno o due Turigliatto siano le uniche spine nel fianco di questo governo, il pugnale pronto a trafiggerlo. Il punto è che il governo Prodi non piace più a una parte importante delle classi dirigenti italiane. Vogliamo dire a quella parte che aveva deciso di sbarazzarsi di Berlusconi, adattandosi all'unica alternativa possibile rappresentata dall'Unione e da Prodi. A testimonianza di questa scelta, chiara e determinata, è sufficiente ricordare l'inusitata pubblica presa di posizione del direttore del Corriere della Sera, più o meno esplicitamente seguita da tutti i grandi giornali nazionali. Non sappiamo se questo sostegno sia stato decisivo nel contribuire a quello scarto elettorale marginale che ha consentito la vittoria dell'Unione. Ma un dato appare oggi evidente.
Una volta scongiurato il rischio di ritrovarsi Berlusconi a Palazzo Chigi o al Quirinale, lo scenario è radicalmente mutato. La luna di miele è finita. Niente di personale. Ma una buona parte di quelli che, in mancanza di alternative, si erano schierati per l'Unione, oggi considerano Prodi e la sua politica di mediazione con la sinistra "radicale" un impedimento per il riassetto su basi moderate (l'espressione in auge è: "riformiste") del paese. Non si tratta di pura idiosincrasia politica. Sono in gioco importanti questioni di merito, misure economiche e sociali che la sinistra radicale, attraverso Prodi, blocca.
Le liberalizzazioni di Bersani sono considerate un primo passo, ma poco più che simbolico. Bisogna riprendere il cammino delle privatizzazioni. E poi c'è l'eterna questione delle pensioni. La riforma c'è, e tutti sanno che è finanziariamente sostenibile. La Commissione europea ha ribadito quanto già si sapeva. Entro il 2050, la spesa non è destinata ad aumentare se non, nel peggiore dei casi, di qualche decimo di punto del PIL. Il problema vero è quello sella sostenibilità sociale. Vale a dire, del basso livello di sostituzione del salario, che si aggirerà intorno al 50 per cento dell'ultima retribuzione. Questo è senza dubbio un problema per i giovani. Ma per risolverlo si propone non un antidoto, ma un'aggiunta di veleno: il cambiamento dei coefficienti che dovrebbe produrre un'ulteriore riduzione delle pensioni future. E poi c'è la politica fiscale. Visto che le entrate migliorano, la rivendicazione di un sobrio conservatorismo dovrebbe essere quella di ridurre il debito pubblico che rimane fra i più alti al mondo. Ma al governo si chiede di ridurre le imposte, ovviamente comprimendo la spesa pubblica:come dire, la spesa per i servizi e la spesa sociale.
L'obiettivo non è il ritorno al centrodestra di Berlusconi. Più realisticamente, l'obiettivo è la riconversione del centrosinistra su posizioni "centriste". Basta uno scivolone ancora, e il governo Prodi va definitivamente a casa. L'alternativa sarebbero le elezioni anticipate? Sì e no. La più probabile potrebbe essere un governo - con denominazione variabile a piacimento: tecnico, istituzionale, del Presidente - appoggiato dall'UDC di Casini, senza escludere uno schieramento più largo, con l'emarginazione di quell'ingombrante sinistra con la quale Prodi si ostina a mediare, e con la quale è destinato a uscire di scena.
Uno o due Turigliatti potrebbero, in nome di una "questione di (in)coscienza", far venir meno la fatidica "maggioranza politica". I centristi ampiamente diffusi, non solo fuori ma anche dentro il centrosinistra, ringrazierebbero. E' l'auspicio che traspare da tanti editoriali della grande stampa. Ma quest'operazione, anche se chiara nei propositi, non è ovvia e scontata. Evitando errori - come quelli commessi con la finanziaria - e fruendo di tutti i voti disponibili a sostenerlo, il governo potrebbe durare e fare cose utili di cui il paese ha estremo bisogno. Secondo il vecchio adagio, finché c'è vita c'è speranza. Noi non vogliamo rinunciarvi.
Giovedì, 1. Marzo 2007