Polemiche senza Dignità

Gli scontri sui contenuti della relazione tecnica al decreto sono frutto di una sorta di “sagra dei malintesi”. Le stime che vi sono contenute non devono essere lette come previsioni sull’andamento dell’occupazione, servono solo per quantificare i possibili effetti sulla spesa pubblica, cosa che è richiesta dalle norme. Come è nato l’equivoco e come l’occasione è stata colta al volo per riaffermare posizioni ideologiche

Le polemiche innescate attorno al “Decreto Dignità” si prestano ad essere considerate da varie angolature, tutte utili per una messa a fuoco della situazione politica post 4 marzo.

La prima, immediata, riguarda il merito delle politiche del lavoro di cui il decreto vuole essere una prima anticipazione prospettando un ritorno indietro su due aspetti particolari di altrettanti provvedimenti-bandiera della gestione Renzi: il decreto Poletti sui contratti e termine e il Jobs Act. L’attenzione e la critica della passata maggioranza e del fronte imprenditoriale si sono focalizzate soprattutto sul taglio della durata massima e sul ripristino delle causali per i contratti a termine. Invertire la rotta, sia pure in nome della lotta alla precarietà – questo il loro argomento base – può innescare un rallentamento della crescita in quanto modifica in senso negativo per i datori di lavoro il quadro di convenienze. La tesi, in soldoni, è che vi sia una sorta di trade-off tra diminuzione della precarietà e aumento dell’occupazione. Su questo mi limito a osservare che la tesi, indimostrabile, contrasta con l’evidenza statistica che avvalora invece la tesi opposta, basata su robuste teorie economiche. Sappiamo però che è la tesi della destra economica, contestata non a caso dagli esperti, collocati saldamente a sinistra, che hanno collaborato alla stesura del decreto, da loro definito “un passo, certamente parziale, che va nella giusta direzione”.

Epicentro delle polemiche, la relazione illustrativa, vidimata dalla Ragioneria e, più in particolare, la relazione tecnica del ministero del Lavoro, cui si suppone abbia collaborato l’ufficio statistico dell’INPS (titolare, con il ministero, delle “Comunicazioni Obbligatorie”, dato amministrativo su cui si basano le stime). È esploso un problema di rapporto sia all’interno del governo tra componenti di diverso orientamento che tra politica e amministrazione: poiché le critiche di parte imprenditoriale (rilanciate a gran voce dalla passata maggioranza) erano presentate come desunte dalla stessa relazione di accompagnamento del decreto, il ministro Di Maio ha ritenuto in un primo momento di attribuire la responsabilità alla Ragioneria (sospettando un intervento “ostile” in sede di bollinatura) poi, una volta smentito, alla parte tecnica del suo stesso ministero, alimentando tra i suoi supporter una sorta di caccia alle streghe (facciamo pulizia, avanti con lo  spoil system), infine all’INPS con una chiamata in causa, implicita ma scoperta, del suo presidente.

Non un problema da poco. Se l’apparato amministrativo dello Stato fosse davvero infeudato a una maggioranza che ha governato a lungo, fino a trasformarsi in regime, sarebbe la nostra democrazia e non solo il governo ora in carica – legittimo, fuor di ogni dubbio – ad essere minacciata. Senonché, andando al fondo della questione, stando ai dati di fatto, la minaccia non esiste, ovvero non si è manifestata in questo caso. Ma se ne è manifestata una non meno grave di segno diverso.

Su questo qualche parola in più va spesa. Il dato di fatto è che la relazione tecnica non conteneva alcun dato né alcuna stima tale da avallare una previsione di diminuzione di occupati come effetto del decreto. Il testo letterale così recita (pag. 1): "Ai fini della stima degli effetti derivanti dalla riduzione del limite massimo di durata dei contratti a tempo determinato sono state formulate, per le attivazioni di ciascun anno, le seguenti ipotesi: - n° annuo di contratti a tempo determinato [che] superano la durata effettiva di 24 mesi: … 80.000 (elaborazioni su dati delle comunicazioni obbligatorie fornite dal ministero del Lavoro); - numero di soggetti che non trova altra occupazione dopo i 24 mesi pari al 10% degli 80.000 di cui sopra (8.000)."

Perché questa stima? È una stima che riguarda l’occupazione?

Una stima è richiesta dall’ordinamento per quantificare ogni prevedibile perdita di gettito per l’erario. In questo caso, sono prevedibili minori contributi (nei primi anni in cui, con il nuovo regime, sarà tagliata la durata massima) per la quota che mediamente, dicono i dati amministrativi, resta senza lavoro alla scadenza. Il passo citato è infatti seguito da una tabella in cui si evidenzia questa perdita (e quella per il conseguente maggior numero di sussidi di disoccupazione) nei primi tre anni (150 milioni in tutto). Nei successivi la situazione si stabilizza in pareggio perché il minore gettito contributivo è compensato dalla minore durata del sussidio di disoccupazione stabilita dal Jobs Act.

L’effetto sull’occupazione non è in questione. Non se ne può dedurre né che quei posti, non riassegnati alle stesse persone, restino vacanti né che la percentuale di persone “incagliate” non diminuisca rispetto allo stato presente grazie a un buon andamento della domanda di lavoro. La relazione non può e non deve spingersi a ipotesi diverse ma solo quantificare il mancato gettito per l’erario secondo l’andamento attuale. Per dare un’idea di quanto sia arbitrario tradurre i mancati rinnovi in minore occupazione: è come se, all’epoca in cui si sono stanziati una dozzina di miliardi per il bonus agli imprenditori che assumevano con il nuovo contratto “a tutele crescenti”, qualcuno, posto che una parte di quei contratti non sarebbero stati rinnovati alla scadenza del bonus (come è poi puntualmente avvenuto in misura superiore al previsto) avesse affermato che, di conseguenza, si sarebbero perse alcune centinaia di migliaia di posti di lavoro. Uno sfondone che avrebbe suscitato reazioni indignate: difatti, quei posti non sono scomparsi ma si sono trasformati in tempo determinato, così come oggi ci si deve augurare che avvenga il contrario.

Da dove nasce l’equivoco? Chi lo ha provocato? La risposta è tanto banale quanto inquietante. È Il Sole 24 Ore a pubblicare questa bufala – non saprei come altro chiamarla – confezionata da uno dei suoi collaboratori sulla base di un tweet di un ex consulente di Palazzo Chigi ai tempi di Renzi, ripreso a sua volta dal Foglio. Se si fosse trattato di una tesina universitaria sarebbe semplicemente incappata in una sonora bocciatura e non ne avrebbe parlato nessuno (men che meno l’autore). Invece ha trovato immediata ospitalità su tutta la stampa “di sistema” (o anti-populista, se si preferisce): sole eccezioni, un’intervista al prof. Tridico sul Fatto e una al prof. Alleva sul Manifesto, che spiegano in quattro parole quello che ho esposto più in dettaglio. E arriva ad essere ripetuta in audizione in Parlamento, con candore impagabile, dal direttore generale di Confindustria. Di più: il decreto avrà “effetti negativi sull’occupazione superiori a quelli stimati dall’INPS” [dove? quando?]

Non si tratta dunque di prender le difese di tecnici ministeriali o parastatali, di cui ignoro del tutto l’orientamento politico, quanto di domandarsi se tutto ciò sia normale e risponda al requisito cardine della democrazia, secondo cui il consenso dei cittadini deve essere informato (a detta non di teorici della sovversione ma del fior fiore del pensiero liberale, oltre che della sinistra più moderna, ormai soprattutto quella più radicale). Aggiungo anche la preoccupazione che una gestione della comunicazione come quella scelta dal Movimento 5 Stelle sia l’opposto di ciò che servirebbe per contrastare questo controllo scientifico dell’opinione pubblica a fini di manipolazione sistematica. Impedire di parlare, se non previa autorizzazione, ai rappresentanti del popolo accentua la deriva antidemocratica e lascia campo libero a chi quei metodi li adotta con ben altro “volume di fuoco”.

Un ultimo sguardo getterei su un aspetto di contorno, che ci dice qualcosa sul costume che sta prevalendo in una sinistra poco in sintonia con il paese. L’offensiva politica scatenata su un equivoco costruito ad arte ha fornito lo spunto per esternazioni e diatribe sulle prospettive dell’economia mondiale, in cui si è distinto il presidente dell’INPS, che si è sentito chiamato in causa. Invece di appurare, come avrebbe dovuto, se l’Istituto avesse davvero prodotto una stima sull’andamento dell’occupazione in Italia nei prossimi dieci anni, ha preferito far propria quella attribuita falsamente all’INPS (che peraltro la relazione neanche nomina) offendendo così la professionalità e il lavoro, al servizio del Paese, dei dipendenti dell’Istituto che presiede.

PS. C’era in Italia un Istituto pubblico di ricerca che si occupava di elaborare semestralmente stime di notevole livello scientifico sugli andamenti macroeconomici (del successivo semestre, senza mai azzardare previsioni addirittura decennali, buone per cartomanti più che per ricercatori). Si chiamava ISAE e il ministro da cui dipendeva (Giulio Tremonti) ha deciso di chiuderlo nel momento in cui ha realizzato che svolgeva il suo lavoro senza obbedire ad altra legge che quella riassunta da “amicus Plato sed magis amica veritas”. E oggi l’Italia è l’unico paese europeo in cui non esiste un Istituto pubblico che svolga questi compiti. Il vuoto lo riempiono i duelli a distanza tra Boeri e Fassina.

Giovedì, 2. Agosto 2018
 

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